il Manager

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A parte la mia prima moglie e i suoi, sono poche le persone che conoscono la mia storia, specialmente nell'ambito lavorativo. Nel paddock pensano che sia uno di quelli eletti, proveniente da una famiglia agiata, che gli ha spianato la strada negli affari e io lascio pure che lo credano, perché odierei leggere sul viso di chiunque quella stupida espressione compassionevole e perbenista che tutti assumono di fronte ad una vita fatta di sacrifici e vecchi episodi toccanti e patetici. Mi sono fatto una reputazione da solo, con il solo aiuto di un cognome diffusissimo in Spagna che può farti associare a molte famiglie influenti.

Invece Diego José Diaz, mio padre, era un ubriacone scansafatiche che picchiava mia madre e a cui dovevo nascondere di stare frequentando le scuole superiori al mattino, lavorando di notte, perché altrimenti mi avrebbe linciato. Lo faceva comunque, quando, sfinito, dormivo tutto il pomeriggio per recuperare un po' di energie, almeno quando era abbastanza sobrio per farlo. Io ero il terzo dei suoi sei figli, tutti maschi e tutti che lo odiavano più di qualsiasi altro essere umano sulla faccia della terra, ma nonostante ciò mia madre lo amava, nonostante fosse lei quella che pestava più spesso, nonostante la trattasse come l'ultima delle donnacce, anche se si faceva in quattro per mantenere tutti, lui compreso.

A diciassette anni comunque, mio padre mi mise alla porta, ero abbastanza grande per togliermi dai piedi e io, anche se dormivo per strada, ero finalmente felice. Svolgevo ogni lavoro che mi permettesse di guadagnare qualche spicciolo e un giorno, un paio d'anni più tardi, mi trovai un bel posticino fisso all'autodromo.

Pochi si ricordano di me in quel periodo, ero una specie di tuttofare che iniziò ad appassionarsi a quel mondo, ad ascoltare, a capire e piano piano ad insinuarsi sempre di più tra la gente che contava, a scoprire i talenti, quelli delle categorie minori. In breve tempo il tuttofare divenne manager di diversi ragazzini sbarbatelli.

Avevo sempre avuto una buona parlantina e imparando a muovermi e a conoscere quella gente, presto, divenni uno dei migliori, senza che nessuno scoprisse mai da dove ero arrivato.

Quando vidi per la prima volta Juan Ernandez in moto, ormai avevo una carriera avviata, ero conosciuto e rispettato, avevo portato in MotoGP altri giovani, alcuni dei quali avevano anche vinto, ma lui era diverso, era più scaltro, più talentuoso, con le potenzialità del pluricampione. Lo avevo agguantato, c'eravamo capiti anche con suo padre e avevo avviato la sua carriera, quella del pilota più forte di quel decennio.

Con Juan eravamo partiti dalla Moto3 insieme e arrivati in classe regina non avevo alcun dubbio di aver scelto l'atleta migliore sul mercato.

Tutto era filato liscio, secondo i miei piani, fino a quella notte a Doha, fino a quando il destino aveva messo sulla strada di Juan quel meccanico per cui aveva perso la testa.

Avevo sempre fatto fronte alle diverse storie che aveva intrattenuto, serie o no che fossero state, ma non appena quella ragazza era entrata nelle nostre vite, tutto era diventato ingestibile e complicato.

Eppure lei aveva qualcosa, qualcosa che le altre non possedevano, un fascino tutto suo che, nonostante la detestassi per l'effetto che sortiva sul mio pilota, la rendeva la migliore che avesse mai scelto e anche Juan, con lei, era la parte migliore di se stesso.

Purtroppo Dafne aveva altri piani per il suo futuro, piani che io stesso tentai di sabotare, pur di allontanarla dalle piste e riportare Juan sulla via giusta. Il suo carisma, invece, quando pensavo di averla finalmente fatta fuori, l'aveva ricondotta nel mondo delle competizioni, trascinando nuovamente la mia punta di diamante in un vortice emozionale che non era affatto pronto a gestire.

Ero stato quasi sollevato dal mio incarico a causa sua, avevo quasi perso completamente la fiducia del mio pilota, ma avevo tenuto duro e alla fine, lei era sparita (Diciamo così) ed io ero rimasto al mio posto, riconquistando le grazie di Juan.

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