Attesa

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Avete presente quando, in un solo secondo, quella nebbia grigia che offusca i tuoi ragionamenti si dirada, lasciandoti chiara la certezza di quali siano le tue priorità? Fu esattamente ciò che capitò a me. Appena le telecamere avevano chiuso la trasmissione delle immagini di Juan ancora a terra, magicamente la mia mente aveva rimesso tutto in ordine.

-Dafne?- mi giunse all'orecchio finalmente la voce di Alex, che a quanto seppi in seguito, mi aveva chiamata una dozzina di volte, prima che riuscissi a sentirlo.

-Si...- risposi in un soffio.

-Stai bene? -

-No... -mormorai

-Dov'è il tuo monopattino?- esplosi, colta da una illuminazione.

Alex mi indicò il retro del box con l'indice, osservandomi come se fossi impazzita.

-Lo prendo io!- esclamai, correndo fuori.

Il paddock era in tumulto, intravidi i genitori di Juan muoversi sconcertati avanti ed indietro, sentì la madre insistere per sapere se suo figlio fosse cosciente o no, perché la regia continuava a non inquadrare la curva dove era caduto.

Afferrai il monopattino e iniziai a scartare i pedoni, spremendo quell'aggeggio perché mi consentisse di arrivare in curva 6 più in fretta possibile. Ciò non fu affatto semplice, molti correvano in giro, specialmente la stampa, per tentare di capire cosa stesse succedendo a bordo pista.

Avevo gli occhi che sembravano andare a fuoco, ma mi impedivo categoricamente di piangere. Stava bene, non dovevo disperarmi! Per quanto cercai di fare più in fretta possibile, non riuscì a raggiungere la curva prima di vedere l'ambulanza chiudere il portellone e ripartire, senza riuscire neanche ad intravedere Juan.

Il resto degli uomini rimasti a bordo pista stava ancora tentando di imbracare ciò che restava del telaio della moto andata in pezzi per trascinarlo fuori e riportarlo al box di pertinenza. Inforcai nuovamente il monopattino e mossi verso la clinica mobile, lì avrei quantomeno ottenuto qualche risposta, dubitavo di raggiungerla prima dell'ambulanza, ma quando ci arrivai non c'era traccia né del mezzo, né di Juan.

Sciamava un capannello di giornalisti che continuavano a parlare al cellulare, a raccontare quel poco che avevano visto, ma senza sbottonarsi troppo, in quanto nessuno, ancora, si era sbilanciato a parlare delle condizioni di Ernandez.

Fu proprio quando pensavo di essere giunta al culmine della disperazione, che intravidi Diaz lanciarsi in una corsa verso il parcheggio.

Avevo un leggero vantaggio in velocità con il monopattino, quindi schizzai a mia volta verso quella direzione, percependo, senza farci troppo caso, il rumore delle pale di un elicottero che muoveva dalla parte opposta a quella verso cui ero diretta.

Fu quasi uno slalom gigante scartare la gente in angosciosa attesa, che mormorava e allo stesso tempo origliava quanto gli altri si stessero dicendo.

Il destino, come al solito, decise di tirarmi un tiro mancino. Quando pensavo di aver guadagnato un vantaggio che mi avrebbe permesso di raggiungere Diaz prima che si allontanasse troppo, quel dannato monopattino decise che aveva dato abbastanza per quel giorno e, visto il mio trascorso clinico, non ero in grado né di spingermi con la gamba malandata, né di usarla come anca portante spingendomi con l'altra.

-Porca puttana!- Sbottai, abbandonando quell'aggeggio e prendendo a correre sulle mie gambe...

Beh, correre non è che mi riuscisse benissimo!

Ogni volta che tutto il peso si posava violentemente sulla gamba malridotta, sentivo una fitta che sembrava percorrere tutto il femore e barcollavo un po'. Dovevo sembrare una povera storpia, ma non poteva fregarmene di meno, dovevo raggiungere Diaz e basta, che, nonostante la pancia e almeno quindici anni in più di me, sembrava davvero in forma.

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