Epilogo

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Il pennello si mosse rapido sulla stoffa, tingendola di verde. Un paio di colpi, per completare l'erba, poi tornò a inzupparsi in un bicchiere d'acqua. Si poggiò su un dischetto azzurro, imbevendosi e tingendosi di tempera, e tornò sulla stoffa per colorare tutto ciò che ne restava di azzurro, disegnando così il cielo. Una risatina infantile e il bambino si portò una mano al mento, pensieroso. Poi tornò a bagnare il pennello e prese un po' di nero, con cui disegnò delle righe tremanti nel cielo, qualcosa di vagamente simile a degli uccelli stilizzati in mezzo alle macchie disomogenee del cielo. Steso per terra, studiò il suo piccolo capolavoro con orgoglio, prima di tornare a prendere del colore, rosso questa volta, e dare qualche altra pennellata alla sagoma in piedi sopra l'erba. Non aveva una forma ben delineata, era difficile capire che cosa fosse, sembrava solo una macchia frastagliata, ma riuscì ad allungare alcune estremità, dandogli così una forma vagamente umanoide. Intorno a lui altre macchie, informi, di oggetti e creature più piccole. Marcò di più col pennello, tenendolo con l'intero pugno, incapace ancora di sorreggerlo per bene nella sua ancora fin troppo impacciataggine infantile. E riempì la stoffa talmente tanto di tempera che parte di questa penetrò allo strato inferiore della camicia sopra cui stava disegnando e arrivò persino a macchiare il pavimento. Ridacchiò ancora, divertito, e mentre disegnava si lasciò andare a versi simili a ringhi, immaginando nella sua testa chissà quale catastrofica battaglia. Macchiò di grigio le parti circostanti all'enorme bestia, simulando con la vocetta il rumore di esplosioni e cose che venivano distrutte. Bagnò ancora il pennello, pronto a terminare, quando la porta alle sue spalle si aprì con un tonfo. Si voltò, terrorizzato, a guardare chi l'avesse appena scoperto. E il suo incubo peggiore sembrò prendere forma davanti a lui.
«Che stai facendo?» ringhiò Beatris, livida in volto.
Il bambino scattò in piedi, urlando, e corse via a una velocità decisamente sorprendente per uno come lui, di soli tre anni. Riuscì a sgusciare tra la gamba della donna e la porta aperta e corse via prima che Beatris riuscisse a prenderlo.
«Vieni qui, maledetta canaglia!» gridò furiosa. Ma non partì subito all'inseguimento: si voltò prima a vedere di quale crimine il bambino si fosse appena macchiato. E sbiancò.
Raccolse la camicia da uomo da terra e la guardò: era completamente impiastricciata e il disegno che vi era rappresentato sopra era dei più terribili. Quello era palesemente un gigante in preda a una follia distruttiva! Urlò, correndo fuori dalla stanza e puntando gli occhi al punto del corridoio dove aveva visto scappare il bambino. A passi pesanti, come una bestia in preda alla follia, partì all'inseguimento arrivando infine nella sala ristoro della nave sopra cui stavano viaggiando. Spalancò la porta con tale impeto da farla sbattere contro la parete al suo fianco e cercò il criminale in mezzo a tutti i presenti.
Reiner, Armin e Pieck erano seduti a un tavolo. Connie era affacciato alla finestra che si godeva la brezza marina e intanto osservava il porto di Paradis avvicinarsi. E infine, in piedi in mezzo alla stanza, vide Jean con il bambino in braccio, che abbracciava disperato, già in lacrime, il ragazzo.
«Che gli hai fatto?!» rimproverò Jean, abbracciando protettivo il bambino.
«Come sarebbe a dire "che gli hai fatto"?!» ruggì Beatris, avvicinandosi a lui a passi pesanti. «È lui il disgraziato! Guarda!» e alzò la camicia imbrattata, mostrando il disegno a tempera che era stato fatto sopra. Jean lo guardò per un po', perplesso, studiandolo attentamente, poi guardò con dolcezza il bambino che aveva ancora in braccio. «L'hai fatto veramente tu?» chiese, pacato.
Il bimbo si strinse nell'abbraccio di Jean e incassò la testa nelle spalle, prima di bofonchiare pieno di vergogna: «Sì».
«Accidenti, Marcel!» esclamò Jean, illuminandosi in un sorriso. «Ma sei stato bravissimo! È pieno di dettagli!»
«Ma che stai dicendo?!» ruggì Beatris. «Lo dovresti rimproverare invece!»
«L'arte non conosce barriere e i talenti dei bambini vanno sempre incoraggiati, o vuoi che cresca privo di autostima?!» le rispose a tono Jean.
«Con un'idiota come te a fianco il mio timore è che prenda esempio e diventi anche lui uno spaccone, invece!»
«Ma quella è la tua camicia?» mormorò Pieck, al tavolo, rivolgendosi a Reiner.
«Per fortuna ne ho portate un po' di scorta» sospirò Reiner, arrendevole.
«Sempre meglio spaccone che con l'indole autodistruttiva come sua madre!» ringhiò Jean contro Beatris, stringendo protettivo Marcel.
«Smetti di viziarlo!» gridò a sua volta Beatris. «Gli avevo detto che avrebbe potuto disegnare sui fogli di carta, non su dei vestiti! Potevi pensarci a regalargliene un po' quando hai pensato a comprargli quelle stupide tempere!»
«Marcel ha un talento! Quelle tempere non sono affatto stupide, alimentano le sue incredibili doti!»
«Doti a fare cosa?! Disegnare giganti che distruggono città?! Come accidenti fa a sapere dell'esistenza dei giganti, eh?! Chi glielo ha raccontato?!»
«Fa parte della nostra storia, è importante che la conosca! E poi prima o poi lo avrebbe scoperto lo stesso da solo, non puoi certo tenerlo per sempre in una campana di vetro!»
«Sono sua madre, decido io cosa è bene per lui! Tu devi smetterla di assecondarlo in ogni cosa, lo farai diventare un dannato delinquente!»
«Per un disegno?! Addirittura un delinquente?!»
«Non hai la più pallida idea di come si educhi un bambino!»
