Capitolo 3

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Amelia

La redazione del telegiornale si sviluppa per gradi in uno degli edifici più alti della città.

In questo stesso grattacielo, anno dopo anno, ho costruito la mia carriera.
Piccole conquiste: interviste minori, collegamenti esterni, quelli in diretta erano i miei preferiti, montaggi dei servizi dietro la scrivania con lo staff...
Avevo fatto di tutto. Ero pronta a tutto.

O almeno pensavo di esserlo.

Un soffio, ecco quanto distavo dal vedere concretizzarsi il mio sogno, solo un passo, un gradino, un ultimo sforzo. Ma sono stata bloccata, lasciata in bilico, infine spinta verso il basso senza alcuna possibilità di arrestare la caduta.
E tanti saluti alla mia poltrona.

Uscita dall'ascensore, scivolo sul marmo lucido e mi dirigo verso la mia postazione. Occupata la scrivania, nell'attesa che il computer si attivi, inizio a smistare la posta che mi è stata lasciata nell'apposito cassetto. Il poco personale presente in redazione mi passa vicino accennando un saluto distaccato, frettoloso. Posso affermare, senza risultare patetica, che persino le email che ricevo dai vari uffici sono più amichevoli dei volti che si affacciano al mio cubicolo durante l'intero orario di lavoro.
Ma, in fondo, non merito altro.
Per mesi hanno provato ad avvicinarsi, si sono sforzati oltre ogni misura per mettermi a mio agio. Ma i loro occhi pieni di compassione mi stavano uccidendo; integrarmi come prima mi sembrava impossibile.
A volte mi sento un automa programmato per svolgere il proprio lavoro, e niente di più.
Il fuoco che mi bruciava dentro, ogni volta che lottavo per il mio obiettivo, si è come spento.

Era stato il mio superiore, Robert Carson, a farmi tornare in redazione. Nonostante le chiamate a cui non avevo mai risposto, le email mai lette, lui si era attaccato al campanello di casa dei miei genitori. Se non facevo scattare la serratura, non ho dubbi che lui sarebbe ancora lì, con il dito premuto. Era entrato con due caffè d'asporto e mi aveva comunicato -Lunedì, alle otto, sii puntuale-, telegrafico come suo solito.
Quel giorno avevo trovato il mio pass alla reception e le indicazioni del mio nuovo sgabuzzino personale.
Dieci, cento, mille passi indietro, come in una partita al Gioco dell'oca. Tirare ancora il dado, a mio avviso, una totale perdita di tempo.

Sono alle prese con una correzione, un testo al pari di un colabrodo grammaticale, quando un colpo di tosse innaturale mi distrae dal mio compito.
Mike Stoler, appollaiato come un avvoltoio sulla parete divisoria del mio cubicolo, mi fissa compiaciuto col suo immancabile sorriso finto dipinto in faccia.

"Buongiorno, Wilder. Riposato bene?"
"Stoler, sembra che tu non l'abbia neanche visto con il binocolo il letto", allargo le labbra e imito la sua ilarità, ma dentro sto morendo d'invidia.
"Ho fatto gli straordinari per il casino tra gang di stanotte. Hanno fatto un bel po' di caos", continua a raccontare scendendo nei particolari, come se io ne fossi all'oscuro.

Quanto si sbaglia. Mi sono sorbita la sua faccia da schiaffi in diretta per tutta l'edizione straordinaria.
Non sono riuscita a prendere sonno neanche a servizio concluso. Non mi è restato altro da fare se non mettermi al lavoro. Computer alla mano, in un paio di ore ho buttato giù un pezzo piuttosto buono e l'ho inviato al mio secondo capo, nonché proprietario della rivista 360°, conosciuta anche come: la mia valvola di sfogo segreta. O quasi, visto che sia i miei genitori che Laila sono al corrente di questa mia seconda attività.
Non lo faccio per il denaro, no, solo per me stessa. Per riempire il tempo, per allontanare i pensieri, per scaricare le energie che mi fanno prudere le mani.

Per non sentirmi al capolinea.

L'idea di vestire uno pseudonimo e vendere i miei pezzi come giornalista freelance, lontana da occhi indiscreti, dai mormorii, da tutto, è stata la mia àncora di salvezza.
Quella e il mio lavoro ufficiale nelle retrovie di The News, senza il quale non potrei pagarmi le bollette.

"Perfettamente Imperfetti" Volume I "Con Le Mie Forze"Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora