VII. Frammenti di passato

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"Come possiamo aiutarvi?" domandò Lucia.
Aveva un tono di voce gentile, come se la sua voce non potesse naturalmente pronunciare brutte parole.
Daisy lanciò un'occhiata a Stephen, decidendo all'improvviso.
"Io e mio fratello siamo stati contagiati settimane fa durante la prima ondata" spiegò "siamo guariti per volere di Dio, ma per qualche motivo i monatti si sono convinti fossimo ancora malati e ci hanno sigillati dentro. Forse pensavano saremmo potuti divetare untori"
Lucia sembrava addolorata.
"Vi prego, sedetevi con noi" disse "se fossimo in una situazione normale potrei offrivi del te ma..."
"Non c'è problema" intervenne Steohen, sorridendole "Non è vero, sorella?"
Si voltò verso Daisy, in modo che fosse di spalle alle altre due.
"Fratello?" sillabò, trattenendosi dal ridere.
Daisy si limitò ad annuire, sorridendo cordialmente a Lucia.
Aveva dovuto pensare in fretta e quello era tutto ciò che era riuscita ad escogitare: non avrebbero potuto dire di essere sposati, in quanto non avevano le fedi, e di sicuro non avrebbero potuto dire di essere amici.
In quell'epoca, una donna non poteva di certo stare da sola per settimane con un uomo che non fosse un suo familiare.
"Siete di Milano?" domandò poi la mercantessa.
Li stava osservando con un sguardo scrutatore, come se stesse ancora decidendo se potesse fidarsi di loro.
"Non proprio" rispose Daisy "veniamo da tanto lontano. Un paesino di provincia che non compare sulle mappe"
"Eravamo a Milano per trovare i nostri zii" aggiunse Stephen "e poi è scoppiata la peste"
"Capisco"
Lucia, nel frattempo, aveva tirato fuori il suo rosario e stava bisbigliando a bassa voce.
"Pregate per qualcuno in particolare?" domandò Daisy.
Se fosse risucita ad intavolare il discorso Renzo, forse sarebbero arrivati da qualche parte.
Lucia alzò lo sguardo.
"Mia madre" rispose "spero che a Lecco vada tutto bene"
"Non avete un promesso sposo? Siete molto bella"
La ragazza arrossì leggermente.
"Il mio Renzo... be' forse non dovrei più chiamarlo così" ammise "ci saremmo dovuti sposare, ma è stato molto tempo fa. Temo non fosse scritto nel piano di Dio"
"Non parlare così, bambina" intervenne la mercantessa "sai bene di chi è la colpa"
Gli occhi di Lucia si riempirono di lacrime.
"Non mi piace parlare di quel periodo, mia signora, sapete quanto mi sia costato aprirmi con voi"
La mercantessa si rivolse a Daisy e la fissò per un po'.
"Non ci avete detto i vostri nomi" disse alla fine.
Daisy impallidì per un istante, mentre il suo cervello correva macchinosamente alla ricerca della risposta corretta.
Non avrebbe potuto rivelare i loro veri nomi, perchè erano inglesi e non di certo italiani.
"Margherita" rispose alla fine, ricordandosi all'improvviso che il suo nome aveva una traduzione italiana "e lui è Stefano"
"Avete perso il vostro fermaglio, signorina Margherita?"
Daisy fece scattare la mano ai suoi capelli e si rese conto di averli ancora sciolti sulle spalle.
Non era consono in quell'epoca.
"Si è rotto" ammise, con un sorriso di scuse "non ne avevo un altro"
Lucia armeggiò con i suoi capelli e ne estrasse uno, semplice ma finemente intagliato.
"Non preoccupatevi, ne avevo due" disse, quando la mercatessa la guardò allarmata "e poi uno dei valori del buon cristiano è la condivisione dei propri beni"
Si sporse in avanti e tese la mano a Daisy, che la guardava sorpresa.
Si era dimenticata di quanto Lucia fosse altruista e generosa, forse il personaggio più integro dell'intero romanzo.
"Lo fareste davvero? Mi dareste uno dei vostri fermagli?" chiese.
L'altra sorrise.
"Abbiamo entrambe avuto la peste e siamo guarite, signorina Margherita" disse "non c'è possibilità di contagiarci a vicenda"
Daisy prese il fermaglio e quando le sue dita si serrarono intorno all'oggetto, capì.
La risposta non era mai stata Renzo, pensò, ma Lucia.
Le donne della letteratura avevano da sempre troppa poca considerazione.
Perchè non appena toccò il fermaglio, capì che era quello l'oggetto che stavano cercando.
Non sapeva come facesse a saperlo – forse si trattava del sangue dei Dickens che scorreva nelle sue vene o il fatto che le sembrava che l'anello che portava al collo fosse più caldo del solito, come se fosse stato colpito da un fulmine – ma lo sapeva.
Strinse le dita intorno ad esso e si voltò verso Stephen, comunicandogli un muto messaggio con gli occhi.
È questo, cercò di dirgli, ce l'abbiamo fatta.
Stephen sembrò capire.
Fu in quel momento che il velo che fungeva da porta verso l'esterno si spalancò ed entrò Renzo.
Era un ragazzo sui vent'anni, con i capelli scuri e gli occhi castani, abbastanza bello anche se incredibilmente pallido.
Sembrava che avesse corso per tutta Milano prima di giungere finalmente lì.
"Lucia" disse, esalando il fiato "mi pareva di aver sentito la vostra voce"
A Daisy parve di non aver mai sentito pronunciare un nome con così tanta adorazione e rispetto.
Sembrava che il nome di lei non potesse pronunciato che da lui, con quel tono, come se solo la voce di Renzo potesse dargli la sfumatura perfetta.
Daisy conosceva a memoria la conversazione che i due avevano e sapeva che Fra Cristoforo sarebbe giunto di lì a poco per sciogliere il voto di castità di Lucia, eppure la soprese sentire ciò che disse Renzo.
Non era affatto ciò che Alessandro Manzoni aveva scritto nel diciannovesimo secolo, era come se la presenza sua e di Stephen avesse alterato lo scorrere naturale della soria.
Non tanto da comprometterla nella sua interezza, ne era sicura, ma qualcosa era cambiato.
Forse Portalia conosceva i segreti più intimi delle famiglie degli anelli, perchè altrimenti Daisy non avrebbe saputo come spiegarsi ciò che l'uomo disse.
"Vi ho ritrovata" disse Renzo, con gli occhi che brillavano "dopo così tanto tempo, Lucia"
Era come se non si fosse nemmeno accorto della mercantessa e di Daisy e Stephen.
Per lui c'era solo lei.
Lucia era sbiancata, come se avesse visto un fantasma – il che era molto simile al vero.
Ma si trattenne e si voltò di lato, in modo che lui non la vedesse in viso.
"Non dite nulla, Renzo, ve ne prego" disse "è già così difficile, non lo capite? Non potete fare nulla per cambiare ciò che è successo. Non posso infrangere un voto alla Madonnna per voi"
"Ma lo fareste se poteste?"
Lei non rispose.
Renzo fece un passi avanti, ma Lucia scattò indietro.
Lui allora alzò le mani, con gentilezza, come se stesse addomesticando un animale selvatico.
"So che è così" continuò "io vi amo, Lucia. Don Rodrigo, don Abbondio, l'Innominato, la peste... niente mi ha fatto smettere di amarvi. Ed è il Signore che mi fa dire queste parole, perchè Fra Cristoforo, il suo più buono e diretto intermediario, ci ha dato la sua benedizione. Dice che può sciogliere il vostro voto. Lasciate che ci lasci essere felici. Voglio creare una famiglia con voi, Lucia. Voglio essere il padre dei vostri figli e se la prima sarà una femmina, la chiameremo Maria in onore della donna che vi ha salvata nei momenti più bui"
Renzo le prese la mano e Lucia, questa volta, lo lasciò fare.