«Ne so sicuramente abbastanza da capire quando è bene stimolarlo, invece che rimproverarlo per ogni respiro che fa!»
«Non lo rimprovererei così tanto se fosse più tranquillo e tu cominciassi a collaborare nella sua educazione una buona volta!»
«Ecco...» ridacchiò Armin nervosamente, guardando Reiner al suo fianco che cupo sembrava volersi estraniare dalla cosa. «Esattamente, chi è il padre di quel bambino?»
«A volte me lo chiedo anche io» borbottò Reiner, irritato. Lanciò uno sguardo ai due che continuavano a bisticciare su come fosse meglio educare Marcel, e teso si limitò a sorseggiare un po' del suo caffè dalla tazza.
«Jean è decisamente invadente» commentò Connie, poggiando i gomiti alla finestra e voltandosi per guardare la scena. «Passa più tempo a casa vostra che a casa sua. Dovresti davvero dirgli qualcosa, Reiner».
«No, non fa niente» sospirò Reiner, poggiando la tazza sul tavolo.
«Ti sta davvero bene così?» chiese Armin, sorpreso.
«Finché Tris lo avrà tra i piedi si sfogherà con lui e io riuscirò a sopravvivere alla sua collera indomabile. Voi non avete idea di quanto sia terrificante e sfiancante una Tris incinta...» sospirò, stremato. «Spero che questi quattro mesi passino in fretta».
Si accasciò sulla sedia e lasciò uscire con quell'ultimo commento tutta la spossatezza che si portava sulle spalle da un paio di mesi a quella parte, da quando erano comparsi i primi sintomi della seconda gravidanza. Era già abbastanza difficile stare dietro a Marcel, che aveva ereditato tutta l'indole esplosiva della madre e li metteva a dura prova ogni giorno, ma da quando Beatris era rimasta incinta la seconda volta il peso sulle spalle di Reiner era diventato al limite del sostenibile. Tutti gli aspetti peggiori del suo carattere erano come esplosi: era più capricciosa che mai, irritabile, ed era difficile starle dietro. Ogni cosa che pensava la faceva senza prima nemmeno valutare le possibilità. Un giorno, addirittura, Reiner rientrando a casa l'aveva trovata intenta ad abbattere una parete perché aveva deciso che preferiva uno spazio più aperto... e lo stava facendo da sola, a suon di martellate, senza prima confrontarsi con lui e senza chiedere aiuto a nessuno. Con Marcel che divertito le dava una mano con un martelletto per chiodi, pieno di entusiasmo all'idea di distruggere qualcosa. Gestirla era veramente difficile, ogni giorno era una sfida, e la presenza costante di Jean in casa l'aiutava ogni tanto a riposarsi.
«Comunque urlare così non serve a niente» disse Jean, dopo un po'. «Stiamo spaventando Marcel e non ti fa bene agitarti in questo modo: sei incinta, diamine! Devi cercare di rilassarti».
«Hai ragione» sospirò Beatris, cercando di calmarsi. «Smettiamola».
«Pensa a riposare un po', nelle tue condizioni non devi stancarti troppo» le disse Jean, accompagnandola al tavolo dove c'era il resto dei loro compagni. Le spostò la sedia alla sinistra di Reiner e le permise di sedersi, mentre lei annuiva, convinta. Poi spalancò gli occhi, colta da un pensiero, e si voltò a fulminare Jean, riprendendo a ringhiare: «Quali condizioni?! Sono incinta, mica ho una malattia terminale! E di soli quattro mesi, ancora non si nota troppo nemmeno la pancia!»
Jean fece scendere a terra Marcel, che aveva cominciato a scalciare per potersene andare di nuovo in giro, pieno di energie. Il bambino corse vicino a Connie e cominciò a saltare, per arrivare alla finestra e riuscire a vedere fuori. E Connie lo accontentò, prendendolo in braccio e tenendolo sollevato così da fargli vedere il mondo fuori dalla nave.
«Stai tranquilla, sto solo cercando di esserti d'aiuto» disse Jean, sedendosi tra Reiner e Armin. «Non arrabbiarti sempre per ogni cosa. Dopo se vuoi parleremo con Marcel e gli faremo capire che non deve disegnare sui vestiti, va bene?»
«Sì, faremo così» annuì Beatris, tornando apparentemente calma. Ma scattò di nuovo poco dopo, sbattendo una mano sul tavolo. «Un attimo! Tu che diavolo c'entri?! Non è mica tuo figlio!»
«Se n'è ricordata» ridacchiò Armin e guardò compassionevole Reiner che seduto proprio in mezzo ai due sembrava implorare aiuto con lo sguardo.
«Io sono il fantastico zio Jean! È ovvio che abbia un'importanza rilevante nella crescita del piccolo Marcel e del nuovo arrivato».
«A proposito del nuovo arrivato» si intromise Armin, deciso ad aiutare la sanità mentale di Reiner provando a cambiare discorso. «Avete già pensato a qualche nome?»
Pieck ridacchiò: «Sarebbe divertente se lo chiamaste Porko, così da ridare vita ai due fratelli Galliard».
«A Tris non piace quel nome» disse Reiner.
«Nemmeno a te piaceva» rispose Beatris, stizzita per essere stata accusata di essere l'unica a non volerlo. «Dicevi che ti inquietava l'idea di avere per figli i Galliard».
«Lo confesso, un pochino mi turba» ridacchiò nervoso. «In verità io avevo proposto Bertholdt».
«Scordatelo!» ruggì Beatris e Reiner la indicò alzando gli occhi al cielo: «Ma questa è la reazione» spiegò.
«Non chiamerò mai mio figlio col nome della persona che il mio migliore amico ha divorato vivo! Sarebbe raccapricciante! E poi è impronunciabile».
«E chiamarlo Eren non è altrettanto raccapricciante?» gli rispose a tono Reiner.
«È un omaggio alla seconda persona più importante della mia vita...» ci rifletté un istante, prima di correggersi: «Terza... presto quarta».
«È sceso in fretta nella classifica» ridacchiò Armin.
«Ma non abbiamo fatto altro che tentare di ucciderci a vicenda per tutta la vita!» le disse Reiner, turbato all'idea di dare quel nome a suo figlio. «Se tu ti opponi a Bertholdt allora io mi oppongo a Eren».
«Va bene, va bene» sospirò Beatris, senza fare altre scenate. «È giusto che piaccia a entrambi».
«Per il momento l'unico nome su cui siamo d'accordo è Rose, nel caso nascesse femmina» spiegò Reiner.
«Su quello almeno non abbiamo avuto da discutere» sorrise Beatris, divertita da quel particolare. La scelta del nome, ultimamente, li stava tenendo svegli la notte. Era un continuo scontrarsi, su chi preferiva dare rilevanza a certe persone piuttosto che ad altre.
«Litigate spesso ultimamente?» chiese Armin, dispiaciuto.
«No, non litighiamo. Sono solo banali bisticci quotidiani» disse Beatris e Reiner sembrò essere d'accordo. Alla fine era solo perché Beatris era pura dinamite e si scaldava per ogni cosa, soprattutto nell'ultimo periodo, ma vere litigate non ricordava che ne avevano mai avute. In realtà le cose andavano decisamente bene, quella banale vita familiare gli riempiva l'anima e il cuore. Persino nei suoi capricci Beatris riusciva a scaldargli il petto, a volte tornava ad essere come una bambina che aveva bisogno di essere accudita e non c'era cosa che gli piacesse di più fare.
«Non litigano solo perché Reiner ha una pazienza di ferro» si intromise Jean, bevendo nervoso il suo caffè. «Non so davvero come faccia a sopportarti, a volte» e Beatris gli lanciò un'occhiataccia, sentendo nuovamente l'ira tornare a corroderla dall'interno. Ma sospirò e infine si appoggiò al tavolo con i gomiti, mettendo la testa sui pugni chiusi. «Forse hai un po' ragione» disse infine e sia Jean che Reiner la guardarono sconvolti, forse addirittura spaventati.
«Perché mi guardate in quel modo? Non sono mai stata facile da gestire, lo so benissimo anche io» mormorò, guardando stizzita entrambi. Poi tornò a sospirare: «E ultimamente ho i nervi a pezzi, mi infastidisco per ogni cosa. Per oggi mi sono arrabbiata abbastanza, sono stanca, e non voglio arrivare a Paradis con ancora il nervoso addosso. Abbiamo tante cose da fare e non vedo l'ora di rivedere Mikasa, non voglio rovinarmi la giornata per così poco».
Reiner lanciò uno sguardo verso Armin e ghignò lievemente: «Hai visto? Funziona...» e con un cenno del capo indicò Jean. Beatris aveva sbraitato così tanto con lui che ora era scaricata e poteva dirsi scampato dal pericolo.
«Funziona che cosa?» lo fulminò Beatris, sentendo che c'era qualcosa di losco sotto.
«Separarvi» mentì Armin, pronto a correre in aiuto della situazione. «Tenerti distante da Jean ti rilassa, non è così?» ridacchiò.
«Sì, hai ragione» disse Beatris e Jean scattò, irritato: «Come sarebbe a dire che ha ragione?!»
«Sei un idiota, non ti sopporto. E stai sempre in mezzo ai piedi, sei invadente! Non hai una casa tua dove stare?»
«Se non stessi sempre in mezzo, voi due mettereste su una nuova nazione! Cerco di controllare le nascite!»
«Eh?!» sobbalzarono Beatris e Reiner, arrossendo per l'argomento intimità che aveva appena sfiorato.
«Ma che discorsi stai facendo?! Ti sembra opportuno?!» ringhiò Beatris, rossa in volto per la vergogna.
«Siete indecenti!» ringhiò Jean, prima di tornare a calmarsi. Incrociò le braccia al petto, nervoso, e borbottò irritato: «Due figli nel giro di appena tre anni, e Marcel l'avete addirittura concepito nel periodo subito dopo la guerra con Eren. Non avete davvero perso tempo, eh?!»
«Esattamente, perché la cosa dovrebbe infastidire te?» lo fulminò Reiner con una lieve nota di minaccia nella voce. A volte dubitava sul serio che l'attaccamento di Jean verso Beatris fosse mera amicizia, per quanto lui non avesse mai fatto niente di strano nei suoi confronti. Ma era evidentemente troppo attaccato a lei e a volte emergeva il fastidio che Jean sembrava provare nel veder lei insieme a Reiner. Era stupido, razionalmente Reiner sapeva quali erano le motivazioni che portavano Jean a non accettare pienamente la loro relazione. Anche se ci avevano messo una pietra sopra, anche se adesso potevano definirsi addirittura amici, Jean non aveva perso l'idea che Reiner fosse stato una totale disgrazia nella vita di Beatris, che considerava ormai più una sorella che un'amica. Lui l'aveva fatta soffrire molto in passato, le aveva quasi rovinato la vita, e capiva che Jean non sarebbe mai riuscito a vederlo totalmente di buon occhio per questo motivo. E poi non era nemmeno sicuro che l'avesse totalmente perdonato per ciò che aveva fatto a Paradis e soprattutto a Marco, anche se era riuscito ad andare avanti. Quindi, poteva comprenderlo, sapeva che mai l'avrebbe superata totalmente, ma irrazionalmente talvolta tornava a solleticargli in petto quella profonda sensazione di gelosia e rivalità nel vederlo così attaccato a Beatris. Lo irritava.
«Figurati se mi infastidisco, siete liberi di procreare come e quanto volete» sbuffò Jean, per niente convincente. Gli si vedeva una vena pulsare sul collo.
«In verità...» mormorò Armin, pensieroso. «Io credo che Bea fosse già incinta, quando abbiamo combattuto Eren».
«Eh?» mormorò Jean, voltandosi a guardare Armin confuso.
«Quando eravamo sulla schiena di Eren a combattere, quando sono stato preso dal gigante con la testa da maiale, sono stato portato per un attimo in quella dimensione dove c'era il fascio di luce dei giganti, dove abbiamo parlato con Eren le volte precedenti. Ho incontrato Zeke, lì, e abbiamo parlato. Sono riuscito a convincerlo che quello che stava accadendo era sbagliato, anche lui non lo voleva, è per questo che poi si è mostrato a Levi e si è fatto uccidere... ed è per questo che i giganti hanno iniziato a combattere insieme a noi: è stato Zeke a comandare loro di farlo. Ma il punto è che avevo rimosso che mi ha detto qualcosa di strano, mentre mi spiegava del suo piano di eutanasia. Mi ha detto che se fosse riuscito nel suo intento di bloccare tutte le nascite e sterilizzare la popolazione eldiana "la piccola Beatris non si sarebbe trovata ora a combattere in questo stato". In quel momento non ci ho dato peso e me n'ero dimenticato, ma ripensando a quando è stato concepito Marcel... beh, i tempi rientrano. Io credo che lui sapesse che tu eri già incinta. Alla fine, essendo collegato a Eren, Zeke poteva benissimo aver accesso anche lui ai ricordi dell'intero popolo eldiano».
«Cosa?!» stridulò Jean, sempre più sconvolto.
«Lo penso anche io» mormorò Beatris, pensierosa. «Anche Eren, nel mio sogno, mi ha detto delle cose strane. Sembrava sapesse qualcosa che lo divertiva sul mio conto e non volesse dirmelo. Non faceva che fare allusioni in merito, dicendo che avrei presto scoperto di avere una forza dentro di me, che presto lui sarebbe stato spodestato nel mio primato di importanze e... mi ha detto che Jean sarebbe stato bravissimo a prendere il suo posto. Ora credo che si riferisse al fatto di essere zio, ma al tempo non riuscii a capirlo».
«Eren ti ha detto che sarei stato bravo a prendere il suo posto?» mormorò Jean, sorpreso che proprio lui gli avesse rivolto un complimento simile.
«Guardandoti ora riesco a capire a cosa si riferisse» proseguì Beatris. «Poi siamo andati insieme a vedere gli elefanti e mi ha paragonata a un elefantessa femmina che accudiva il suo piccolo. Lì ho capito che lui sapeva che presto sarei diventata mamma, ma sinceramente credevo si riferisse al futuro, non che parlasse di qualcosa che stava già succedendo» sospirò, appoggiandosi totalmente al tavolo. Ricordare quei momenti, quel sogno, nonostante fossero passati tre anni, faceva ancora male.
«Il dubbio che fossi già incinta quel giorno della guerra mi è sorto da ciò che mi avete raccontato sul mio comportamento da gigante».
«Quando ti ho vista, eri in ginocchio e ti stringevi il ventre» rifletté Reiner. «Eri l'unica che non ha preso parte alla battaglia, ma che dopo essersi comportata come se fossi tormentata da qualcosa sei poi corsa ad attaccare Eren».
«Eren mi aveva detto che non sarebbe stato in grado di controllarmi nemmeno col suo potere del Fondatore, se l'è risa un po'. Ha accennato al fatto che fosse perché sono indomabile e faccio sempre di testa mia, per questo non me ne sono preoccupata, ma ripensandoci ha anche detto che sarebbe stato per via della mia ostinazione a voler proteggere a tutti i costi ciò che era importante per me e del mio spirito di sacrificio, che mi avrebbe spinta a trascurare me stessa per questo. Non lo so, in quel momento sembrava sensato, ma...»
«Probabilmente in quel momento il tuo istinto materno ha avuto la meglio sul comando del Fondatore» rifletté Armin. «Quando hai attaccato Eren non lo hai fatto con consapevolezza, al risveglio non ricordavi niente, tu eri veramente come gli altri giganti. Ma i giganti si muovono ad istinto e in quel momento il tuo ti diceva che dentro te c'era qualcosa che dovevi assolutamente proteggere... e per farlo era necessario che Eren morisse, così da portare il futuro da lui progettato ed eliminare il potere dei giganti che avrebbe impedito la nascita di Marcel, se non addirittura distrutto. Questo spiega perché tu sia sembrata tormentata in un primo momento: dentro te c'era una battaglia tra gli ordini del Fondatore, il desiderio di proteggere Marcel e quello di salvare la vita a Eren. Ma alla fine, come aveva detto Eren, nella tua scala di importanze lui è stato sorpassato e hai dato priorità a Marcel».
«Eren mi aveva detto che la mia ostinazione nel proteggere le cose a me care sarebbe stata la mia forza. Penso si riferisse al fatto che con quella sono riuscita a ignorare gli ordini del Fondatore» concluse Beatris.
«Sì, credo anch'io che sia andata così. È stato un bel rischio, la trasformazione in gigante avrebbe potuto portare a un aborto... ma forse proprio il suo potere curativo ti ha permesso di rimettere tutte le cose al loro posto, quando sei tornata umana, come ha fatto con il tuo udito e la tua gamba».
«Perciò...» mormorò Jean, sconvolto. «Eri già incinta. E hai combattuto in quelle condizioni... Ehy, un attimo!» gridò improvvisamente e si voltò a guardare Reiner e Beatris allibito. «Ma... voi due... quando... vi eravate rivisti solo due giorni prima! E mi avete detto che Reiner è rimasto svenuto per quasi ventiquattro ore dopo la battaglia di Shiganshina, si è svegliato quando siamo arrivati noi! Quando...» rifletté turbato e confuso, non riuscendo a capire quando fosse successo che quei due avessero avuto il tempo di mettersi a concepire bambini. Ma un ricordo lo travolse e spalancò gli occhi, allucinato: c'era stato effettivamente un momento in cui erano rimasti soli, dopo essersi ritrovati. Scattò in piedi e prese Reiner per il colletto, furioso. «Hai deflorato Beatris in quel bosco quella sera che ci siamo riuniti, nelle condizioni in cui eravamo?! Razza di pervertito, non aspettavi altro?!» ruggì talmente forte che per poco non gli sputacchiò sul viso. E Reiner ricambiò lo sguardo nervoso, non tanto per essere preso per il collo, quanto perché ancora una volta era emerso quel suo attaccamento morboso a Beatris e l'assurda repulsione che aveva verso la loro relazione. Che aveva da scaldarsi tanto? Cosa gli importava di come viveva la sua relazione con Beatris? Sembrava davvero che a volte ci fosse dell'interesse da parte sua, non riusciva a tollerarlo. «Non l'ho deflorata in quel bosco, l'ho fatto quattro anni prima se proprio ti interessa così tanto l'argomento!» gli disse, provocatorio.
