Capitolo 20

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.20.

SILENE

«Altolà

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«Altolà. Non muoverti... Padre.».

***

Nella mia mente, il teatro d'ombre di un passato remoto, fluiva come la visione di un vecchio film in bianco e nero; mostrandomi avvenimenti - legati all'infanzia - custoditi con amore nei meandri della mente. Colui che chiamavo papà da tempo immemore, lo rimembravo come un genitore molto attento e premuroso. Cosa l'aveva cambiato a tal punto?

Ricordai una piccola me, di cinque o sei anni, sgattaiolare furtiva nel suo studio privato, a casa - un posto inaccessibile per giocare - e nascondermi in qualche giaciglio o armadio, nella speranza che lui mi trovasse. Lui che, immancabilmente, mi scovava ogni volta e mi sorrideva soddisfatto... Da quanto tempo non eravamo spensierati come in quei lieti giorni, ma pressoché due estranei?

Spesso mi lasciavo andare ai sentimentalismi, ma la freddezza e l'apatia con cui mi guardava - quell'uomo che mi aveva cresciuta -, mi diedero una scarica di rabbia e irritazione.

Raggiungere il suo studio, in casa nostra - adesso che ero diventata una fuggiasca e una traditrice della patria - era stato difficile, aggirare la sorveglianza anche, ma mai quanto tendere il braccio destro e puntargli una pistola alla fronte. Quella che conservava - non troppo segretamente - nel primo cassetto della scrivania. Non avevo mai maneggiato un'arma, ragionai tra me e me, celata in parte dall'oscurità della stanza; solo un piccolo lume schiariva i nostri volti. Da un lato mio padre mentre dall'altro, io. «Se proverai a chiamare la sicurezza, ti sparerò.» affermai risoluta, impugnando saldamente il manico della revolver. Non avevo paura, volevo riprendermi solo ciò che mi avevano strappato via.

«Ti stavo aspettando... Figlia.» ignorò il mio commento. Il modo in cui pronunciò “figlia” fu impersonale quanto il resto della frase. Una parola come tante... Non una sola emozione tradì l'espressione di apatia. Immobile come una statua di marmo.

«Aspettavi me, dunque. Perché?» lo fissai dritto negli occhi, in cerca di qualcosa di paterno o - per lo meno - che mi fosse familiare.

«Per mostrarti questa.» estrasse dalla tasca una piccola boccetta pregiata e la scosse fino a farne uscire una pasticca bianca.

«Una pillola?». Mi stava forse prendendo in giro?!

Lui annuì calmo, incurante di avere un'arma carica puntata addosso: «Un farmaco molto speciale. Noi lo chiamiamo: SAV-AGE.».

«E che sarebbe?!». Mi sembrava di impazzire. Cosa poteva fregarmene di una sottospecie di caramella per la tosse?!

«Un progetto di laboratorio che anestetizza l'istinto animale e tutte le emozioni che ne conseguono, rendendo l'individuo che ne fa uso, anestetizzato e più attivo sul campo di battaglia.» spiegò in seguito: «Una pillola capace di lenire ogni sofferenza e renderti un killer spietato, privo di sensi di colpa e rimpianti.» continuò, gelandomi il sangue nelle vene.

Savage // Vol. 2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora