Capitolo 14 - Parte 3

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La tromba delle scale spunta su una tribuna, affacciata sul campo da calcetto, unica fonte luminosa.

I seggi sono in semi ombra, ma sento Iman infrangere il silenzio, e farlo con una fluidità disarmante. Fucsia se la cava.

Seguo il suono inciampando diverse volte in qualche bottiglietta rimasta in terra, impreco.

Fa freddo quassù, e l'aria frizzante pizzica le guance, sibilando tra i gradoni. Mi stringo la sciarpa al collo.

Finalmente scorgo Fucsia, con la mia Iman in braccio. Canticchia qualcosa, e quando la raggiungo non sembra neanche lei.

Si è tolta il giacchetto della tuta, è accaldata e sta sudando, eppure s'è messa in testa un orripilante zucchetto nero a strisce viola. Una magliettona gialla, brutta come poche cose al mondo e troppo larga per lei, le ricade sciatta sul ginocchio accavallato, abbinata alle Ballantyne slacciate che indossa. Dal collo le pendono due catenine indistinte, la luce le spalma in viso un colorito etereo.

La sua voce, vagamente maschile, vibra nel vuoto.

"Since we're feeling so anesthetized in our comfort zone, reminds me of the second time that I followed you home... every step we took that synchronized, every broken bone, reminds me of the second time that I followed you home... you showered me with lullabies had you walking away... heard your cry... I love to see you run around, and I can see you now... running to me... see you at the bitter end... see you at the bitter end... see you at the bitt..."

Fermo le corde appoggiandoci una mano sopra, lasciando infrangere la strofa in un rumore secco. Fucsia solleva uno sguardo truce su di me.

"Me l'hai rovinata." Commenta.

"Ti avevo per caso detto che potevi usarla?" Ribatto io, oscillante tra l'incazzato e l'incuriosito. Sospiro. Tolgo la mano e mi siedo accanto alla ragazza, trafelata. Ammazza quanto mi ha fatto correre, questa matta.

Beh, lo sapevo io che mi avrebbe rubato la chitarra. Me lo sentivo.

Lei sbuffa. Poi fruga in una borsa ai suoi piedi, che sembra aver preso calci per un mese intero di fila. Ne estrae una lattina di birra del supermercato.

"Rilassati, su" mi invita, porgendomela.

Io la fisso con non so quale espressione in faccia. Sembra sufficiente da farle appoggiare la lattina accanto a me.

"Ma dici sul serio?!" Esclamo.

"Che c'è?"

"M'hai rubato la chitarra! Dico, manco ti conosco!"

"Mi chiamo Agnese. Ecco fatto." Scrolla le spalle. Mi porge la chitarra con estrema naturalezza, la prendo quasi di riflesso, facendo vibrare le corde. Poi stappa una seconda lattina in un rumore sibilante (ah. Ne aveva anche un'altra), e comincia a bere.

"Te ce l'hai un nome?" Mi chiede, dopo un po'.

"Anvil."

"Ah, ti chiami Anvil. Tutti i giorni?"

"No..."

Agnese ride, sollevando il volto verso il cielo scuro. "Sei pure simpatica, allora. C'hai un nome strano, eh."

La guardo di sbieco, non proferendo risposta. Sospiro ancora. Tiro fuori il cellulare, allungando le gambe sul sedile qui davanti, cercando di accomodarmi nella strana situazione. La luce bianca mi invade il volto, abbagliandomi.

Agnese mi imita, stendendo le gambe a sua volta. Sorseggia rumorosamente la birra, mentre io mi spremo il cervello per trovare qualcosa da scrivere a Nicolas. Non posso rimanere con le mani in mano.

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