«Che cosa?!» urlò Jean sconcertato.
Armin, per quanto fosse poco interessato all'argomento e più serio, si ritrovò comunque a spalancare gli occhi e schiudere la bocca, sorpreso. Pieck al suo fianco spalancò lo sguardo a sua volta, ma non tanto per lo shock della notizia, quanto per la curiosità nello scoprire certi dettagli a suo parere interessanti e divertenti.
«Ehy!» ringhiò Connie, alla finestra, e si preoccupò di tappare le orecchie a Marcel. «Ci sono dei bambini qui, ve lo siete dimenticato?!» ma restò inascoltato.
«Durante... l'accademia?» mormorò Armin, sconvolto.
«Lurido pervertito!» ringhiò Jean scuotendo Reiner per la camicia, che non si scompose affatto ma tenne lo sguardo tenace su di lui, quasi a sfidarlo.
«Nel bosco abbiamo solo replicato» insisté Reiner, deciso a infierire su Jean che ormai era fuori di sé. Ma vide Jean cambiare improvvisamente espressione e arretrare di un passo, terrorizzato da qualcosa. Reiner fece appena in tempo a voltarsi, chiedendosi cosa avesse visto di così spaventoso, ma vide solo la caffettiera, che fino a quel momento era al centro del tavolo, volare in rotta di collisione contro il suo viso. E non si accorse di nient'altro, se non del colpo che per poco non gli ruppe uno zigomo e gli aprì uno squarcio sul labbro. Perse l'equilibrio, scaraventato all'indietro, e cadde a terra, completamente distrutto e atterrito.
Beatris, con ancora la caffettiera in mano, si alzò dalla sedia tanto di colpo da scaraventarla via. Guardò Reiner a terra e gli ruggì contro, completamente fuori di sé: «Hai finito di fare il gradasso per le tue conquiste, eh?!»
«Tris...» sibilò Jean, pallido in volto.
«Reiner!» scattò in piedi Armin, preoccupato. «È ferito!» esclamò notando il sangue uscirgli dal labbro spaccato e dal naso. E Beatris parve notare la cosa solo in quel momento, ricordandosi improvvisamente: «Non può più rigenerarsi, è vero!»
Lasciò cadere a terra la caffettiera e guardò Reiner in preda al panico, rendendosi conto solo in quel momento che forse aveva un po' esagerato.
«Continui a dimenticarlo...» sibilò Reiner, ancora cosciente, ma troppo distrutto psicologicamente per riuscire a rialzarsi.
«Continui?» Pieck aggrottò le sopracciglia. «Quante altre volte lo hai colpito a morte prima d'ora?»
«Qualche volta è successo...» mormorò Reiner, imbarazzato, e solo allora cominciò a sollevarsi da terra, mettendosi a sedere. Beatris gli si inginocchiò a fianco e guardò il suo volto preoccupata, sfiorandogli lo zigomo colpito ed esaminando rapidamente le sue ferite. «Oh no, scusami tanto!» disse tanto dispiaciuta che per poco non si mise a piangere.
«Non fa niente, me lo sono meritato» commentò Reiner toccandosi il labbro ferito per constatare il danno. Si contrasse in un'espressione di dolore e socchiuse appena gli occhi. Lo aveva davvero conciato per le feste.
«Vado a prendere il kit per la medicazione» disse Armin, scappando via.
«Vieni, siediti sul divano» disse Beatris, prendendo Reiner per un braccio e aiutandolo ad alzarsi. Lo accompagnò al divanetto, ce lo fece sedere sopra e si inginocchiò di fronte a lui. Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto e cominciò a pulirgli il volto dal sangue, tamponando il taglio sul labbro.
«Non hai niente di rotto, vero?» chiese, preoccupata.
«Solo profondamente ferito nell'orgoglio» rispose, sentendo l'imbarazzo tornare a travolgerlo. Si era comportato da vero idiota, ma Jean gli faceva davvero saltare i nervi a volte. «Scusami» aggiunse in un sospiro. «Sono stato un idiota».
«Ci sono abituata, ormai» gli rispose, provocatoria. Ora che la preoccupazione per le sue ferite si stava placando, constatando che non c'era niente di seriamente rotto, sentì tornare il nervosismo per essere stata messa così in imbarazzo pervaderla dallo stomaco.
Reiner ridacchiò nervoso ma non rispose, impaurito all'idea di peggiorare la situazione. Beatris finì di ripulirgli il sangue uscito dal labbro e solo secondi dopo sospirò, ritrovando la calma. Alle sue spalle Jean era tornato a sedersi al tavolo con Pieck, mettendosi a parlare con lei, mentre Connie era tornato a guardare fuori dalla finestra insieme a Marcel.
«Non riuscirete mai ad andare d'accordo voi due, eh?» Beatris abbozzò un sorriso divertito.
«Non gli andrò mai a genio» sospirò Reiner.
«Perché a te invece sta simpaticissimo, non è così?» ridacchiò Beatris, tamponandogli il labbro e assicurandosi che avesse smesso di sanguinare.
«Io non ho niente contro di lui... più o meno...» mormorò, distogliendo lo sguardo imbarazzato, e Beatris ridacchiò ancora.
«Bea» Armin tornò vicino a lei e le porse una borsa con del ghiaccio e una scatola contenente gli strumenti del primo soccorso.
«Grazie, Armin» disse lei, prendendo le cose che gli porgeva.
«Io vado sul ponte, stiamo per attraccare» annunciò lui e uscì nuovamente, raggiungendo Annie che era rimasta fuori a godersi la brezza marina. Beatris avvicinò il sacchetto del ghiaccio allo zigomo di Reiner che ancora una volta si corrucciò per un istante, per il dolore, ma non si ritrasse. «Tienilo fermo, ti metto un cerotto su quel taglio. Non vuole smettere di sanguinare».
«Se stiamo per attraccare dovrò andare a cambiarmi. Ho sporcato la camicia, non posso presentarmi alla Regina in queste condizioni» commentò lui, dando uno sguardo alla macchina di sangue sul colletto.
