𓆩XIII𓆪

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☽CAPITOLO 2. AGLIO☾





Udiva i suoi piedi calpestare la morbida erba fresca del campo, stava correndo verso di lui per trarlo in salvo.
Tendeva la propria mano ed evocava il suo nome.

Giglio la guardò avvicinarsi e distese il braccio verso di lei, Dalia.

Ma quando questa sopraggiunse sul posto, si chinò verso di lui, condusse le  labbra al suo orecchio e pronunciò.

«Se solo mi avessi lasciata andare...»

Il cuore di Giglio venne inghiottito, così come l'intero campo.
Il terreno cominciò a vacillare e dividersi, i due si trovarono separati da una grossa e frodonda voragine.
Dalia iniziò a camminare verso la stessa luce che in quella notte la portò via da Giglio, camminava senza guardarsi dietro.

Giglio restò inerme a guardarla, mentre man mano la luce l' accoglieva in sé.

«Dalia mi dispiace! Ti prego mi dispiace! Non mi lasciare per favore, ho bisogno di te! Ho bisogno di te!»
Ma per quanto strillasse a squarciagola verso la magra sagoma scura della giovane, Giglio venne completamente ignorato.

«Ho bisogno di te...»

Si strinse il cuore e pianse, quando si pulì le lacrime dagli occhi, si trovò seduto sopra quella che sembrava una sedia a rotelle.
«Dove sono?» singhiozzò.
«Sei nel mio studio, Giglio» rispose il dottore.

Giglio si guardò attorno, si trovava veramente nello studio del dottore.
L'odore di disinfettante lo abbracciò e la freschezza del profumo del sapone per pavimenti lo stuzzicò. Il bagliore di luce tentò di accecarlo, l'arietta soffiata dalle eliche del ventilatore lo sfiorò con miseria. Udiva il cinguettio allegro dei passerotti farsi il bagno nella fontanella, e il buio di voci che giungevano dal cortile, tutto sembrava chiuso dentro una bolla di vetro.

«Dottore, n-non riesco a muovermi» farneticò cercando anche solo di sollevare le dita.
Il dottore si abbassò i sottili occhiali sulla punta del naso e chinò gli occhi verso il giovane paziente, completamente immobilizzato sulla sedia.

«Ma non sei legato» gli disse.

Giglio si guardò, e vide che non era legato, semplicemente non sentiva più il proprio corpo, era come paralizzato.

«Dottore, che mi succede? Non mi sento più il corpo, perché? Perché non posso muovermi?» balbettò spaventato.

Allora il dottore si alzò dalla sedia, si sistemò il lungo camice bianco, indossò un paio di guanti neri in lattice, e sfilò fuori dalla tasca un lungo cacciavite.

Giglio lo riconobbe subito per le iniziali incise sul manico, quello era il cacciavite di Rouzee.
Ma prima che potesse dire qualcosa, ecco che udì dentro la propria testa un forte e petulante ronzio di zanzara.

«Vattene!» Gridò, ma il ronzio crebbe e prevalse sulla sua voce.

La luce nella stanza calò, e il dottore man mano che avanzava, si mutava in un alta e sottile figura appuntita con grandi ali, una testa deforme e un collo lungo e sottile. Gli crebbe il naso e gli occhi schizzarono dalle orbite, il sorriso si fece largo e le dita si allungarono.
«Infermiere! Infermiere!» chiamò disperato il ragazzo, terrorizzato dalla creatura a lui di fronte.

«Non ho mai fatto sesso con uno scherzo della natura» pronunciò l'essere che la sua mente aveva creato. Avvicinò il cacciavite al volto di Giglio e con la punta lo minacciò di accecarlo.
«Aiutatemi! Mamma aiuto, mamma!»
Il ronzio si fece più assordante, e mentre persisteva, si alterava tra una risata familiare e un grido disperato.

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