Capitolo 42

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La cella era fredda, buia, illuminata solo da qualche torcia e un lieve spiraglio sbarrato in alto da cui far entrare aria fresca. Beatris venne accompagnata all'interno da Hanji. La caposquadra attese qualche secondo, dando tempo alla ragazza di realizzare che quella sarebbe stata la sua stanza per i prossimi dodici mesi. Le pareti erano di pietra gelida, la luce che entrava dallo spiraglio quasi nulla, e non c'era niente all'interno se non un letto, una coperta vecchia almeno quanto le mura, un lavandino e un gabinetto. L'odore lì dentro non era dei migliori, ma almeno l'apertura sul soffitto consentiva un buon ricircolo d'aria.
«Betty» mormorò Hanji, dopo qualche istante. Il suo nomignolo affettuoso, l'aveva sempre detestato perché Hanji tendeva a usarlo quando aveva in mente qualcosa di eccentrico e bizzarro, ma in quel momento fu come una carezza sulla sua testa. «Devi consegnarmi tutte le tue cose».
Beatris si voltò a guardarla e Hanji le porse degli abiti nuovi: una vestaglia per la notte e degli abiti neutri da indossare durante il giorno.
«Questi saranno i tuoi nuovi vestiti, ti è concesso tenere solo il tutore per il polso» le comunicò. «Indossa la camicia e i pantaloni quando ti faranno uscire per i lavori. Ti verranno forniti dei cambi puliti una o due volte a settimana, a seconda dell'esigenza. Mi dispiace essere così invadente, ma ho l'ordine di restare con te mentre ti cambi per assicurarmi che mi venga consegnato tutto e che non nascondi niente».
Gli occhi di Beatris si spalancarono lentamente, sempre più in preda alla disperazione. Erano umidi, pronti a versare lacrime. Si guardò attorno, in preda al disagio. Quanto era poco dignitoso doversi spogliare completamente di fronte a soldati e guardie? Ma si sorprese quando vide Moblit e le due guardie fuori dalla cella volgerle le spalle. Erano costretti a restare lì, a controllarla, ma di loro iniziativa le avevano concesso almeno la cortesia di non guardare. Fece un passo indietro e infine alzò le mani tremanti sulla sua gonna. Cominciò a spogliarsi, togliendosi prima gli stivali e le calze. Consegnò tutto ad Hanji e solo per ultima passò alla camicia. Che slacciò lentamente.
Non mostrarla a nessuno. Anche se loro non sanno cosa significhi, preferisco comunque che non la vedono.
Una lacrima le rigò il viso e fu incapace a trattenerla. Si afferrò i due lembi della camicia, pronta a sfilarsela, pronta a venir meno a quella promessa. Costretta a farlo. E un'altra lacrima le scivolò sulla guancia.
«Capitano Hanji» tremò, supplichevole. «Non potrei proprio...?» non finì di provare a esporre la sua richiesta di poter avere un po' di privacy solo per quel momento, riuscire a mantenere la sua dignità almeno in quello, Hanji non le diede tempo di farlo che si portò entrambe le mani agli occhi, li chiuse e cominciò a sfregarsi insistentemente sulle palpebre. «Questo posto è davvero polveroso, credo mi sia andato qualcosa negli occhi».
Beatris sentì il cuore premerle nella cassa toracica in un battito più potente degli altri. Hanji non poteva farlo, non poteva darle lo spazio che desiderava, ma lo stava facendo lo stesso appellandosi a una ridicola scusa. Solo per amore nei suoi confronti. Si tolse rapidamente la camicia, approfittando degli occhi chiusi del capitano, e scoprì il suo braccio sinistro con la fascia di Reiner solo per pochi secondi. Prese la vestaglia da notte e se la infilò con rapidità, andandola a nascondere il prima possibile. Dopo qualche secondo Hanji tornò a riaprire gli occhi e le sorrise compassionevole, guardandola mentre si abbassava la veste dalla vita. Le lasciò gli abiti da lavoro sul letto, e prese i suoi, per requisirli.
