III. Messaggero

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"Signor Stewart, è tornato tardi oggi"
Stephen superò la soglia del palazzo, con la porta tenuta aperta dal portiere nella sua divisa rossa.
"Sono andato al Met" rispose.
Il portiere sorrise.
"Da solo?" domandò.
Non era la prima volta che il portiere gli faceva domande così personali, come se lo conoscesse da tempo e non da una settimana.
Gli Stewart erano giunti a New York da Los Angeles solo una settimana prima, ma Stephen aveva aspettato ad andare a scuola per poter ambientarsi un po'.
Da che aveva memoria la sua famiglia non rimaneva nella stessa città per più di un anno, quindi ormai aveva rinunciato ad essere presente il primo giorno di scuola.
Che senso aveva affezionarsi ed essere presente fin dal primo giorno, dando terribilmente importanza all'ambiente scolastico, quando quella sarebbe stata solo l'ennesima scuola?
L'unica speranza che Stephen riponeva era il college: sarebbe stato maggiorenne e avrebbe fatto quello che più desiderava.
Finalmente avrebbe potuto mettere radici da qualche parte.
Non ricordava molto dei suoi primi anni di vita, ma durante quei giorni si era più volte chiesto se non avesse vissuto lì a New York, in quel palazzo.
Questo avrebbe spiegato perchè il portiere lo trattava come se fossero amici di vecchia data.
O forse era solo di natura molto espansivo con tutti.
"Una mia compagna di classe" rispose.
Gli fece un sorriso di congedo e aspettò l'arrivo dell'ascensore.
I suoi genitori avrebbero voluto frequentasse l'ultimo anno di superiori in una scuola privata nell'Upper East Side, ma Stephen non aveva voluto.
Per tutta la vita aveva seguito il volere dei genitori, ma ora non più: voleva passare l'ultimo anno in una scuola pubblica, con ragazzi che non si vantavano continuamente dell'eredità che a diciotto anni avrebbero ricevuto e ragazze che parlavano dell'ultima collezione di scarpe Louboutin.
Non è che avesse proprio mentito a Daisy, pensò mentre entrava nell'ascensore e premeva il tasto per l'ultimo piano, aveva solo omesso una parte di verità.
Le aveva detto che abitava a Manhattan ed era vero, si era solo scordato di dire in quale parte di preciso.
Non voleva che lei sapesse quanto i suoi genitori fossero facoltosi o di quanto grande fosse il suo attico, perchè poi sarebbero sorti i soliti pregiudizi.
Credeva che Daisy non fosse come tutti gli altri ed era sicuro che non l'avrebbe giudicato per la sua famiglia, ma Stephen non voleva rischiare.
Voleva che quell'anno fosse diverso dagli altri e non avrebbe fatto nulla che potesse rovinarlo.
Negli ultimi anni aveva evitato di fare amicizia a scuola, perchè sapeva che dopo sarebbe stato solamente più difficile cambiare città a causa del lavoro da imprenditore di suo padre.
Eppure c'era stato qualcosa che l'aveva attirato verso quella ragazza vestita di nero che se ne stava sempre sulle sue e con la lingua tagliente.
Stephen non si era mai innamorato, anche se avrebbe tanto voluto.
Nei libri il primo amore era sempre quello che veniva descritto: la sua intensità, il modo in cui ti faceva cambiare visione del mondo, il modo in cui gli adolescenti credevano che sarebbe stato l'ultimo.
Lui non aveva idea di cosa si provasse davvero.
Era la verità?, si chiedeva, era davvero come lo descrivono? Avrebbe mai incontrato qualcuno che l'avrebbe fatto sentire così bene?
"Sei tornato, finalmente" la voce severa di sua madre lo accolse non appena varcò la soglia di casa.
I suoi capelli scuri erano raccolti in uno chignon stretto alla base del collo e i suoi occhi azzurro ghiaccio lo stavano guardando come se lo stessero scrutando.
"Dove sei stato?" continuò "Non ti è passato per la testa di fare una chiamata per avvisare che avresti fatto tardi?"
"Non è così tardi" non riuscì ad evitare di replicare Stephen "e poi ero al Met qui a fianco"
"Non pensavo ti piacesse così tanto l'arte"
"Già, fino ad oggi non lo sapevo nemmeno io"
Si tolse la giacca e fece per appenderla, ma la loro governante lo fece per lui.
"Grazie Louisa, non dovevi" le disse.
"La paghiamo per questo" ribattè sua madre, Margaret.
"È un piacere, signore" intervenne Louisa, come per portare la pace tra i due.
Anche lei sembrava comportarsi e parlargli come se lo conoscesse da una vita: conosceva i suoi piatti preferiti e a volte gli faceva trovare sul cuscino un libro del genere che preferiva.
Louisa chinò lo sguardo e sparì in cucina, per cucinare la cena.
"Sai che non sono degli schiavi, mamma?" fece Stephen "Sono persone anche i domestici"
"Non parlarmi così" impose Margaret.
I suoi occhi erano più freddi del solito.
Lui rinunciò: ogni sera era sempre così, finivano a litigare per qualsiasi cosa, ma quella giornata era andata così bene che Stephen non voleva si concludesse con una nota amara.
Ripensò a Rebecca, la madre di Daisy, e al modo in cui il suo viso di era rimepito d'affetto quando Stephen le aveva detto che stava cercando la figlia.
Si chiese se anche sua madre avesse quell'espressione quando qualcuno nominava lui.
All'improvviso la porta dello studio di suo padre Robert si aprì e lui uscì.
La luce riflettè sul suo capo calvo e i suoi occhi verdi sembravano più scuri del normale con il calare della sera.
"Ciao, Stephen" disse, ma più come se fosse un autonoma e non si fosse nemmeno accorto di aver detto quelle parole.
Stephen ci era abituato e gli fece solo un cenno con il capo.
All'improvviso si sentì un certo trambusto in cucina e poi qualcosa cadere e frantumarsi.
Margaret sospirò, esasperata.
"Louisa" borbottò, a denti stretti "non ne posso già più"
Sua madre si diresse verso la cucina, seguita dal padre.
Stephen rimase solo nell'atrio dell'attico, chiedendosi cosa fosse successo.
Poi adocchiò qualcosa che non aveva mai visto in vita sua: l'ufficio di Robert era con la porta scorrevole spalancata.
Suo padre doveva essersi scordato di chiuderlo a chiave come sempre a causa della faccenda in cucina.
Sorrise e si infilò all'interno, chiudendosi la porta alle spalle.
Si sentiva come un'agente dell'FBI sottocopertura, come se fosse in un episodio di Rizzoli and Isles.
Era la prima volta in tutta la sua vita che vedeva l'interno dello studio di suo padre – perchè in ogni casa in ogni città aveva lo studio sempre sigillato – eppure quando la sua vista fu catturata dal grande quadro dietro la sedia in pelle dallo schienale alto, si disse che lui quel posto l'aveva già visto.
Il quadro ritraeva il dio Apollo, avvolto in un mantello dorato come il sole che era il suo elemento, con in mano una cetra e il capo incorniciato da una corona d'alloro, circondato dalle nove muse: Tersicore che danzava insieme ad Erato con la cetra, Calliope intenta a comporre, Talia con la ghirlanda in capo e un bastone, Polimnia seduta accanto ad Apollo, Clio con una pergamena srotolata, Urania con un globo che attirava tutta la sua attenzione, Melpomene con i capelli coperti da una maschera, Euterpe con un flauto in mano.
C'era qualcosa di affascinante in ognuna delle muse, come se ti invitassero ad avvicinarti per ottenere la chiave del canto perfetto.
Erano figlie di Zeus, ma portatrici di tutte le arti e le grazie e potevano concederle ai loro mortali prediletti, come una sorta di messaggere tra due mondi.
Era accaduto ad Esiodo sul monte Elicona e Stephen immaginò Daisy venire incoronata da quelle nove dee.
Aveva sentito il professor Gilbert dirle che Yale aveva un corso di poesia e lui aveva pensato che Daisy dovesse saper scrivere.
Si chiese se sarebbe mai riuscito a leggere qualcosa di suo.
Stephen spostò lo sguardo sulla scrivania del padre: c'era un computer fisso spento e accanto alla tastiera una tazza con alcune penne e matite.
Adocchiò una foto incorniciata dall'altra lato e la prese in mano.
Si sorprese nel constatare che ritraeva Robert e Margaret con una mano ciascuno sulle spalle di Stephen, che doveva aver avuto su per giù quattrordici anni.
Ricordava il giorno dello scatto di quella foto, perchè per la prima volta da che ne aveva memoria sua madre era stata di buon umore per tutto il tempo.
Rimise il quadretto a posto e la sua attenzione fu catturata da un libro nascosto da una pila di fogli – probabilmente scartoffie o documenti imprenditoriali – sul bordo del tavolo di legno.
Aggrottò la fronte e lo prese.
Non era un libro, pensò, sembrava più un diario in pelle, come se fosse incredibilmente antico.
Lo aprì alla prima pagina e si mosse con cautela perchè le pagine sembravano così fragili che anche solo il respiro di Stephen avrebbe potuto strapparle.
Un tempo probabilmente doveva esserci scritto a chi apparteneva il diario, ma ormai le parole erano completamente sbiadite.
Notò che però una parola spiccava ancora.
"Dickens" mormorò, sfiorando il contorno delle lettere con il dito.
Pensò fosse un riferimento allo scrittore, ma aguzzò la vista e vide che qualche centimetro sotto c'era scritto qualcos'altro: Stewart.
Quante possibilità c'erano che due cognomi che conosceva fossero sulla stessa pagina di diario ma fosse una coincidenza?
Quante possibilità c'erano che un suo antenato di nome Stewart avesse scritto sul suo diario magari un commento su uno dei libri di Dickens?
Stephen non credeva alle coincidenze.
C'era scritto anche qualcos'altro, in una lingua che doveva essere latino, ma era così sbiadito che non seppe se ciò che leggeva – Domum me fer – fosse ciò che davvero c'era scritto.
Poi l'occhio gli cadde sulla striscia sottile di pelle che doveva fungere da segnalibro e quindi andò alla pagina indicata.
La scritta che c'era si leggeva perfettamente, come se per tutti quei secoli fosse stata conservata con cura e attenzione.

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