XV. Chi potrebbe restare

43 5 0
                                    


Il sole primaverile filtrava attraverso le alte finestre della biblioteca, illuminando gli scaffali ricolmi di libri – dai più antichi ai più recenti – e gettando ombre che da piccola avevano sempre spaventato Daisy.
C'era da dire che Jesse non aiutava, da questo punto di vista: era solito nascondersi dietro gli scaffali e spaventarla lui stesso, accrescendo la sua paura.
Ma ora era cresciuta.
Ora non aveva più paura.
Si lasciò sprofondare nella poltrona imbottita e aprì il libro che aveva in grembo, in modo da poterlo leggere.
Trovava non esistesse una sensazione più rilassante e bella che sedersi a leggere un libro, magari con una tazza di tè o cioccolata calda accanto.
Come se fosse stata evocata per magia, Daisy voltò la testa e vide che sul bracciolo della poltrona vi era una tazza di cioccolata.
Aggrottò la fronte, ma non si fece domande.
Le sembrava che la sua mente fosse sconnessa, come se non ci fossero più pensieri complicati e difficili dentro di lei.
Si sentiva leggera, come se fosse sul punto di sollevarsi per prendere il volo.
Era la sensazione più bella che avesse mai provato.
Una parte del suo cervello le diceva che l'aveva già provata moltissime altre volte, ma in quel momento non riusciva proprio ad afferrare il ricordo.
Scacciò quei pensieri e girò pagina, mentre l'inchiostro delle pagine compariva e le dava una sensazione di sicurezza, una sensazione di controllo.
Registrò distrattamente il suono della campanella che segnalava l'entrata di un nuovo cliente, ma non ci fece caso più di tanto: in qualche modo sapeva che era il turno di sua madre in servizio, perciò lei poteva continuare a rilassarsi.
Se fosse stato per lei, non si sarebbe mai alzata da quella poltrona.
Anche se... doveva ammettere che qualcosa mancava, anche se non riusciva a capire che cosa.
Sentiva una specie di peso sul cuore, come se su di esso vi si fossero posati una montagnetta di sassolini, come quelle che i bambini facevano in spiaggia per passare il tempo.
Dopo qualche istante, sentì delle braccia avvolgerla e stringerla.
Sentì un familiare profumo di città, caffè e vento primaverile.
"Ehi" bisbigliò una voce nel suo orecchio "cosa leggi?"
Fu quando Stephen le posò un bacio sulla guancia, poggiando il mento sulla spalla di lei, che Daisy ebbe la conferma di tutte le sensazioni provate poco prima.
Era bellissimo, ma non era reale.
Non era reale il sole che le scaldava la pelle, non era reale il libro che stava leggendo e non era reale il bacio che Stephen le stava dando, posando le sue labbra su quelle di lei, dopo averle girato delicatamente il mento in modo che potesse baciarla.
Daisy chiuse gli occhi, istintivamente, mentre lui l'attirava ancora più a sè.
Avrebbe voluto non fosse un sogno, ma aveva imparato che di solito i desideri non si realizzano mai.
"Non vedevo l'ora di farlo" disse Stephen, un soffio sulle sue labbra, mentre si staccava da lei.
Le loro fronti si sfioravano ancora, come se bramassero anche solo un minimo contatto.
"Ti ho pensato così tanto, ultimamente" continuò, come se fosse sollevato di porterlo dire ad alta voce "anche se la verità è che ti penso continuamente. E tu? Mi pensi?"
"Ti sto pensando adesso" rispose lei.
Le parole di Stephen parevano un'arma a doppio taglio, come se una lama fosse il veleno e l'altra la cura.
Erano come aghi che le pungevano il cuore, perchè quelle parole non erano reali, erano solo il frutto della mente addormentata di Daisy che cercava di dare sollievo almeno nei sogni alla sua proprietaria.
Eppure... allo stesso tempo non voleva svegliarsi, perchè sapeva bene che solo nei sogni Stephen le avrebbe detto quelle cose così belle e così false.
Alla fine non era il dilemma più vecchio del mondo, tentare continuamente anche se l'unica risposta che si ha è il fallimento?
Tantalo non provava continuamente ad afferrare i frutti dall'albero che pendeva su di lui, sebbene sapesse che non sarebbe mai riuscito a prenderli?
Sisifo non continuava a trasportare il suo masso lungo il fianco della montagna sebbene sapesse che sarebbe inesorabilmente rotolato giù di nuovo?
"Vorrei che allo spuntare del sole non te ne andassi" disse Daisy.
Dire quello che pensava davvero, i più profondi segreti del suo cuore anche alla luce del sole, da sveglia, quando si trovava nel mondo reale, sarebbe stato altrettanto liberatorio?
Di più, lo sapeva, perchè nella realtà non avrebbe potuto tornare indietro.
Ma lì, in quel mondo onirico dove si trovavano loro due, cuore contro cuore, anima contro anima, desiderio contro desiderio, tutto sembrava terribilmente semplice.
Stephen aggrottò la fronte e le posò una mano sulla guancia, carezzandogliela, come se stesse scacciando delle lacrime inesistenti.
No, realizzò Daisy, non erano inesistenti.
Improvvisamete si rese conto di avere le guance bagnate.
"Chi potrebbe lasciarti, Shakespeare?" sussurrò lui.
Daisy posò la testa nell'incavo del collo di Stephen e chiuse gli occhi, le lacrime che si impigliavano alle ciglia.
Le sarebbe piaciuto sognare più spesso.
"Ma chi resterebbe?" bisbigliò.
Pensò a Jesse, pensò a Cory.
Resta, pensò, resta.
Quelle parole erano ancora sulla punta della sua lingua quando si svegliò, ritrovandosi nella sua camera, avvolta in un intrico di coperte.
Si voltò di lato e chiuse di nuovo gli occhi.
Quella era la giornata dell'anno che temeva di più, quella che ogni anno desiderava passare nascosta sotto le coperte dove da piccola si rifugiava per sfuggire ai mostri.
Ma, come nel sogno, ormai era cresciuta.
Si alzò di forza e si voltò verso la finestra, dove il sole era appena sorto oltre i grattacieli di Manhattan, oltre l'East River.
"Buon compleanno, fratellone" disse al nulla.
Non sapeva perchè, forse il vero colpevole era il sogno che aveva appena fatto o forse la debolezza di quel giorno particolare, ma in qualche modo si ritrovò con il cellulare in mano e le dita che toccavano le lettere che componevano il messaggio.
Probabilmente Stephen stava ancora dormendo, come tutti d'altronde di domenica, e probabilmente avrebbe letto il messaggio una volta che Daisy fosse già stata di ritorno, ma dopo aver premuto il tasto "invia" lei si sentì meglio.
Era lui l'unica persona che voleva in quel momento.
Forse sua madre si sarebbe arrabbiata perchè Daisy non l'aveva aspettata, pensò mentre usciva dalla finestra e scendeva le scale anti-incendio, ma alla fine avrebbe capito.
Lei aveva bisogno di portare il lutto da sola.
Attraversò la strada ed entrò dentro Prospect Park, procedendo avvolta dalla natura.
Essendo primavera, le foglie rosse, dorate e brune cadute a terra durante le stagioni autunnali e invernali stavano pian piano scomparendo, sostituite dalle sorelle verdi e brillanti sui rami.
Daisy si ritrovò a pensare a come il topos letterario delle foglie fosse così universale: alla fine Jesse non era che una foglia fra tante che era caduta dal suo albero, prima del tempo.
Non c'era nessuno a quell'ora di mattina, solo qualche uccello mattiniero che mostrava la sua presenza con brevi cinguetii.
Gli scoiattoli non erano così frequenti come a Central Park, ma lei riuscì lo stesso a scorgerne uno e si ritrovò a sorridere.
Ricordava che, da piccolo, Jesse amava rincorrerli e cercare di catturarne uno, per poi creare una band insieme a loro – quest'ultima cosa per colpa della saga di film Alvin Superstar e i suoi fratelli Chipmunk.
Il cimitero di Green Wood si trovava a sud di Prospect Park e quando Daisy si ritrovò davanti le due guglie che la guardavano dall'alto come due guardiani fece un respiro profondo.