«Ti verranno consegnati tre pasti al giorno» spiegò. «Mangerai qui dentro, vivrai qui tutto il tempo che non ti sarà richiesto per lavorare. Hai tutto quello che ti serve, ma in caso di bisogno qui fuori ci sarà sempre almeno una guardia a disposizione. Le visite sono previste per il lunedì, potrai ricevere tutte le visite che vorrai ma solo una persona alla volta e per un massimo di un'ora ciascuno. Non ci sono orari per il lavoro, o giornate stabilite, sarai chiamata all'occorrenza e presterai servizio per tutto il tempo necessario. Se verrai chiamata a lavorare il giorno delle visite, quella settimana le salterai. Potrai ricevere o inviare lettere, ma saranno prima supervisionate dalle guardie, e ti verranno consegnate solo una volta alla settimana. Se te ne arriveranno di più, ti saranno consegnate tutte insieme, se ne vorrai spedire più di una alla settimana dovrai fare richiesta e non è detto che venga accettata. Se il contenuto delle lettere verrà ritenuto inappropriato, queste verranno cestinate senza comunicazione né giustificazione» sospirò e si voltò di nuovo verso Beatris. «Credo di aver detto tutto. Hai qualche domanda?»
E Beatris, con lo sguardo avvilito puntato a terra, negò debolmente.
«Molto bene» disse Hanji. «Allora ci vedremo prossimamente» e si avviò verso l'uscita della cella.
«Capitano Hanji» mormorò Beatris, prima che potesse allontanarsi. Una guardia aveva già cominciato a chiudere la porta della sua cella, e stava girando la chiave nella serratura. «Quando organizzerete la spedizione per la riconquista del Wall Maria?»
Non aveva fatto altro che puntare a quell'obiettivo, fin da quando si era arruolata al corpo militare aveva covato quel tiepido sogno di poter rivedere Shiganshina un giorno. Si erano promessi con Eren che sarebbero tornati insieme a riprendere quel disegno... e lei invece rischiava di doversene stare chiusa in cella. Lontano da casa, lontano da quel disegno, lontano da Kitty. Era ancora su quella strada? E se lì avessero infine trovato Reiner?
«Mi dispiace, Beatris» rispose Hanji, guardandola con tenerezza. «Ma questa è un'informazione riservata che non posso condividere».
Beatris sembrò farsi ancora più piccola nelle spalle. La tenevano fuori dal mondo, non le avrebbero nemmeno detto quando sarebbero partiti. Sarebbe rimasta lì, a chiedersi se Eren fosse riuscito a tornare a casa senza di lei, se avessero incontrato o addirittura ucciso Reiner, senza sapere se avesse mai ritrovato quel disegno. Le stava venendo negata ogni cosa.
«Capisco» mormorò con un filo di voce.
«Andiamo Moblit» disse Hanji, al compagno. «Abbiamo un sacco di lavoro da fare, o rischiamo che invece che metterci un paio di mesi ce ne mettiamo venti!» e rise, come se niente fosse. Beatris alzò lo sguardo su di lei, guardandola sparire oltre la sua cella. Intercettò lo sguardo di una delle due guardie rivolgersi ad Hanji, fulminarla contrariato. Persino lui aveva capito il tentativo del capitano e non sembrava averlo apprezzato molto: Hanji non poteva darle informazioni ufficiali, ma quella poteva essere sembrata solo una banale distrazione. Ma non lo era, persino la guardia l'aveva intuito. Hanji aveva provato a risponderle, senza violare apertamente il regolamento. Lo apprezzò molto e sentì una profonda gratitudine nascerle nel petto. Per la legge lei era una traditrice, ma per i suoi compagni restava semplicemente Beatris. Era una tiepida consolazione.
Ma non abbastanza intensa da riuscire a scacciare completamente il dolore che si portava dentro, e che sembrava intensificarsi ogni istante di più. Persino con quell'ultima informazione.
Due mesi... il corpo di ricerca sarebbe partito da lì a due mesi. E lei non avrebbe mai potuto essere con loro. Non avrebbe potuto tornare a Shiganshina insieme a Eren, Mikasa e Armin, non avrebbe potuto incontrare nuovamente Reiner e provare a risolvere le cose, il corpo di ricerca avrebbe anche potuto ucciderlo. E lei non poteva fare niente per impedirlo. Si guardò attorno. Quella sarebbe stata la sua casa per almeno dodici mesi. Lontana da tutto, lontano da tutti, e sempre più distante da Reiner. Si avvicinò al letto e ci si sedette sopra. Si raggomitolò, raccogliendo le ginocchia al petto. Nascose il volto tra le rotule e infine cedette all'impulso di versare tutte le sue lacrime. Fino all'ultima.
Come anticipato da Hanji, poco dopo le venne portato il pranzo. Ma non riuscì a mangiare se non un paio di bocconi. E infine la cena, la sera, che riuscì a finire almeno per metà. Lo stomaco era chiuso, ma la fame aveva cominciato comunque a farsi sentire. Spensero le lanterne per la notte, che lei era ancora ferma sul quel letto, rannicchiata in se stessa. Si era stesa, nel pomeriggio, indolenzita dalla posizione, e si era avvolta in quella misera coperta ruvida. Lì dentro, soprattutto la notte, faceva particolarmente freddo. Nonostante tutte le attenzioni che le stavano comunque dando, per quanto fosse possibile, restava un misero buco nella pietra pieno di umidità. La coperta aiutava un po', ma non rendeva l'ambiente perfetto. Avrebbe dovuto abituarsi. Aveva pianto così tanto, durante il giorno, che non aveva fatto altro che alternare momenti di veglia e pianti a momenti di sonno, distrutta dalla stanchezza. Il silenzio di quella prigione la costringeva a pensare troppo, quando era sveglia, e questo non faceva che peggiorare il suo stato d'animo. Rivangò tutti i suoi errori, tutti i suoi momenti più duri e tutto ciò che l'aveva portata a quella situazione. E più ci ripensava più continuava a oscillare tra il sentimento di colpa, che le suggeriva che quello era ciò che si meritava, e quello di disperazione, nato dalla consapevolezza che era stata costretta a fare alcune scelte, che gli eventi non avevano fatto altro che caderle addosso senza darle possibilità di potersi difendere. Forse, se Reiner non fosse stato sempre così morboso nel suo istinto protettivo, se l'avesse ignorata invece che tentare di avvicinarsi a lei, tutto quello non sarebbe mai successo. Era colpa sua, ne era consapevole, era colpa di Reiner che aveva portato avanti quelle crudeltà e che non aveva fatto altro che trascinarla con sé. E in quei momenti, quando realizzava che niente di tutto quello sarebbe mai successo se Reiner non l'avesse fatta innamorare, provava una profonda rabbia e frustrazione. Ma ripensare a Reiner, alle sue colpe, portava inevitabilmente a pensare anche a quanto fosse stato in grado di renderla felice. A quanto l'avesse in realtà salvata. Se lui non fosse mai arrivato nella sua vita, lei sarebbe rimasta la ragazzina intenzionata a morire di fronte al primo gigante per salvare qualcun altro. Forse sarebbe morta proprio su quel muro, a Trost, durante l'attacco del gigante colossale. Aveva cercato di salvare Samuel, che aveva perso i sensi per via dell'esplosione nell'istante in cui il colossale era comparso. Se fosse stata la stessa di qualche anno prima, avrebbe sacrificato la sua vita pur di portarlo in salvo. O si sarebbe lanciata contro il gigante che aveva mangiato Eren, poco dopo, facendosi divorare al suo posto. Sarebbe morta stupidamente, solo perché pensava fosse giusto farlo, solo perché aveva sentito che doveva fare ammenda per la morte di sua madre. Si sarebbe fatta uccidere stupidamente e inutilmente, se Reiner non fosse piombato nella sua vita dandole la forza di provare a combattere. Pensò che fosse colpa sua, se si trovava in quella cella, ma pensò anche a quanto fosse stata felice in quei momenti, quando erano insieme. Ripensò a ogni cosa. Il giorno che lui si era sacrificato per proteggerla dalla punizione di Shadis, la sera quando lei gli aveva portato quel pezzo di carne per farsi perdonare, il giorno della valanga sulle montagne, quando si era messo in pericolo per salvarla, la sua ostinazione nel cercare di renderla forte, gli allenamenti insieme ogni mattina, che puntualmente finivano con delle risate per qualche sciocchezza che combinava Beatris, la storia dell'alveare, il giorno che per la prima volta non