XXIV. Una cosa alla volta

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Una volta, da piccola, Daisy era andata in campeggio con i suoi genitori e Jesse.
Ricordava le interminabili passeggiate in montagna, i marshmallow davanti al fuoco scoppiettante e le notti nella tenda, con gli animali notturni che mostravano la loro presenza.
Ricordava anche la caduta.
Lei e Jesse avevano deciso di attraversare un piccolo fiume saltando solo sui massi sporgenti nel mezzo tra le due sponde.
"State attenti!" aveva detto Rebecca "Rischiate di farvi davvero male"
"Non sono affatto scivolosi" aveva replicato suo fratello "ce la caveremo, vero fiorellino?"
Daisy aveva annuito fiduciosa.
"Staremo attenti" aveva concluso Jesse.
Per buona parte del fiume era andato tutto bene, ma verso la fine era successo: Jesse aveva fatto una battuta particolarmente divertente e Daisy aveva riso.
Così, non era stata abbastanza cauta e il suo piede avvolto nello scarponcino era scivolato giù dal masso bagnato.
Per un istante si era sentita senza peso, come se le fossero spuntate un paio di ali e la stessero portando su su nel cielo.
Poi c'era stato l'impatto con l'acqua ghiacciata.
Era così che si sentiva ora, davanti all'uomo che aveva chiamato papà per così tanto tempo prima che l'abbandonasse.
Si sentiva cadere di una caduta infinita.
Cory Dickens si immobilizzò ancora di più, senza sbattere le palpebre oppure respirare.
Sembrava diventato una statua.
Eppure era lì, era davanti a lei, in carne ed ossa dopo così tanti anni e così tanto dolore.
Daisy ricordava perfettamente il colore nocciola dei suoi occhi, i suoi capelli scuri un po' arricciati vicino alle tempie che ora erano schiacciati dal cappello dell'uniforme scarlatta.
Come poteva essere lì?
"Daisy" mormorò Cory, con la voce che gli tremava e gli occhi che gli diventavano improvvisamente lucidi "sei davvero tu?"
Scattò in avanti, con le braccia spalancate come quando era piccola e lei vi si rifugiava al loro interno, protetta da ogni mostro e minaccia.
Daisy alzò le mani tremanti per fermarlo, ma Stephen fu più svelto: le si parò davanti e bloccò l'avanzata di Cory che si fermò di colpo.
"Lasciami andare da mia figlia" ringhiò.
"No" la voce di Stephen era ferma "come facciamo a sapere che lei è chi dice di essere? Il paese delle meraviglie è pieno zeppo di illusioni e incantesimi"
"Daisy" continuò Cory, fissando la figlia "guardami. Sono io. Sono papà. Chiedimi qualsiasi cosa"
Daisy sentiva dentro di sè stesse dicendo la verità.
Lo sapeva, lo sentiva fin nelle ossa e nelle terminazioni nervose dei suoi muscoli.
L'uomo che aveva davanti era suo padre.
L'uomo che l'aveva abbandonata.
Come poteva essere lì? Era così, allora? Era stato per tutto questo tempo a così poca distanza da lei?
Quante volte da quando aveva avuto l'anello di famiglia era entrata in quel romanzo?
"So che sei tu" bisbigliò.
Il volto di lui si aprì in un sorriso che avrebbe potuto illuminare l'intero paese della meraviglie.
Aveva sempre amato il sorriso di suo padre.
"Daisy, amore mio" Cory superò Stephen e le si piazzò davanti, guardandola con le lacrime agli occhi "sembri così cresciuta. Quanto tempo è passato?"
Daisy tremava.
Stephen sembrava sentirsi impotente: lo vedeva leggermente in disparte, che osservava padre e figlia attentamente, come in attesa del passo falso di uno dei due per scattare sull'attenti.
All'improvviso, un'ombra passò sul viso di Cory e lo rabbuiò.
"Dov'è Jesse?" domandò.
In campeggio, Jesse le aveva insegnato come accendere un fuoco sfregando due pietre focaie insieme.
Daisy era rimasta affascinata dalla scintilla vermiglia che era comparsa e poi scomparsa un secondo dopo, quando il fratello aveva fatto combaciare le due pietre.
La domanda di Cory fu la scintilla che fece accendere il fuoco che fremeva dentro Daisy.
"È morto" rispose e la sua voce le risultò estranea alle sue stesse orecchie.
Era evidente lo shock sul viso di suo padre.
"No" mormorò "non è possibile. Era in ospedale. I medici l'avevano indotto al coma farmaceutico. Avevano detto che c'era ancora tempo, che forse..."
"Tu ci hai abbandonate e Jesse è morto"
Daisy gli diede una spinta.
Voleva colpirlo con tutte le sue forze, fino a fargli sentire il dolore che lui aveva causato a lei e che continuava a causarle ogni giorno.
"Te ne sei andato e Jesse è morto" continuò e la voce le si alzò in un grido soffocato "te ne è mai importato qualcosa di noi, papà? Ci hai mai voluto almeno un po' di bene? Ti ho cercato per così tanto tempo, per così tanti anni, nel volto di ogni persona nuova che entrava in biblioteca, pregando perchè fossi tu, perchè fossi tornato scusandoti, con una buona spiegazione per quello che avevi fatto o anche senza. Avrei solo voluto tornassi. Ho pianto per te fino ad addormentarmi così tante notti da perderne il conto, tanto che nemmeno mi ricordo quand'è stata l'ultima volta in cui non è successo. Non ti sei presentato al funerale di tuo figlio, di mio fratello, che è morto in uno quallido ospedale quando tu non c'eri. E dov'eri, papà? Sei sempre stato qui. Per tutto questo tempo sei stato ad una transizione di distanza, nascosto in un libro come un codardo. Sei scappato e ci hai abbandonate"
Fece un respiro profondo, con il cuore che le batteva all'impazzata nel petto, un'eco come tamburi di guerra nelle sue orecchie.
Si sentiva la faccia bollente come se fosse stata troppo vicina al sole.
E poi realizzò.
"Come è dannatamente possibile che tu sia perfino qui?" gridò.
Probabilmente stava attirando l'attenzione delle guardie ma non le importava.
Avrebbe voluto gridare fino a non avere più voce.
"Non hai l'anello di famiglia eppure sei qui, in un maledettissimo libro, da anni!"
"Daisy, ti prego, lascia che ti spieghi" Cory fece un passo avanti, con le mani alzate, come un domatore davanti ad un cavallo imbizzarrito.
"Non mi toccare!"
Lui si immobilizzò di nuovo.
Daisy aveva il petto che si alzava e si abbassava all'impazzata e realizzò di star piangendo.
Non aveva idea di quando le lacrime avessero iniziato a scendere e non le importava.
"Shakespeare" disse Stephen, con voce gentile "respira"
Lei lo ignorò.
Tutta la sua attenzione era focalizzata su suo padre: con i suoi occhi voleva dirgli quello che era rimasto non detto.
Non ero degna del tuo amore? Non ti bastavo?
"D'accordo" disse Cory, a bassa voce, dopo un istante, alzando le mani in segno di resa "hai tutte le ragioni del mondo per avercela con me. Ma voglio spiegarti. È solo che ora... il mio Jesse"
"Jesse non è più tuo da quando ci hai abbandonate" scattò Daisy "hai perso ogni diritto di piangerlo come un padre quando hai smesso di esserlo per me e per lui, lasciandoci. Perciò ora non venire a dirmi che hai bisogno di tempo per il lutto, perchè hai avuto abbastanza tempo a disposizione per pensare a ciò che hai fatto. Dimmi come fai ad essere qui"
Sapeva di essere crudele ma non le importava.
Voleva che Cory soffrisse.
Si meritava di soffrire.
Stephen fece un passo avanti e l'affiancò.
Con lentezza, le posò una mano sul braccio e la guardò.
"Shakespeare" bisbigliò, come un avvertimento "non sei in te. Forse dovremmo andare in un posto più appartato"
"Sono eccome in me" ribattè "voglio una spiegazione e non mi muoverò di qui finchè non me la darà"
Ma non si scostò dalla presa gentile di Stephen.
Anche Cory sembrò notarlo, perchè sul suo viso si dipinse un'espressione ferita.
"Ti prometto che ti dirò tutto, ma almeno permettimi di portarvi in un posto lontano da orecchie indiscrete. Il tuo amico ha ragione: attireremo l'attenzione delle altre guardie. Per favore, fidati di me"
Daisy alzò il mento e lo fissò, con gli occhi azzurri che parevano la lama di una spada.
"Ho smesso di fidarmi delle promesse delle persone grazie a te" disse "io non mi fido di te"
"Daisy, se non lo ascoltiamo tutta la missione sarà compromessa. Non potremo trovare ciò che stiamo cercando"
Stephen le strinse il braccio costringendola a guardarlo negli occhi.
I suoi, grigi come una tempesta, erano fermi.
Alla fine, Daisy si costrinse ad annuire.
"Muoviamoci" aggiunse e guardò suo padre "facci strada"

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