Ventidue

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                                                                                  18 aprile, Milano.


Il vicequestore Motta aveva lasciato gli uffici della Questura invitando il suo gruppo investigativo a fare altrettanto. Serviva una pausa, una lunga riflessione per mettere insieme quei tanti, troppi indizi che avevano a disposizione. Come una pista percorsa nel deserto con pochi punti di riferimento e labili tracce, quell'indagine continuava a non svelare la strada per arrivare alla piccola Elisabetta.

Forse era veramente necessario ricapitolare la situazione, evitando di lasciarsi sopraffare dalla delusione per gli scarsi risultati raggiunti fino a quel momento.

Erano partiti da un rapimento, poi però la situazione era ulteriormente peggiorata: avevano dei cadaveri e dei lutti da elaborare.

L'intera squadra investigativa non era usa a futili recriminazioni, ma ad oggi gli uomini del vicequestore non potevano fare a meno di considerare l'eventualità di aver commesso qualche sbaglio.

Appena rientrato in casa, Motta, anziché chiudere la porta dietro di sé come al suo solito, si voltò chiudendola con entrambe le mani. Avrebbe voluto lasciare fuori il mondo e tutti quei pensieri, almeno per qualche ora.

Ma sapeva benissimo che non sarebbe stato possibile. Non oggi almeno. Era stata una brutta giornata: aveva dovuto chiamare la moglie di Nicolosi e non era stato facile, non lo era mai in quei casi. Le donne dei servitori dello Stato, sorrette da quel sesto senso tipicamente femminile, hanno la rara capacità di captare che in quello squillo telefonico c'è un suono diverso da tutti gli altri. Siano esse mogli, mamme, sorelle o figlie, si prendono carico di quel lutto fin dalla prima parola ascoltata al telefono. Non piangono subito, perché in loro prevale la consapevolezza che chi le ha chiamate condivide realmente il loro stesso dolore.

E quella non era stata l'unica incombenza di quel giorno. Il aveva anche dovuto contattare la madre di Elisabetta Dutti, aggiornandola sull'impossibilità di darle buone notizie.

E poi c'era Edoardo Baldi: almeno su di lui sembrava esserci la certezza dell'innocenza. Probabilmente una tragica coincidenza lo aveva messo in contatto con i rapinatori.

"O no?"

Disse ad alta voce Francesco Motta, e allora crollò, realizzando definitivamente che non aveva nulla in quel momento che potesse rivelare una concreta pista investigativa.

La tentazione di non accettare la verità aleggiava in quella casa. Della piccola Elisabetta Dutti non c'era traccia, doveva ammetterlo a se stesso. Non rimaneva che accettare questa verità: molto probabilmente non l'avrebbero più ritrovata.

Era la rabbia, soltanto quella, ad alimentare la sua speranza, sebbene sapesse che quella non era il suo miglior alleato. In nessun caso. Perché il furore acceca, annebbia, disorienta.

Pensò a quei corpi distesi a terra, dopo la sparatoria, in attesa dei soccorsi. Li avevano uccisi, per la triste e impellente necessità di doverlo fare, cosa che ora però impediva di avere da loro le informazioni fondamentali per l'indagine.

Poi squillò il telefono.

Era Nino Medici, per sincerarsi che il capo fosse arrivato a destinazione sano e salvo, visto che aveva rifiutato la scorta, contro il suo parere.

"Francesco, almeno li abbiamo presi."

"Non è abbastanza. Non sono loro, o almeno non sono stati soltanto loro. Manca la donna."

Nino, seduto nell'auto sotto la Questura, abbassò lo sguardo e sentì la sconfitta arrivare. Dritta tra le costole. Una fitta dolorosa. Come una scheggia di vetro conficcata a fondo nel corpo del poliziotto.

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