L'equilibrio fragile

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"C'è una sottile linea tra chi amiamo e chi ci ferisce,

e spesso siamo noi a non saperla tracciare."

Tre settimane

Avevo evitato la caffetteria, la palestra e la mensa per tre settimane. Nemmeno le suppliche di Mel erano servite a farmi cambiare idea: mi ero rinchiusa sui libri, decisa a non uscire, nulla avrebbe potuto distrarmi.

Non vedere Blake per tutto quel tempo era stato il mio scopo principale, ma non potevo negare che la sua assenza lasciava un vuoto, un peso al petto che mi tormentava, come una scossa sottile ma persistente che non riuscivo a ignorare. Spesso, nelle ore più silenziose, mi tornavano in mente momenti con lui: i suoi occhi intensi, la sua risata. Erano ricordi che cercavo di soffocare, ma continuavano a riaffiorare.

Era sabato. Mel era andata con Kyle, probabilmente all'ennesima gara clandestina. Si tenevano ogni fine settimana, e dopo il mio secondo rifiuto, la mia amica aveva smesso di insistere per farmi partecipare. Tuttavia, ogni volta che mi raccontava di quelle serate, cercava di non menzionare Blake, forse sapendo quanto mi avrebbe fatto male.

Io e Mel eravamo diventate inseparabili: non sempre andavamo d'accordo, ma avevamo trovato un nostro equilibrio. Era riuscita persino a fare amicizia con i miei fratelli a distanza, e dopo il loro ritorno a Las Vegas, ci videochiamavamo tutte le sere. Durante quelle chiamate, mi impegnavo a sfoggiare il mio miglior sorriso rassicurante, che spariva appena chiudevo la conversazione. Non volevo che si preoccupassero per me. Non volevo ricevere un'altra ramanzina sui miei errori di cuore, sul "ragazzo sbagliato" che avevo scelto.

Quel sabato pomeriggio, nonostante il sole che illuminava la giornata di ottobre, faceva freddo. Stanca di deprimermi in solitudine, decisi di chiamare Ryan.

Ryan era un compagno del corso di igiene. Ci eravamo conosciuti per caso: un giorno mi aveva chiesto in prestito una penna, e da lì avevamo iniziato a parlare. Era nato e cresciuto in Canada, e il suo accento aveva un certo fascino, ma non era solo quello. Ryan era alto, atletico, con capelli così biondi da sembrare quasi bianchi, e un sorriso contagioso. Era un bel ragazzo, non c'era dubbio.

Durante le mie tre settimane di isolamento, lui era stato una costante. Studiavamo insieme in biblioteca, ma non ci eravamo mai visti fuori dal campus. Quella giornata, però, avevo bisogno di aria fresca.

Gli scrissi.

«Ehi, Cass!» rispose subito.

«Ciao, Ry. Ti disturbo?»

«Tu mai, lo sai. Che succede?»

Quel suo complimento, per quanto forse banale, mi strappò un sorriso.

«Ti va di fare un giro?»

«Certo! Ti passo a prendere tra un'ora, va bene?»

«Perfetto.»

Posai il telefono e mi alzai dal divano, decisa a prepararmi. Avvisai Mel dei miei piani, anche se sapevo che mi avrebbe risposto solo ore dopo.

Dopo una doccia rapida, iniziai a rovistare nell'armadio per scegliere cosa indossare. Nonostante il mio disordine cronico, riuscii a mettere insieme un outfit decente: jeans neri a vita alta, un dolcevita corto e il mio giubbino di pelle con gli stemmi dei club di moto di Las Vegas. Prima di scendere, mi fermai un attimo davanti allo specchio. Non potevo ignorarlo: una parte di me continuava a pensare a Blake. Cercai di scacciare quel pensiero, ma lui rimase lì, in un angolo della mia mente.

Quando ricevetti il messaggio di Ryan che mi avvisava di essere sotto, ero pronta.

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Ryan era piacevole. Era il tipo di persona con cui potevi rilassarti senza sforzo, ed era probabilmente per questo che l'avevo chiamato quel giorno. Dopo settimane di isolamento, sentivo il bisogno di quella leggerezza, di qualcuno che non mi giudicasse e che mi aiutasse a distogliere i pensieri da tutto il resto.

Decidemmo di sfruttare il bel tempo e andare al Boston Public Garden, un'oasi di natura incontaminata. Camminammo lungo i sentieri alberati fino al ponte che attraversava il lago, con due caffè caldi in mano. Parlare con Ryan era semplice, naturale.

Era diverso da tutti i ragazzi che avevo conosciuto: veniva da una famiglia unita e amorevole. Aveva due sorelle, una che lavorava a New York e l'altra ancora al liceo in Canada. Parlava di loro con occhi pieni d'affetto, e non potei fare a meno di sorridere. Era bello, nel senso più oggettivo del termine: rilassato, senza cicatrici sul viso né ombre nel cuore. Accanto a lui, mi sentivo stranamente serena.

"A cosa pensi, Ofelia?" mi chiese all'improvviso, usando quel soprannome che aveva inventato per me.

Scoppiai a ridere. Gli avevo detto che tutti mi chiamavano Cass, e lui aveva deciso di distinguersi. Quando gli avevo chiesto il perché di quel nome, mi aveva risposto che non era solo per i miei capelli rossi: gli ricordavo l'Ofelia di Amleto.

Non poteva saperlo, ma quel personaggio era sempre stato una mia fonte d'ispirazione. La sua ribellione per amore, il suo coraggio, mi avevano affascinata e terrorizzata allo stesso tempo.

"È bello qui. C'è pace," risposi, guardandomi intorno.

"Sì, è davvero bello."

Ma lui non guardava il parco. Guardava me.

"E tu, Ry? A cosa pensi?"

"Penso che voglio rifarlo. E voglio fare tante altre cose con te, piccola Ofelia, se me lo permetterai."

Le sue parole non mi misero a disagio. Non si stava imponendo, non stava correndo. E io, per una volta, non avevo motivo per dire di no.

"Domani sera?"

"Non me lo farò ripetere due volte."

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Quando tornai al dormitorio, trovai la stanza vuota. Mel non aveva dato segni di vita per tutto il giorno, e iniziavo a preoccuparmi. Le scrissi e la chiamai, ma senza successo.

Alla terza chiamata, Kyle rispose. La sua voce aveva quel tono che avevo imparato a temere.

"Cassandra..."

"Kyle, dov'è Melody?"

"È colpa mia. Quel bastardo... ha aspettato che la lasciassi sola. L'ha investita. È in sala operatoria."

Il mondo mi crollò addosso.

"Dove siete?"

"Boston Medical Center."

Blake arrivò a prendermi pochi minuti dopo. Il viaggio fino all'ospedale sembrò infinito. Non parlammo. Quando arrivammo, mi prese la mano e mi guidò fino al reparto di terapia intensiva.

La notte in sala d'attesa sembrava non finire mai, ma alla fine il medico uscì dalla sala operatoria.

"È fuori pericolo," disse. "Ma sarà in terapia intensiva per stanotte."

Restammo lì, a vegliare, sperando e pregando. Quella notte sembrò non finire mai.

Ricordami chi eroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora