15NULLA È MEGLIO DELLA VERITÀ

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«Grazie è stato davvero gentile» dico all'uomo del taxi. Sono arrivata, la mia Bologna è nell'ospedale centrale di Messina. Ci ho messo poco meno di venti minuti. Niente traffico, nessuna coda in aeroporto, solo tanta gente che entra e esce da questo posto come se nulla fosse. Per gli altri può essere un giorno qualunque, ma per me oggi si aprono le speranze o si perdono per sempre. Il glioblastoma nella quasi totalità dei casi recidiva, ma se dovessimo riuscire ad asportarlo completamente, chissà, forse potrei avere qualche chance di guarire e ricominciare tutto daccapo.

«Respira Ali, andrà tutto bene» ripeto a me stessa mentre osservo intimorita l'altezza della struttura. Ancora Carlotta sul cellulare. «Non sono partita per passare gli ultimi giorni della mia vita alla ricerca dei misteri di Machu Picchu, sta tranquilla».

«Dove sei?» Non apprezza la mia ironia.

«Sto salendo» la informo.

«Perfetto, sono nel reparto di neurochirurgia. Mi raccomando non scappare».

«Non ne ho alcuna intenzione» rispondo mentre le gambe si fanno molli.

Non ho mai provato una sensazione simile in tutta la mia vita: sono sola, e in quest'istante penso che forse sia stata un'idea stupida non dirlo a nessuno.

«È la cosa giusta da fare» mi dico a alta voce provando a convincermi.

Il viaggio in ascensore dura un'eternità. Trattengo il respiro e quando arrivo mi guardo attorno spaesata.

«Signorina Fabbiani?» Mi chiede quella che deve essere la voce di un'infermiera.

«Sì, sono io» rispondo confusa.

«Mi manda la dottoressa Pietravalle, mi segua» dice liberandomi in fretta dal peso della valigia.

«Dov'è la dottoressa?» Chiedo preoccupata mentre cerco di starle dietro. «Sta per arrivare, mi ha chiesto di portarla nella sua stanza».

«Ma lei arriverà?»

«Certo, stia tranquilla, va tutto bene» prova a tranquillizzarmi. Mi dà una pacca sulla spalla. Deve aver notato che sono agitata. «Siamo appena arrivate alla sua camera» mi informa quando apre la porta. Mi hanno riservato una stanza singola.

«Dopo l'intervento avrà bisogno di molta tranquillità» ci tiene a specificare l'infermiera.

«La ringrazio». Inizio a scrutare ogni cosa. Su questo piano la struttura ospedaliera sembra essere davvero molto organizzata.

«Adesso si cambi pure, questa è sua» mi porge uno di quegli strambi camici per pazienti.

«Lo devo già indossare?» La guardo intimorita.

«Sì, ci vediamo tra un po'».

«Dove va?» La blocco afferrandole il braccio.

«Vado a seguire il post operatorio di altri pazienti, ma le assicuro che tra un po' ripasserò da lei».

«Va bene» dico più tranquilla.

Ho paura di restare da sola.

Mi sono cambiata. Guardo questo posto come se non avessi mai visto una camera d'ospedale. C'è un bel letto, una scrivania, un bagno personale, un comodino, un'enorme finestra e un televisore attaccato al muro.

Il colore predominante è il bianco e tutto odora di nuovo.

«È permesso?» Sento chiedere all'improvviso.

«Prego, prego» invito chiunque sia a entrare. Sono seduta sul letto con un piede che penzola fuori e l'altro nascosto sotto la coscia sinistra.

Carlotta varca la soglia in compagnia di un altro medico. «Buongiorno, signora Fabbiani» esordisce il goffo uomo sulla sessantina. «Io sono il dottor Solero» si presenta. «Il neurochirurgo che si occuperà di lei».

IL TEMPO NON È MAI ABBASTANZADove le storie prendono vita. Scoprilo ora