Quattro

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L'esame del DNA era appena arrivato nelle mani del vicequestore e proprio mentre stava aprendo la busta siglata come riservata, arrivò la telefonata di Mauro Alberetti.

"Francesco, sono mortificato. Ho sbagliato senza pensarci." Il tono era sinceramente triste, e Motta ne colse tutto il significato.

"Ho capito Mauro, ci avevo già anche pensato, ma non ti avevo detto nulla. Il sangue è della bambina, vero?"

"Sì." E nel rispondere, Alberetti chiuse la conversazione.

Francesco Motta avrebbe dovuto riflettere riguardo la sua attitudine ad azzeccare le previsioni, ma avrebbe di gran lunga preferito potersi godere un risultato delle analisi diverso e illuminante.

Erano passati tre giorni dal rapimento e le indagini stentavano a prendere una qualsiasi direzione. Le speranze su Elisabetta stavano via via scemando. Le statistiche parlavano chiaro: entro ventiquattro ore si considerava l'80% delle possibilità di ritrovare una persona scomparsa, ma oltre quella tempistica le percentuali scendevano vertiginosamente.

Però quell'indagine non riguardava una scomparsa. Il caso era ben diverso. Non capitava spesso un rapimento da quando il governo italiano aveva introdotto la confisca dei beni della famiglia del rapito, anzi era un fatto ormai raro. E quello era un rapimento in piena regola: non una sola persona, ma tre membri di una banda avevano agito con quel chiaro intento. E la domanda, per quanto banale, risultava centrale: perché?

Per denaro? In quel caso si sarebbe dovuto attendere una richiesta a breve, ma le possibilità economiche della coppia erano modeste.

Per un regolamento di conti? Su questo avrebbero dovuto indagare, ma il modus operandi della banda sembrava suggerire qualcosa di diverso.

Un rapimento su commissione? Una destinazione ben precisa? Ma quale?

Francesco Motta si tormentava da ore su quell'argomento, senza giungere a nessuna conclusione utile. Poi, gli si palesò alla mente un'ulteriore previsione: le possibilità di successo sarebbero presto diventate prossime allo zero e in preda allo scoramento, senza volere, urtò un libro che teneva da giorni sulla scrivania e questo, muovendosi, fece cadere un'agenda, la sua.

Raccogliendola, Motta ebbe all'improvviso un'intuizione che lo portò a compiere la prima mossa giusta.

C'erano voluti tre giorni, però a volte l'attesa serve anche per evitare piste sbagliate. Questo era uno dei punti fermi delle modalità investigative del vicequestore Motta: saper aspettare.

Così prese il telefono cellulare dalla tasca e compose un numero già in memoria.

"Camille? Disturbo?"

"Tu cosa dici? È mezzanotte!" Camille Clifford era un ufficiale dell'Interpol con sede presso il Segretariato Generale, un edificio magnificamente costruito sulla sponda sud del Rodano, a Lione.

"Scusa, ma se mi rispondi vuol dire che sei ancora in ufficio anche tu." Il pensiero lineare di Motta, come sempre, non faceva una grinza.

"Vero, ma che ne sai cosa sto facendo?"

"Detta così, suona interessante. Quasi quasi in quattro ore sono lì. Che fai, mi aspetti?"

"Sarebbe bello. Dico davvero, come l'ultima volta."

"Così, però, mi fai stare male."

Una pausa lunga, evocativa, servì a entrambi per ricordare che tra loro non c'era un semplice rapporto professionale. Erano amanti, e amanti appassionati.

Capelli corti, lisci, con un taglio di capelli che lasciava emergere un viso di una bellezza decisamente affascinante tale da destare ovunque andasse un'ammirazione sincera e viscerale. Non da meno un fisico atletico e delicato insieme, le permettevano di indossare qualunque cosa e il risultato finale non deludeva mai.

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