| Capitolo III | - Un porto sicuro

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Un intenso calore alla mano sinistra fu la prima sensazione che provai... in assoluto. Non era affatto sgradevole: mi trasmise energia pura e un formicolio che si diffuse dalle dita dei piedi alle estremità dei miei vellutati capelli neri.

Il mondo era un confuso ambiente ostile e sfuocato... Numerose parti del mio corpo dolevano e pulsavano, ora che il formicolio si era attenuato.
Ero... confusa. Dov'ero... e perché?
C'era qualcosa che dovevo fare... avevo un compito. Non era così?

Aprire gli occhi mi era costato una fatica immane e il mio cervello non aveva retto il subitaneo afflusso di informazioni. Avevo visto due volti, prima di perdere i sensi. Due volti... umani? Come mai trovavo significativo il fatto che lo fossero?

Decine di sconosciuti sorpresi mi gravitavano attorno. Volevano qualcosa da me, ma non capivo che cosa. Provavo... paura. Con il passare dei giorni, tuttavia, il mio corpo si rinforzava.

Non mi aveva mai neppure sfiorato l'idea di sfilarmi dal collo la collana che non ricordavo di aver indossato. Una semplice e liscia pietra nera, con una spirale incisa, le cui sinuose curve riflettevano i miei grandi occhi interrogativi. Il problema sorse quando una donna con il camice mi chiese di toglierla, mentre mi aiutava a lavarmi. 

Avevo avvertito la sua mancanza immediatamente, come uno strappo, uno sbilanciamento... un disagio irragionevole. Dovevo essere scoppiata in lacrime, giacché il mio ricordo successivo consisteva nella donna che infilava nuovamente la pietra nelle mie mani. 

"Non te la toglie nessuno, d'accordo? Va tutto bene, piccola, sei al sicuro...!"

Lo ero? Dove ero? La sola certezza era che mi sentivo lontana da qualsiasi cosa conoscessi... ma che cosa, tra l'altro, conoscevo? La mia mente era un ponte spezzato e le risposte si trovavano dall'altro lato: quanto rimaneva era un caotico tumulto di tutto e niente. 

Gradualmente, però, i miei pensieri si fecero chiari e nitidi.
La mia sete di sapere era tanto pressante che un giorno, quando una donna diversa dal solito venne a trovarmi, le mie labbra si mossero da sé, come facevano quelle delle altre persone. Aggrottai la fronte, frustrata, giacché il roseo e dolce viso di lei mi appariva familiare, benché sconosciuto.

"Chi... sono... io?"

La sconosciuta schiuse le labbra in una "O" perfetta e parte della luce sulsuo viso si spense. In quel preciso istante, un uomo e due ragazzi entrarono nella mia stanzetta dalle pareti gialle. Calò un pesante silenzio. Avevo detto la cosa sbagliata? 

Il ragazzino più giovane fu il primo ad avanzare e mi sorrise... eppure, i suoi grandi occhi marroni erano tristi.

"Non te lo ricordi?"

Sentii un nodo stringermi la gola. Un'emozione pesante e opprimente rischiava di sopraffarmi.
"Io... no."
"Ehi... shh, no, non piangere! Va tutto bene!" Mi disse la signora.
Io scossi il capo. "No! NO! Non va tutto bene! Avevo una... dovevo fare...! I-io... chi sono io?"

"Non lo sappiamo." mi rispose il ragazzo più grande, prendendo posto sulla sedia di fianco al letto. Aveva folti capelli neri e un bel viso spigoloso. Non avevo ben chiaro il mio metro di paragone nel considerarlo bello, dal momento che non ricordavo molti visi, al di fuori di quelli dei medici, eppure me ne convinsi all'istante.

L'uomo dalla folta barba nera e dalla liscia giacca grigio scuro aggiunse: "Mia cara, se lo desideri, potremo cercare di scoprire insieme da dove vieni! Tu... non sei sola!"
Sobbalzai e la mia gamba rotta ne risentì. Perché le sue parole mi apparivano tanto famigliari?
"Io sono Alberto. Lei é mia moglie, Monica... e questi sono i miei figli, Diego e Lorenzo. Ci prenderemo cura di te, è una promessa!"

Ora i volti sorridevano. Incerta, mi ritrovai a tentare di ricambiare. Il ciondolo al mio collo irradiò un piacevole tepore, quasi a suggerirmi di fidarmi di loro, e i due ragazzi si sfiorarono simultaneamente una mano, con un piccolo sobbalzo. Socchiusi gli occhi. Ero oscuramente certa di avere un nome a mia volta e le loro espressioni cariche di aspettativa mi suggerirono che speravano di scoprirlo.

Riuscivo a pensarne uno, che, etereo, aleggiava nel caos.
Era quello giusto? Non ne ero certa, ma non avevo altro da offrire.

"Naay."

Alberto ebbe un lampo di sorpresa. "Come?"

"Io... sono Naay."

Seguì un intrico di sguardi lucidi di lacrime, quindi l'uomo mi tese una mano. 

Alberto ebbe un lampo di sorpresa, ma poi mi tese una mano. Dubbiosa, la strinsi. Era calda e ruvida e la sua stretta ferma, ma gentile, trasmetteva una sensazione di sicurezza... un porto sicuro e luminoso dalle mistiche ombre di un mondo che non comprendevo.

"Ciao, Naay... è un piacere conoscerti. Benvenuta in famiglia."

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