era arrivata ultima a un'esercitazione e lui era andato a prenderla di corsa per farle vedere il tabellone, pieno di felicità, il giorno della caccia al cinghiale, il loro primo bacio, quelle promesse che si erano scambiati e a cui credeva ancora, il giorno che le aveva donato quella fascia, il giorno del loro primo appuntamento, con lo scoiattolo che gli aveva graffiato la faccia e lei che si era presentata con un bernoccolo. Tutto, ricordò tutto, ed era tutto così bello da riuscire a schiacciare miseramente ogni forma di rabbia che poteva anche solo azzardarsi a provare nei suoi confronti. Persino nel suo addio, Reiner non aveva fatto altro che tentare di proteggerla, rivestendo completamente il ruolo del cattivo, cercando di dipingerla solo come un'ignara vittima, per salvarla dalle accuse e permetterle di vivere serenamente dentro quelle mura. Ma lei aveva di nuovo combinato un pasticcio, aveva ignorato il suo tentativo, rimasta sola non aveva fatto altro che cadere miseramente e lui non era lì per proteggerla ancora. Pensando fosse più giusto, aveva accettato di rivelare di essere complice, perché così avrebbe potuto fornire armi necessarie all'armata per combatterlo. Perché così avrebbe potuto chiedere scusa, almeno dei peccati meno gravi, scaricare anche se solo in parte i sensi di colpa. E poi perché non era affatto brava a inventare scuse, da sola non era capace di mentire così in ampia scala, prima o poi la verità sarebbe venuta a galla. Ringraziava solo che i due peccati più grandi, Marco e la squadra Levi, fossero rimasti nell'ombra o non sarebbe sopravvissuta. Ma la verità era che non era mai stata colpa di nessuno. Non era stata colpa di Reiner, lui era solo uno strumento mandato lì per compiere una missione, non aveva scelto di essere tale, lui credeva che fosse giusto così. Non aveva avuto scelta... o almeno questo era quello che le aveva detto e quello che lei voleva credere. Lui non aveva mai fatto altro che tentare di proteggerla, fino alla fine, anche a costo di essere odiato persino da lei stessa. E non era stata nemmeno colpa di Beatris, che aveva cercato di dare un senso alla propria vita. Era ciò che aveva provato a fare anche Ymir, ciò che stava facendo in quel momento Historia: vivere solo per loro stesse. Era così sbagliato?
La verità era che non era colpa di nessuno, se non di quel mondo così crudele e spietato, ma anche bellissimo. E per quanto una piccola parte di sé odiasse Reiner, solo perché era entrato nella sua vita, non poteva comunque fare a meno di continuare a desiderare di poterlo rivedere. Almeno un'altra volta. Soprattutto ora che aveva appena toccato il fondo, e sentiva la solitudine e la disperazione strozzarla definitivamente. Quella cella era così fredda... lo sarebbe stata molto meno, se lui fosse stato lì. Nel buio della notte, tornò per l'ennesima volta a piangere, chiedendosi da dove ancora riuscisse a tirarle fuori tutte quelle lacrime. Si strinse in se stessa, con il volto rivolto al muro. Si infilò una mano nella manica della vestaglia e tirò via la fascia che era riuscita a tenersi di nascosto. Se la portò al viso, se la premette contro le labbra e al suo interno vi soffocò i deboli singhiozzi che la scuotevano. Avrebbe così tanto voluto vederlo ancora una volta. Sentire la sua voce chiamarla dalla finestra, come aveva fatto quella notte che erano andati al lago la prima volta. Si era affacciata, svegliata e avvertita da Ymir, e l'aveva trovato lì. Appoggiato al muro, con uno splendido sorriso sul volto, le aveva chiesto se volesse andare con lui a vedere la luna. Quanto era stata felice quella sera. Era stato tutto così bello, da sembrare un libro di favole.
Resta con me.