Doveva ammettere che l'entrata era di una bellezza lugubre, con due alti archi elaborati, intervallati da tre pinnacoli con quello centrale che spiccava su tutta la struttura.
Nella parte inferiore degli archi vi era una specie di capitello, con alcune statue in miniatura.
Dopo tutte quelle volte che vi era stata, sarebbe potuta arrivare alla tomba di Jesse anche con gli occhi chiusi.
C'erano varie personalità importanti in quel cimitero, tra gli angeli di pietra e le tombe, come Leonard Jerome, il nonno di Wiston Churchill, l'inventore del telegrafo Samuel Morse e il sindaco della città DeWitt Clinton.
Ma era uno solo il nome che interessava a Daisy.
Quando se lo ritrovò davanti, il suo cuore perse un battito come tutte le volte.
Probabilmente non sarebbe mai giunto il giorno in cui la vista di quelle lettere non le avesse fatto male, come la prima volta.
"Ciao fratellone" bisbigliò "stai diventando vecchio, eh?"
Si inginocchiò e sfiorò con la mano bianca la tomba grigia, percorrendo con la punta delle dita le lettere che andavano a formare il nome Jesse Dickens.
Odiava la vista del trattino che separava le due date – quella di nascita e di morte –, come se tutta la meravigliosa sebbene breve vita che lui aveva vissuto fosse contenuta in quel misero trattino.
Jesse era stato più che una scritta su un tomba, più che un amato figlio, fratello e amico.
Era stato il ragazzo che la domenica mattina la svegliava saltando sul suo letto e ingaggiando una battaglia di cuscini, era il ragazzo che in inverno mentre tornava da scuola la sorprendeva con un attacco di palle di neve a sorpresa, era il ragazzo che sapeva dire la cosa giusta al momento giusto, riuscendo a far ridere persino il più austero degli uomini, era il ragazzo che voleva girare il mondo per trovare il suo posto.
"Mi manchi così tanto, Jesse" bisbigliò Daisy.
La sua voce si spezzò, ma non le importava.
Non c'era nessuno ma anche se ci fosse stato, non le sarebbe importato lo stesso.
Il cimitero dove riposava su fratello era uno dei pochi lughi in cui si concedeva di far cadere la maschera che ormai indossava da anni, che ormai era diventata così parte di lei che a volte si chiedeva se sarebbe stata capace di toglierla se solo lo avesse voluto.
Dicono che se si trattiene troppo a lungo il dolore, alla fine si esplode.
Daisy non ci credeva, credeva che alla fine il dolore sarebbe solo diventato parte integrante di te, finchè non avesse preso completamente il controllo del tuo corpo.
"Alcune mattine mi sveglio e sono convinta di vederti entrare da un momento all'altro nella mia camera, per dirmi che la mamma ha fatto i pancake per colazione e che tu ruscirai a mangiarne più di me" disse "quando sono in biblioteca seduta sulle poltrone e sono sul punto di appisolarmi a volte mi sembra di sentire la tua voce, mentre racconti ad un cliente perchè dovrebbe prendere un certo libro che hai letto"
Fece un leggero sorriso, mentre si sentiva gli occhi pungere.
"Penso ancora fossi troppo invadente, lo sai? Ma a modo tuo stavi dando una mano al povero malcapitato venuto solo per un libro qualsiasi"
Lasciò ricadere la mano, che sfiorò terra.
"Il prossimo weekend devo andare a New Haven per un colloquio che Gilbert è riuscito a rimediare con il rettore di Yale" gli raccontò "spero di non fare un disastro, sai come non sopporto queste situazioni. Dirò di sicuro la frase sbagliata e alla fine mi scarteranno"
Fece una breve pausa.
"Mi diresti che farò un figurone, non è vero?" disse, a voce bassissima "Vorrei poterti credere"
Una lacrima solitaria scivolò lungo la sua guancia, finendo sulla tomba di Jesse.
Era quella la cosa più vicina ad un contatto che avrebbero mai avuto?
Una lacrima su una fredda lapide?
"Vorrei che fossi qui" bisbigliò.

WonderlandDove le storie prendono vita. Scoprilo ora