46. Saresti un padre fantastico

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«Quindi, è qua che abiti, eh?»

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«Quindi, è qua che abiti, eh?»

Paul era entrato nel mio salotto e aveva il naso all'insù, perso a osservare ogni più piccolo dettaglio. Si guardava attorno con gli occhi sbarrati come se volesse assorbire il più possibile ogni singola sfumatura di casa mia. Era la prima volta che ci entrava, ma non credevo che sarebbe stato così curioso e sembrava pure piuttosto sorpreso, anche se non ne capivo il motivo.

«Troppo?» gli chiesi, mentre rigiravo il liquido ambrato nel bicchiere, facendo tintinnare il ghiaccio.

«Poco, credevo che vivessi nel lusso sfrenato, considerato i vestiti che indossi» il suo sguardo si posò su di me e lo vidi sussultare. «Stai messo peggio di ieri sera.»

Alzai gli occhi al cielo, per poi buttare giù un sorso di whiskey di getto. La gola bruciò inesorabile, ma la ignorai, tornando a riempirmi il bicchiere. «Non ho dormito granché.»

Infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, gli feci segno di sedersi sul divano con la mano, ma scosse la testa deciso. «Come mai mi hai convocato qua, in gran segreto, come se dovessimo parlare di un affare di Stato?»

Sospirai, pesantemente e appoggiai i gomiti alle ginocchia, prendendomi la testa tra le mani.

«Jason, devo uscire a fare un paio di commissioni, ti serve qualcosa?» la voce di Albert mi fece alzare la testa di scatto e lo trovai sulla soglia.

Mi scrutò, mi sondò l'anima con uno sguardo e mi fece un leggero cenno del capo, che era un suo tacito modo per incoraggiarmi. Mi ero dibattuto per ore se parlare o meno con Paul: una parte di me voleva dirgli la verità, tutta, senza nascondere niente, ma l'altra era terrorizzata all'idea di metterlo in mezzo in affari che non lo riguardavano. L'avevo già immischiato la sera prima, chiedendogli di andare a tenere compagnia a Hayley e non potevo permettere che la situazione peggiorasse. Albert mi aveva ascoltato riflettere ad alta voce, in silenzio, osservando solo le mie reazioni per poi rispondermi che Paul aveva tutto il diritto di saperlo, soprattutto perché c'era la grande possibilità che perdesse il lavoro da un giorno all'altro e che gli venisse dato il ben servito solo perché era stato il mio assistente in quel lungo anno.

«No, grazie, sono a posto» gli feci un leggero sorriso, come ringraziamento e lo vidi darmi le spalle.

«Porto Buck con me» disse mentre sentivo uno zampettare tutto contento lungo il corridoio.

Quando la porta venne chiusa con un tonfo, Paul tornò a guardarmi. «Quell'uomo è un po' inquietante, sai?»

«Tende a essere piuttosto taciturno, preferisce ascoltare attentamente per poi dare una propria opinione» feci spallucce, come per minimizzare.

«Allora, capo? Vuoi spiegarmi che succede?»

Ma rimasi in silenzio, ancora, senza sapere bene da dove cominciare. Sembrava semplice nella teoria, ma nella pratica era tutto diverso. Forse sarei dovuto semplicemente partire da come tutto era iniziato, oppure potevo spiattellargli in faccia che sarebbe rimasto senza lavoro di lì a pochi mesi. Quell'indecisione non era da me, ero sempre stato sicuro di me stesso, di come mi dovessi comportare e quella staticità mi spaventava. Non ero io, mi sembrava di non essere più il vero me da un po' di tempo. C'erano troppe situazioni che sentivo scivolare tra le dita senza che le potessi afferrare e porvi rimedio.

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