Capitolo 10 - Parte 1

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Giorno 12 Maggio 2007

Stavo riflettendo sul fatto che negli anni, il mio atteggiamento verso la scuola non è cambiato granché.

Ricordo perfettamente la prima volta in cui fui trascinata nel mio primissimo asilo. A partire da mia madre che parlava al telefono.

"Davvero? Fantastico! La ringrazio! Allora comincia a venire da lunedì." Io mi voltai verso di lei con sospetto, rosicchiando un biscotto e sparpagliando briciole sulle mattonelle del salotto.

I miei capelli boccolosi, all'epoca ancora obbedienti, risposero allo scatto della mia testina da infante ballonzolandomi attorno al piccolo e soffice collo. Mia madre riagganciò il telefono color latte da parete con un sorriso radioso in volto, mentre io muovevo ritmicamente le guance nel lento e concentrato ruminare, stringendo in una paffuta manina il pacchetto dei Plasmon sporcando tutto il pavimento, spalancando gli occhioni su di lei. "Amore di mamma, andrai all'asilo!" Proclamò chinandosi su di me, che ero ancora tutta presa a rosicchiare il biscotto metodicamente.

Non risposi subito. Continuai a mangiucchiare la mia merenda seduta per terra, guardando fissamente i denti bianchi di mia madre, poi i suoi ridenti occhi chiari. "Che è?" Esternai infine dopo aver lentamente deglutito ed essermela presa comoda.

Mia madre scoppiò a ridere e mi sollevò dal pavimento, senza badare alla miriade di molliche. "L'asilo è un bel posto" rispose, trasportandomi su un braccio e conducendosi al divanetto di pelle, dove si sedette per poi sistemarmi sulle ginocchia.

"E pecché?"

"Perché ci sono tanti bambini come te" mi spiegò con voce mielosa, toccandomi il nasino "un sacco di bambini e bambine con cui giocare. E ci saranno le maestre, ti insegneranno molte cose interessanti!"

"E pecché?"

"Perché è bello imparare cose nuove" rispose ancora, togliendomi la granella di biscotti dalle labbra a cuore.

"E pecché?"

"Perché imparando nuove cose si diventa intelligenti" continuò,

toccandosi la tempia con il dito e sollevando le sopracciglia, sgranando le palpebre.

"Scì, ma pecché devo andare all'ascilo? Io voglio andare a Cobaleno, no all'ascilo!"

"Arcobaleno" era un asilo nido in cui ero abituata a stare frequentemente per qualche ora. Mi piaceva, in quel posto, rimanermene lì a guardare i bambini che guardavano i film Disney in una stanzetta imbottita da cuscini e dolcetti (non mi andava di guardare la TV).

Mi piaceva sedermi lì a guardare le bambine un po' più grandi di me, prese a fare complessi giochini da tavola e disegnetti con le maestre (non mi andava di giocare con loro). E soprattutto mi piaceva zampettare sui materassini colorati e trafficare con le costruzioni e le palline di plastica colorate che scagliate in testa facevano un gran male, e mangiare le caramelle al miele in regalo dalla mia maestra e non essere obbligata a far niente di quanto mi si chiedeva di fare. Per me era un piccolo paradiso, l'oasi di una bambina che non aveva mai conosciuto neanche la minima concezione di "inferno". Cos'era improvvisamente questo "Asilo"? Io volevo continuare ad andare al caro Arcobaleno come sempre, non in questo "Asilo" pieno di bimbi e bimbe e maestre.

A cosa mi servivano bimbi e bimbe e maestre se ad Arcobaleno ce li avevo già, mi chiedevo? Mia madre non lo capiva?

Il lunedì mattina del giudizio mi fu infilato uno strano grembiulino rosa a scacchini bianchi. O forse era bianco a scacchini rosa, non riuscivo a capire. E non capivo cosa fosse quello strano affare che mamma mi stava infilando.

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