Era stata proprio quella sera che glielo aveva detto la prima volta. Ed era stata quella sera che lei aveva capito di volerlo fare per sempre. Restare insieme a lui, solo insieme a lui. E poi... proprio quella sera lui le aveva chiesto perdono per la prima volta. Non era riuscita a comprenderlo allora, non era riuscita a comprendere quell'improvviso tormento che l'aveva annebbiato, quel suo tremare di rabbia e dolore, quel suo "mi dispiace" sibilato tra i denti. Ma lei aveva cantato. Per la prima e unica volta dopo la morte di Rose, lei aveva cantato per lui. Non l'aveva più fatto, nonostante le sue richieste. Cantare le ricordava troppo sua madre, che cantava ogni singolo istante della giornata, e lo faceva tutte le sere per conciliare il sonno a lei e Rose. Era troppo doloroso. Non era più riuscita a farlo, ma a Reiner sembrava dare così tanto conforto. Forse avrebbe dovuto farlo, ignorare il proprio dolore, riuscire a superarlo. Forse se avesse cantato per lui non si sarebbe fatto schiacciare troppo dagli avvenimenti come era successo a lei, forse avrebbe agito diversamente. O forse no. A quante illusioni si stava aggrappando? Ma a lui era piaciuto veramente molto, sentirla cantare. L'aveva fatto stare meglio. E l'aveva ascoltata anche in quella cattedrale, quando l'aveva vista per la prima volta. Se n'era ricordato, e aveva desiderato così tanto sentirla cantare di nuovo quella canzone.
"Forse è così, Tris, sei stata una disgrazia. O forse sei stata la persona giusta arrivata al momento giusto, questo non possiamo saperlo."
"La persona giusta per cosa? Per cantare una canzone?"
"Chissà, magari è proprio di una canzone che qualcuno può aver bisogno ogni tanto."
Non si accorse di quando aveva cominciato, ma si ritrovò improvvisamente a mormorare un motivetto a fior di labbra. La cantò alla propria fascia, contro cui sfiorava le labbra a ogni movimento. Il motivetto cominciò a essere condito con delle parole e presto la sua voce prese la forma di una canzone, lenta, dolorosa. Quella canzone. La canzone che aveva cantato a Rose e che Reiner le aveva chiesto di cantare di nuovo per lui, ma che lei aveva dimenticato. La cantò in quel momento, per lui e per se stessa. Socchiudendo gli occhi ebbe come l'impressione che fosse lì, stretto a lei, ad ascoltarla con un sorriso felice e rilassato sul volto. Finì di cantare e prima di riaprire gli occhi, accorgersi di essere in verità sola, si premette di nuovo la sua fascia contro le labbra, come a volerci lasciare sopra un bacio. E ancora una lacrima le bagnò il viso. Si mosse nel letto, si ripulì la guancia umida con una strofinata di dita, e nel movimento intercettò con lo sguardo la misera finestrella che aveva su quello stesso muro, poco più indietro, verso i piedi del letto. Non seppe bene cosa fosse, ma qualcosa catturò il suo sguardo. La luce sembrava strana, o forse era solo una sua impressione, forse era mera illusione dovuta alla stanchezza di quel pomeriggio. Ma si alzò a sedere sul materasso. Accartocciò la fascia di Reiner tra le dita, per non mostrarla troppo, e spinta da una strana sensazione gattonò fino ai piedi del letto. Ci salì sopra, alzandosi, e così riuscì a raggiungere la fessura nel muro, bloccata da delle sbarre in ferro. Guardò fuori, riuscì a vedere il cielo stellato sopra di sé, e improvvisamente sentì il cuore esploderle nel petto. Spalancò gli occhi e strinse maggiormente la fascia di Reiner tra le dita, schiacciandola contro i propri vestiti.
Afferrò una delle sbarre con una mano, per tirarsi su maggiormente e guardare meglio fuori, mettendosi sul materasso in punta di piedi. E fremendo, tremando, restò bloccata a guardare il cielo con quel suo presagio di speranza.
«La luna...» mormorò con un filo di voce. «È rosa».
Leggermente ramata, in un colore misto tra l'arancione e il rosa, la luna piena dominava nel cielo e sembrava stesse indirizzando tutti i suoi raggi proprio a lei. La luna rosa esisteva davvero, non era solo una favola letta su un libro, riusciva a vederla. E, ovunque Reiner si trovasse, era certa che la stesse guardando anche lui. Non aveva bisogno di prove, lo sentiva nel cuore, lo sentiva nel calore di quella fascia. In quel momento stavano guardando la luna rosa insieme, come avevano sperato di fare la notte che erano andati al lago la prima volta.
«Reiner...» sussurrò e lentamente un triste sorriso cominciò a farsi strada sul suo volto distrutto. «È bellissima... non è vero?»

I got you || Reiner x OC || Attack on titan/Shingeki no KyojinDove le storie prendono vita. Scoprilo ora