«Due camicie sporche nel giro di neanche due ore» sospirò Beatris. «Quanto affanno che mi date».
«Non parlare come se facessi tutto tu in casa, anche io ho la mia bella mole di lavoro, soprattutto con te. Sei la persona più disordinata dell'universo».
«Passo la maggior parte delle mie giornate a rincorrere Marcel ed evitare che combini guai, non ho tempo di tenere in ordine» disse, arrossendo lievemente per la vergogna. «Se non ci fossi io a pensare a controllare quel bambino» sospirò poi. «Tu gli lasci fare qualsiasi cosa, gliele dai sempre vinte, sei troppo tenero».
E un sorriso raddolcito sbocciò sul volto di Reiner, prima di mormorare: «È un vizio che non mi sono mai tolto». Quante volte lo era stato anche con lei, ai tempi dell'accademia. Quante volte lo avevano redarguito per essere troppo tenero nei suoi confronti, persino quando lei cacciava entrambi nei guai. Quante volte l'aveva accontentata in ogni capriccio solo per riuscire a vederla sorridere.
Beatris alzò lo sguardo dal suo labbro, che aveva finito di medicare, e si sentì affogare dentro quegli occhi. Sorridente, Reiner la guardava con una dolcezza infinita, come se fosse l'unica cosa bella e sensata presente al mondo. Riuscì a scorgervi l'amore che provava per lei ed era uno sguardo che conosceva bene e che tanto le era mancato. Quello era lo stesso sguardo che le aveva rivolto sempre ai tempi dell'accademia, quando ancora erano solo ragazzi innamorati, lontani dalle crudeltà del mondo, ancora liberi da qualsiasi turbamento. Lo sguardo di un Reiner libero e leggero, che sentiva di avere una vita da vivere, che sentiva di avere un significato nel mondo, solo quando vedeva lei. Uno sguardo sereno e pieno di gratitudine, perché solo nei momenti in cui poteva averla a fianco sentiva finalmente di essere in pace. Era lo stesso sguardo di allora, di quando entrambi erano stati per la prima volta veramente felici.
E come succedeva sempre allora, Beatris sentì l'emozione pervaderle il petto, la felicità arrivare a stuzzicarle le guance e sul suo viso, infine, sbocciò un enorme sorriso. Luminoso, candido, reale... proprio come quello di allora. Il sorriso della piccola Tris che sempre non faceva che illuminare il mondo circostante, rendendolo vivo e meraviglioso. Il sorriso che aveva rapito Reiner, intrappolato, e che gli aveva fatto desiderare di continuare a vivere. Solo per poterlo guardare ancora migliaia di altre volte.
«Vatti a cambiare adesso. Tra poco sbarchiamo» gli disse infine, mettendo via il cotone e il disinfettante. Reiner le si accostò leggermente, nel movimento per alzarsi, e le sussurrò malizioso vicino all'orecchio: «Mi vieni a dare una mano?»
Beatris avvampò fino alle orecchie e si voltò per fulminarlo, rimproverandolo con lo sguardo. Che razza di proposte le faceva? In un momento come quello? Con i suoi amici e Marcel a pochi passi da loro?
Reiner sghignazzò, divertito, e ammise: «Sto scherzando. Non vorrei ci scappasse il terzo figlio proprio in questo momento» e si alzò, pronto ad allontanarsi, quando sentì Beatris borbottare imbarazzata: «Sono già incinta, non può succedere».
Reiner si fermò a un passo da lei, pensieroso, prima di voltarsi e guardarla. In silenzio, in attesa, ma con gli occhi quasi speranzosi. Come se le stesse dicendo: "e allora perché no?".
E Beatris esitò. Guardò lui, guardò i suoi amici al tavolo, ignari di tutto, poi tornò a guardare lui. Palesemente indecisa. Ma alla fine ruggì, agitata: «Non è il momento!»
«Ci stavi davvero pensando?» ridacchiò lui, divertito dal suo palese tentennamento.
«Reiner! Ti spacco anche l'altro zigomo se non la smetti!» lo rimproverò esagitata e il risolino di Reiner si trasformò in una vera e propria risata. Ma nessuno si stupì di sentire la sua voce ridere così liberamente... negli ultimi tre anni era capitato davvero così spesso, che ormai era diventato normale.
«Ci metto un attimo» disse, infine. «Cominciate pure a scendere se non torno in tempo» e uscì, diretto alla sua cabina per cercare di rimettersi in ordine.


La nave attraccò e ad accogliere il piccolo gruppo di ambasciatori del continente fu Historia in persona, con gli Azumabito alle sue spalle e un piccolo gruppo di soldati come scorta. Scesero dalla nave e si avvicinarono a Historia, rigida nella sua posizione, seria in volto. Lei li squadrò uno a uno, poi il suo sguardo si fermò sul piccolo Marcel, che timido si nascondeva dietro le gambe di Beatris. E con gli occhi meno freddi ma più emozionati tornò a guardare Beatris, che le sorrise dolcemente.
«Marcel» disse quest'ultima, inginocchiandosi per raggiungere il figlio. «Vai a salutare la regina Historia come ti ho insegnato».
Marcel era stato emozionato all'idea di incontrare una vera regina e Beatris si era impegnata molto nello spiegargli le buone maniere. Avrebbe dovuto inchinarsi e fare una bella presentazione, così avrebbe fatto buona impressione. Ma Marcel restò ancorato agli abiti di sua madre e guardando Historia da oltre le sue gambe disse semplicemente, sfuggente: «Ciao».
«Non è così che ti ho spiegato che devi fare!» gli disse Beatris contrariata, ma non riuscì a provare altro se non un divertito senso di dolcezza. Marcel era una vera peste, la stremava, ma di fronte alle novità diventava improvvisamente timido e impaurito. Soprattutto con le persone che non conosceva. Sospirò intenerita e lo prese in braccio. Marcel le si arpionò al collo e continuò a fissare intimorito Historia, da oltre il proprio braccio. Come se avesse voluto nascondercisi dietro. E infine Beatris si avvicinò a Historia. Fece un educato inchino, per quanto sentisse che fosse forzato, per niente naturale, quasi imbarazzante. Non vedeva Historia da quasi quattro anni e non avrebbe mai dimenticato l'amicizia che le aveva legate ai tempi dell'accademia. La promessa che le aveva fatto e che mai era riuscita a mantenere... non era riuscita a riportarle Ymir, e questo l'abbatteva.
Avrebbe davvero voluto, in quel momento, abbracciarla forte e basta.
«Grazie per averci accolto, Historia».
«È un incontro diplomatico, non avrei potuto rifiutare. Nessuno vuole la guerra, è giusto cercare prima il modo di parlarne».
«Il mondo è ancora spaventato dagli jaegeristi e da Paradis, e Paradis è spaventata dal mondo. Non ha senso ucciderci a vicenda senza prima aver provato ad appianare le divergenze in maniera pacifica».
«Già... credo che abbiamo imparato tutti una lezione da quanto è successo» confessò Historia e lanciò rapidamente uno sguardo a Reiner, alle spalle di Beatris. Tutti i loro conflitti, le perdite, le morti, tutto quello era iniziato perché nessuno aveva provato prima a parlarne.
Non abbiamo ancora nemmeno parlato.
Marco, con quelle sue ultime parole, aveva trasmesso una profonda verità. Se avessero prima parlato, forse tutto quello non sarebbe successo. Anche se i conflitti tra Eldia e il mondo non erano ancora appianati, c'era ancora un modo per risolvere tutto senza sfociare nel sangue inutilmente. Parlare.
Historia tornò a guardare Marcel, che serrato al collo di Beatris non aveva fatto che fissarla intimorito. Gli sorrise dolcemente: «Piacere di conoscerti, Marcel» disse e Marcel parve farsi ancora più piccolo tra le braccia di sua madre.
«È un finto timido» spiegò Beatris, sorridendo dolce verso suo figlio. «Dagli tempo di prendere confidenza con la situazione e allora rimpiangerai il suo silenzio».
Historia le rivolse un sorriso, anche se parve più essere di cortesia che reale, ma fu difficile leggerle lo sguardo. Da quando era diventata regina era cambiata così tanto, le responsabilità l'avevano resa più fredda e più dura. E Beatris sospettò che in parte c'entrasse anche la perdita di Ymir.
«Venite» disse poi anche al resto del gruppo. «Viaggeremo in treno, ma è ora di pranzo e ci vorrà comunque qualche ora. Abbiamo allestito un piccolo banchetto, così mangeremo prima di partire» e fece strada, guidandoli attraverso il porto che in quei tre anni avevano ricostruito perfettamente dopo la distruzione che loro avevano lasciato nella loro fuga. Era come nuovo, eppure guardandosi attorno ebbero la sensazione di vedere ancora cadaveri e sentire urla. Era invaso dai fantasmi del passato.
Superarono i primi edifici e si avvicinarono al retro di uno di questi, più elegante. Una zona d'accoglienza, forse una piccola località turistica, o forse semplicemente un punto d'appoggio per chi sbarcava e chi partiva per poter riposare prima dei viaggi. Nel cortile sul retro trovarono dei tendoni e tavole imbandite, già pronte per essere servite col cibo cotto nelle cucine dell'edificio. Era piacevole, il sole era caldo e luminoso, la brezza marina li rinfrescava, l'odore del cibo arrivava fino a loro dalle cucine, sentivano il rumore dei gabbiani... era un luogo pacifico e piacevole, eppure nel loro animo non vi era che una pressante sensazione di disagio. Camminavano sul suolo che loro stessi avevano distrutto e macchiato di sangue, mischiandosi a chi era loro nemico e chi lo era stato. C'era tensione, i soldati che avevano accompagnato Historia erano rigidi e scuri in volto, tesi, forse pronti a ingaggiare battaglia se ci fosse stato bisogno.
«Accomodatevi, ci serviranno il pranzo tra poco» disse Historia avvicinandosi a dei tavoli messi a ferro di cavallo, in modo che avessero potuto tutti guardarsi in volto. Si sedettero e sentirono la tensione crescere, nel silenzio che li circondava.
«Historia...» mormorò Armin a un certo punto, cercando di prendere parola, ma Historia lo interruppe con un: «Parleremo in sede ufficiale. Ora pensate a rifocillarvi. Com'è stato il vostro viaggio?»
Chiacchiere di circostanza, per cercare di colmare un vuoto decisamente enorme, troppo grande per poter essere riempito con solo parole come quelle, senza alcun significato. Ma cercarono di farsi coinvolgere, cercarono comunque di non lasciare che il disagio prevalesse. E nel tentativo di gestire quella pesante situazione, Beatris non notò che a un certo punto Marcel, seduto accanto a lei, era sgusciato sotto al tavolo. Quando si voltò, ormai non c'era più.
«Marcel!» chiamò, allarmata. Si alzò in piedi, già in preda al panico, chiedendosi dove fosse finito e quale guaio stesse adesso combinando. Ma per sua gioia lo vide subito, non troppo lontano, seduto vicino a una siepe... insieme a una bambina della sua età. La guardò sorpresa. «Chi è la bambina?» chiese, non avendola notata prima.
«Brimir» rispose Historia. «È mia figlia, stava giocando qui intorno».
«Scusalo, è davvero incontrollabile a volte. Vado subito a riprenderlo» disse Beatris, mortificata che Marcel avesse potuto infastidire la figlia di Historia, ma questa la bloccò prendendola per un polso. «Aspetta...» le disse. «Lasciali stare. Stanno solo giocando...»
Beatris tornò a guardare i due bambini con una lieve sorpresa nel volto. Si era preoccupata tanto... di cosa? Il suo allarme era dovuto al fatto che Marcel avesse potuto infastidire Brimir, perché loro erano nemici. Ma lo erano solo agli occhi degli adulti, troppo ottusi per capire che sarebbe bastato veramente poco per risolvere ogni cosa. Sarebbe bastato essere come quei due bambini, che si vedevano l'un l'altro solo come bambini.
«Tu sei la principessa, allora?» sentì dire da Marcel, incuriosito.
«Mia mamma è la regina di quest'isola» rispose Brimir, come se quello fosse bastato a spiegare la sua situazione. Principessa non era un titolo che forse era abituata a sentirsi dare, Historia aveva fatto molto per cercare di non caricarla di alcuna responsabilità.
«Mio papà e mia mamma hanno combattuto contro i cattivi e hanno salvato il mondo, invece» rispose Marcel.
«Devono essere forti» commentò Brimir e Marcel allargò il petto, orgoglioso. «Sì! Loro sono forti! Vuoi vedere cosa so fare?» chiese poi con innocenza e salì su una piccola sporgenza che delimitava le aiuole. Si sporse un po', ciondolò le braccia e infine saltò giù da una misera altezza di dieci centimetri.
«Lo so fare anche io» disse Brimir e si arrampicò sulla stessa sporgenza. Ciondolò un po' e infine saltò giù, atterrando più impacciatamente e costringendosi a mettere le mani a terra per non cadere. Marcel le fece un largo sorriso divertito e tornò ad arrampicarsi, per replicare, seguito da Brimir. Saltando insieme, ancora e ancora, contando forse chi ne faceva di più o chi faceva il salto più bello.
«Oh no!» esclamò improvvisamente Marcel, indicando il vuoto alle loro spalle. «C'è uno di quei mostri cattivi!»
«Eh?! Dove?!» chiese Brimir, spaventata. Marcel raccolse un bastoncino da terra e lo brandì come una spada, davanti a sé. «Non avere paura, principessa! Ci pensa l'eroe a salvare il mondo» e si lanciò alla carica contro un albero, cominciando a colpirlo col bastone. Ridendo, urlando, e Brimir dietro di lui che correva e rideva divertita, fingendosi la principessa in pericolo. Corsero insieme, cambiarono di nuovo gioco, cercando di acchiapparsi tra loro. E risero talmente forte che le loro voci riuscirono assurdamente a riempire il vuoto che fino a quel momento avevano sentito soffocarli tutti. Riempire l'intero porto. Scacciare i fantasmi.
Sì, sarebbe stato così semplice se solo fossero stati come bambini.
Beatris si sedette nuovamente al fianco di Historia, rilassata, raddolcita. E infine si voltò verso la ragazza al suo fianco, scoprendo che anche lei sorrideva... finalmente sincera. Si scambiarono un lungo sguardo complice, lo sguardo di due madri che assistevano ai propri figli giocare insieme, ma soprattutto lo sguardo di due amiche che infine si erano ritrovate. E si sorrisero, libere da qualsiasi etichetta, da qualsiasi obbligo. Felici... come due semplici amiche.
Poteva davvero essere tutto così semplice.
Per salvare il mondo, in fondo, sarebbe bastato un sorriso.


Ehy, Scemo-Eren, ti ricordi quella volta che ruppi la credenza della zia Carla? Avevamo solo quattro anni, mamma era incinta di Rose. Si era sentita male per delle nausee e la zia l'aveva portata fuori a prendere una boccata d'aria. È stata la prima volta che ci hanno lasciati soli. La zia sapeva fare dei biscotti deliziosi e sapevo che li teneva nello scaffale in alto della credenza. Non facevo che chiederglieli e tu ti arrabbiavi sempre perché non facevo che insistere, capricciosa, che ne volevo ancora. Mi malmenavi e mi dicevi di stare zitta. Visto che mamma e zia non c'erano, non c'era nessuno a dirmi che non potevo prendere più biscotti, così mi arrampicai sulla credenza per arrivare al barattolo. Hai provato a tirarmi giù, afferrandomi per un piede e strattonandomi, ma sono rimasta ben aggrappata agli scaffali e ho iniziato a tirarti calci per convincerti a lasciarmi stare. Alla fine è venuto giù tutto. Se non ci fosse stato il tavolo davanti, ci avrebbe schiacciato completamente, siamo stati fortunati. Ma gli sportelli si aprirono e venimmo investiti da una pioggia di tazze, bicchieri e tazzine. Mia mamma per poco non svenne quando ci vide. Tra i due tu sei quello che si fece più male, perché mi copristi con il tuo corpo e mi proteggesti. Eppure sei rimasto sereno, mentre io più ferita nell'animo che nel corpo non ho fatto che urlare e piangere disperata per la paura. Mi hai aiutato a uscire da lì sotto e mi hai dato una sistemata, assicurandoti che stessi bene. Quando mamma e zia sono rientrate io non riuscivo a far niente se non piangere, mentre tu spiegasti sereno "Beatris ha provato a prendere i biscotti, ma è caduto tutto. Meno male c'ero io a proteggerla". Avevi manie di protagonismo ed eroismo già allora, l'hai sempre avute. Per questo io so che se tu riuscissi a sentirmi, se tu sapessi cosa sta succedendo qua fuori, faresti sicuramente qualcosa! Ora che ci penso... non appena tu finisti di spiegare, io in lacrime ti puntai un dito contro e urlai in preda ai singhiozzi che era stata colpa tua. Ti sei arrabbiato e abbiamo di nuovo iniziato a litigare. Te lo ricordi, Eren? Quel pomeriggio mi presentasti Armin. Non potendoti muovere dal letto, ferito com'eri, venne lui a trovarti a casa. Ci fece vedere quel bellissimo libro di suo nonno... quello con il mare, gli enormi laghi di sabbia, e le terre di ghiaccio, e tutti quegli animali bizzarri. Li ricordi gli elefanti? Animali enormi, con un lunghissimo naso con la punta che somigliava a quello di un maiale. Armin ci disse che con quel naso potevano afferrare le cose. Ricordi quanto risi? L'idea di un animale in grado di afferrare le cose con il naso a maiale mi faceva morire dal ridere. E poi... Poi ti ho disegnato con un enorme naso a maiale, dicendoti che eri un elefante. Zia Carla non capì il significato di quel disegno, ma conservava tutto quello che facevamo. Anche se non lo capiva, lo mise nel cassetto insieme a tutti gli altri. Senti, Eren... secondo te c'è ancora quel disegno a casa a Shiganshina? Non mi dispiacerebbe potermelo riprendere. Eri così buffo, lì,

Scemo-Eren...

I got you || Reiner x OC || Attack on titan/Shingeki no KyojinDove le storie prendono vita. Scoprilo ora