33. A te

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Nei giorni successivi mi sentii abbastanza in colpa per come mi ero comportata con Craig, non era mia intenzione prenderlo in giro o illuderlo in qualche modo e glielo scrissi pure per messaggio in varie occasioni. Non lo credevo un tipo capace di una ripicca come quella portata avanti da Ben, ma non si era mai sicuri e volevo fare tutto ciò che era in mio potere, per impedire che perdesse la testa. Non potevo pensare di essere talmente sfigata da trovare in pochi mesi due uomini che non sapevano accettare un rifiuto, non lo credevo umanamente possibile.

Ciò che peggiorò ulteriormente il mio umore durante quel weekend in solitaria, era la consapevolezza che nemmeno tentare di uscire con qualcuno poteva salvarmi dai miei stessi pensieri. Mi sentivo fottuta, amareggiata e scoraggiata, perché sapevo che non sarebbe stato facile per me chiudere con Jason, quando ero costretta ad avercelo intorno per tutta la giornata. Per fortuna, dalla nostra discussione, aveva smesso di piombarmi in ufficio dal nulla, con una tazza di caffè in mano. Mi evitava, era ovvio, mi salutava solo quando era costretto, altrimenti a malapena incrociava il mio sguardo e faceva male, dannatamente male, peggio di un pugno nello stomaco. Gli unici momenti in cui sembravo degna di attenzioni era quando Craig veniva nel nostro ufficio, in quel momento Jason ci osservava con le mani nelle tasche e lo sguardo serio.

Thomas il lunedì mattina si era subito attivato per prendere accordi con il capo di Craig e risolvere il disastro che il nostro vecchio tecnico aveva combinato. Non ci era voluto molto che Craig entrasse nel nostro ufficio per mettersi subito all'opera. Mi sarei aspettata da lui una certa freddezza, quasi indifferenza, ma era sempre piuttosto simpatico, tanto che mi ero ritrovata spesso a passare cinque minuti a chiacchierare con lui, a ridere e a scherzare. Era ovvio che fosse abituato a gestire gli incontri su Tinder, perché non sembrava uno che portava rancore e se la legava al dito. Il genere femminile in quei giorni non sapeva più dove guardare, tra Jason, Craig e Paul c'era l'imbarazzo della scelta.

Una settimana passata a quel modo, comunque, mi aveva spossata. Tra Craig e l'indifferenza di Jason mi sentivo completamente svuotata. Ero delusa da me stessa e dal modo in cui mi ero comportata in quell'ultimo periodo, ma mi rendevo anche conto che delle scuse sarebbero servite a ben poco. Non era colpa di nessuno se non riuscivo a togliermi dalla testa Jason, nemmeno sua, e non avrei dovuto gettargli addosso la mia frustrazione, ma ormai il danno era fatto e non potevo più tornare indietro.

Di sicuro, ero sempre più convinta che avessi bisogno di tempo e, quando la settimana successiva mi si presentò l'occasione di andare a Chicago per un meeting di 7 giorni, la colsi al volo, nonostante mio padre insistette per far venire con me anche Jason, in modo che potesse prendere contatti con dei nuovi clienti che fossero più nelle sue corde. Mi ero trovata così a spiegargli la situazione, in breve e senza troppi dettagli, del perché me ne dovessi andare e la presenza di Jason avrebbe solo intaccato il mio rendimento. Aveva compreso, per fortuna.

Così il lunedì mattina, mi ritrovavo con la valigia alla mano e lo sguardo perso alla ricerca di qualcosa che sicuramente stavo dimenticando. L'idea di allontanarmi per un po' mi aveva dato una nuova carica e mi sembrava di sentirmi più leggera.

Il citofono suonò all'improvviso, facendomi sussultare sul posto.

Chi sarà mai?

«Signora, sono il corriere! C'è un pacco per lei.»

«Scendo subito» presi le chiavi e la valigia, mi chiusi la porta alle spalle e scesi con l'ascensore.

«Ecco a lei» mi porse un pacchettino delle dimensioni di un quaderno e aggrottai le sopracciglia.

«Grazie, buon lavoro.»

Rigirai l'involucro tra le mani fino a quando non mi scappò il nome sul mittente: Becca. Fermai un taxi che mi passava davanti, mentre cercavo il cellulare nella borsa.

Il Linguaggio Segreto dell'AnimaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora