Non me lo ero affatto immaginato così il momento del parto. Certo, avevo messo in conto il dolore, l'ansia e la solitudine, lo sapevo che non ci sarebbe stato nessuno lì con me ad attendere con le ginocchia tremanti, ma il cuore in tumulto dall'emozione. Per di più ero circondata da gente che parlava una lingua che conoscevo appena e che suscitava sentimenti alquanto discordanti dentro di me. Cavolo, sembrava una coincidenza, ma la figlia di Juan Ernandez aveva scelto proprio quel posto per venire alla luce!
Prima del termine delle gare oltre oceano, il mio capo mi aveva chiesto se fosse giunto il momento di far partire la maternità. Avevo risposto che la mia decisione era lavorare fino alla trentacinquesima settimana e sfruttare un mese in più alla nascita di mia figlia, invece a trentaquattro settimane eccola che spingeva per uscire e guardare il mondo con i suoi occhi, capire da dove provenissero tutti i rumori che aveva ascoltato, quelle insolite ninna nanna fatte di ruggiti di cavalli motore.
Juan se ne era appena andato. Devo dire che avevo apprezzato il suo aiuto, stavo dando di matto prima che arrivasse, ma ora, in ospedale, ero seguita da personale che conosceva e mi parlava in inglese, quindi era giusto lasciarlo ritornare al suo posto... anche se sì, lo avrei voluto lì.
Aveva detto al medico che quella che stava per nascere era sua figlia... chissà cosa avrebbe provato se avesse saputo che era davvero così... ci avevo pensato, avevo considerato di dirgli "Sì, è tua", ma non lo avevo fatto per centinaia di ragioni che me lo impedivano.
L'infermiera mi aiutò ad indossare un camice monouso prima di scendere in sala operatoria. Si prese cura di me con una dolcezza infinita, sistemandomi i capelli nella cuffia con delicatezza, carezzandomi il viso e sussurrandomi che sarebbe andato tutto bene e di stare tranquilla, ma non ci riuscivo. Avevo paura, era troppo presto, non avevo ancora deciso il nome di mia figlia, tanto che quando quella gentilissima donna dal caschetto scuro e gli occhiali da vista stravaganti, me lo chiese, non seppi rispondere. Una ruga si piegò da un lato della sua bocca, una di quelle che il tempo stampa sul tuo viso quando hai l'abitudine di usare spesso un'espressione. Quella donna sorrideva tanto, ne ero sicura.
-Me lo dirai più tardi. Magari quando vedrai la tua bambina capirai qual è.- disse in inglese, chiudendo la cartella che stava compilando e richiamando una collega perché avvertisse che ero pronta. Ero pronta... beh non tanto.
La paura prese il sopravvento e iniziai a piangere silenziosamente, anche se cercavo con ogni forza di impedirmelo. E come? Nulla stava andando come previsto, tutto era sfuggito al mio controllo e io odiavo perderlo!
Mi fecero salire su di una barella e la donna con gli occhiali, accorgendosi del mio stato d'animo, mi carezzò una guancia, sussurrandomi ancora che sarebbe andato tutto bene. Il tragitto da quella stanza alla sala operatoria sembrò un sogno, uno di quelli di cui ricordi solo pochi attimi, ma resta impresso nella mente. All'esterno non vidi Juan, probabilmente mi aveva ascoltata e se ne era andato. Meglio così, pensai.
Furono momenti lunghissimi. I medici nella sala operatoria tra loro parlavano in spagnolo e il linguaggio tecnico che adoperavano mi era sconosciuto, usavano l'inglese solo per rivolgersi a me e la cosa non poteva che agitarmi ulteriormente.
Fu dopo l'anestesia spinale che tutto divenne ancora più confuso. Fino a quando avevo avuto la possibilità di vedere cosa stesse accadendo intorno a me era stato più semplice comprendere, ma appena fui immobilizzata e privata della visuale da un telo che mi impediva di guardare il mio ventre, sentì seriamente tutto il peso di quella solitudine.
Mio padre, che aveva preso la notizia della bambina con una gioia infinita, seppure con la curiosità di conoscere l'identità del padre che gli avevo negato, si trovava dall'altro lato dell'Atlantico con la sua nuova compagna cubana, il mio migliore amico bloccato all'autodromo e l'uomo che amavo, il padre di quello scricciolo, non sapeva neanche che fosse sua. Avevo sbagliato tutto, ogni cosa, dalla prima all'ultima scelta compiuta in quei due ultimi anni e stavo pagando con quell'isolamento che io stessa mi ero costruita.
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the Race to Love
Chick-LitDafne è stata sempre una ragazza atipica. Cresciuta da sola con suo padre nella loro officina meccanica, ha sempre amato i motori, gareggiando, da bambina, nelle competizioni minori. appena adolescente però, si ritrova a dover fare i conti con un fa...