"Non vi lacerei mai più da sola" bisbigliò "proteggerò la nostra famiglia ad ogni costo se il Signore ci grazierà con essa"
"Oh Renzo" bisbigliò lei "sareste un padre magnifico"
Si guardarono negli occhi e Daisy non ce la fece più.
Nessuno stava facendo caso a loro due, nemmeno la mercantessa.
"Andiamocene" afferò la mano di Stephen e lo trascinò furoi dal velo oltre il quale era entrato Renzo.
Daisy sentiva di avere il fiato corto e gli occhi le pungevano, come se le lacrime premessero per essere lasciate libere.
"Stai bene?" domandò Stephen "Sembri sconvolta"
Sareste un padre magnifico.
"Torniamo a casa"
La voce le tremò.
Daisy imprecò contro se stessa: come poteva essere debole in quel momento?
Era solo un libro, erano solo personaggi immaginari.
La realtà era ben diversa, molto meno perfetta e lei lo sapeva benissimo.
Eppure faceva male.
Faceva terribilmente male sentire un uomo dichiarare che avrebbe fatto di tutto per proteggere la sua famiglia.
Anche Cory Dickens lo aveva promesso il giorno in cui all'altare aveva sposato Rebecca, ma le promesse vengono infrante troppo spesso.
Stephen non se la bevve.
Posò una mano sulla guancia di Daisy, come per tenerla ferma, e la scrutò con i suoi occhi grigi.
"Cosa c'è che non va?" continuò "E non provare a dirmi che va tutto bene, perchè sei una pessima bugiarda"
Per un istante Daisy pensò di smettere di lottare, smettere di tenere alzate le sue difese, e semplicemente concedersi di essere debole, di piangere.
Pensò di lasciarsi abbracciare da Stephen, perchè in qualche modo aveva la sensazione che non sarebbe stato così terribile.
Ma durò solo un istante.
Lo guardò fisso negli occhi e una lacrima sfuggì al suo controllo.
Infilò il fermaglio nella sua borsa, al sicuro.
Gli prese la mano e la strinse, mentre con l'altra avvolgeva l'anello che aveva al collo.
"Domum me fer" bisbigliò.
"Daisy–"
Ma ormai era troppo tardi.
Daisy chiuse gli occhi, non solo per il viaggio di ritorno alla realtà, ma soprattutto per scacciare le lacrime.
Strinse così forte l'anello tra le dita che le lasciò dei segni sul palmo della mano, ma era ciò che desiderava: il dolore le liberò la mente.
Quando sentì di nuovo la terra sotto i piedi, aprì gli occhi.
Era di nuovo a Brooklyn, a casa.
"Devo portare il fermaglio in casa e metterlo in un posto sicuro" disse subito.
"Aspetta–"
Ma Daisy era già corsa via.
Camminò velocemente, con il cuore che le martellava come un tamburo di guerra nelle orecchie così forte che non sentì i passi di Stephen dietro di lei.
Sua madre non era nella sala principale, perciò doveva essere da qualche parte a pulire degli scaffali di libri nascosti nelle parti più recondite della biblioteca.
Andava benissimo così, perchè Daisy non avrebbe retto le domande di Rebecca.
In quel momento voleva solamente nascondersi da tutti.
Ormai erano passati anni da quel giorno, dal giorno che aveva cambiato tutto, e Daisy pensava che con il tempo sarebbe stato più facile, che avrebbe fatto meno male finchè non ne avrebbe fatto per nulla.
Si sbagliava di grosso.
Uscì dalla porta della biblioteca e la campanella suonò sopra di lei.
Proseguì per qualche metro e fece per salire le scale verso il portone del palazzo in mattoni rossi.
"Daisy!" gridò Stephen "Fermati! Ti prego!"
Lei si fermò, anche se non sapeva perchè.
Forse il suo cervello le stava dicendo ciò che dentro di sè sapeva, ma non voleva ammettere: era stanca di scappare.
Fece un respiro profondo e si voltò.
"So che c'è una storia in te che freme per essere raccontata" disse Stephen, guardandola "io sono qui per ascoltare"
Nessuno gliel'aveva mai detto.
Nessuno si era mai fermato a chiederle se fosse davvero così dopo che ad un "Come stai?" lei rispondeva "Bene" prima ancora di chiedersi se fosse vero.
Stephen sì.
Fu per questo che tornò sui suoi passi e si sedette sui gradini scuri.
Lui la imitò, ma non si sedette troppo vicino, come se volesse lasciarle il suo spazio.
Daisy gliene fu grata.
Non aveva mai raccontato quella storia a nessuno, perciò non l'aveva mai pronunciata ad alta voce.
Si chiese se sarebbe riuscita a raccontarla tutta senza crollare.
"Ti ho detto che questo anello passa al primogenito dei Dickens da generazioni" iniziò "a meno che non avvenga una tragedia"
Stephen annuì.
Non lo aveva mai visto così serio.
"Io non sono la primogenita" continuò Daisy "avevo un fratello, tanto tempo fa. Si chiamava Jesse ed era fantastico. La persona più divertente che avessi mai conosciuto, davvero. Sapeva sempre come farmi sorridere anche nei momenti più bui. Bisticciavamo quasi sempre, ma sapevo che se avessi avuto bisogno di lui ci sarebbe stato per me. C'era sempre"
Il sole stava tramontando oltre gli alberi di Prospect Park, tingendo d'oro le loro chiome verdi.
A quell'ora c'erano poche macchine che passavano per quella via, perciò c'era un'incredibile tranquillità.
Era raro in una città così grande e vibrante come New York.
"Dicono che quando accade uno shock, la persona dimentichi i dettagli di quella giornata" disse alla fine "ma non è vero. Io ricordo tutto. Ricordo la chiamata dell'ospedale, ricordo mia madre che era venuta in camera mia piangendo, ricordo mio padre che correva a prendere la macchina per raggiungere Jesse. Ricordo la paura che avevo provato. Era sera tardi, quasi le dieci, e Jesse stava tornando dal suo turno in officina. Quando mi accompagnava in macchina da qualche parte gli dicevo sempre di rallentare, perchè andava troppo veloce. Ma quella sera no. Quella sera stava andando lentamente, godendosi la vista di una New York stranamente silenziosa perchè il giorno dopo sarebbe andato via. Voleva passare un anno in giro per il mondo e aveva finalmente guadagnato abbastanza denaro per farlo. Non è stata colpa sua"
Più volte Daisy aveva cercato di immaginarsi la scena dell'incidente, come se fosse un film e lei una spettatrice.
Ma la sua mente sembrava rifiutarsi di obbedire.
"Una ragazza chiaramente ubriaca è spuntata fuori dal nulla, attraversando la strada di corsa senza preoccuparsi di controllare il traffico" continuò, con la voce che le tremava "Jesse ha sterzato giusto in tempo e lei non si è fatta nulla. Lui invece..."
"Basta così" la interruppe Stephen "non voglio che tu riviva quel momento solo perchè te l'ho chiesto"
Daisy scosse la testa.
Ormai non poteva più fermarsi.
"Non se ne è andato subito" disse, lentamente "è rimasto in coma per alcuni giorni, in ospedale con un sacco di tubi. Andavamo tutti i giorni a trovarlo e alcune volte dormivamo lì con lui. Non volevo che si svegliasse e si ritrovasse da solo. Avrebbe pensato l'avessimo abbandonato. Ma non si è più risvegliato"
Una lacrima sfuggì al suo controllo, la seconda in poco tempo.
"È stato allora che mio padre ci ha abbandonato" disse.
La voce di lei sembrava una lastra di ghiaccio.
"Una sera io e mia madre siamo tornate a casa dall'ospedale e lui era sparito" continuò, con le parole che si ingarbugliavano le une nell'altre, come se si stessero rincorrendo a vicenda "senza un biglietto, senza una chiamata. Non c'era più"
Il cuore le batteva all'impazzata nel petto.
"Mio padre ha fatto la scelta più semplice per lui, non c'è altro da dire" Daisy aveva il fiato corto "si è ritrovato in una situazione difficile ed è scappato. L'unica cosa che è riuscito a fare è stata fuggire"
Stephen cercò di posarle una mano sul braccio, per consolarla, per farle sapere che lui era lì e stava cercando di capire, ma lei sembrava un animale spaventato.
Scattò in piedi.
"Non è più tornato, capisci?" quasi gridò "Ci ha lasciate e poi Jesse è morto. Nel giro di due giorni siamo rimaste solo io e mia madre. Che cosa ho fatto, Stephen? Che cosa? Cos'ho sbagliato?"
Con rabbia si scacciò le lacrime dal viso.
Improvvisamente un'ondata di ricordi le si avventarono addosso, con furia e ferocia.
Ricordò la chiamata del medico e la notizia del decesso, ricordò il funerale in un giorno di pioggia, con poche persone – e senza alcuna ombra di Cory – e le parole di addio del prete, ricordò la porta della stanza di Jesse che rimase chiusa per mesi interi senza che nè lei nè Rebecca avessero il coraggio di entrarvi, ricordò la volta in cui erano tornate in biblioteca per la prima volta, qualche giorno dopo il funerale, e avevano trovato l'anello della famiglia al centro della sala circolare.
Daisy ricordò di aver pensato che Jesse doveva averlo lasciato lì prima di andare al lavoro, per qualche ragione che sarebbe rimasta sepolta con lui.
"Cosa c'è di sbagliato in me? È per questo che non mi fido più delle persone, capisci? Perchè le persone deludono anche se pensi non lo faranno. Le persone possono spezzarti il cuore senza alcun rimorso. Da quando mio padre se n'è andato, lo cerco in ogni volto, lo cerco in ogni posto, ma non lo trovo mai. Perchè qualcuno dovrebbe preoccparsi per me se il mio stesso padre non se n'è curato affatto?"
Daisy aveva il respiro affannato, come se cercasse disperatamente di respirare, ma l'aria le sfuggisse.
Ormai la sua vista era appannata dalle lacrime ma quasi non se ne accorse nemmeno.
Per la prima volta da un tempo così lungo che nemmeno ricordava quando fosse iniziato, si era aperta con qualcuno.
Aveva lasciato che qualcuno la vedesse senza la sua armatura, senza tutte le sue difese, e ora era lì, sui gradini di un palazzo di Brooklyn con un ragazzo che conosceva da pochi mesi in attesa di venire ferita per l'ennesima volta.
Si disse che non ci sarebbe stato nessun altro da biasimare se non lei quella volta.
Se Stephen l'avesse ferita, sarebbe stata solo colpa di Daisy.
Colpiscimi, pensò, fallo subito e basta. Sono qui, davanti a te, vulnerabile come mai prima. Sta a te trovare il mio punto debole.
Fu allora che accadde.
Stephen si alzò in piedi e prima ancora che Daisy potesse capire cosa stesse succedendo, l'abbracciò.
La strinse a sè, con forza, differentemente da come chiunque altro l'avrebbe abbracciata: chiunque l'avrebbe stretta con delicatezza, perchè la maggior parte dei ragazzi pensavano che le ragazze fossero di porcellana, che con un solo tocco si sarebbero rotte in mille pezzi.
Stephen no.
La strinse tra le braccia senza alcun timore, come se Daisy fosse inscalfibile.
O forse come se desiderasse in quel modo proprio aiutarla ad evitare di cadere a pezzi, tenedola stretta sè come un collante.
All'inizio lei rimase immobile, con il respiro mozzato, poi si lasciò andare.
Chiuse gli occhi, appoggiando il capo nell'incavo del collo di Stephen e avvolgendo le sue braccia intorno al busto di lui.
"Mi dispiace tanto, Daisy" lo sentì bisbigliare "deve essere stato terribile, ma non è stata colpa tua. Ognuno deve prendersi le responsablità delle proprie scelte, non di quelle altrui. Tuo padre ha scelto e tu non avresti potuto farci nulla. Chiunque avrà la fortuna di passare il resto della sua vita a prendersi cura di te sarà la persona più fortunata del mondo, Shakespeare"
Solo per una volta, Daisy scelse di crederci.

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