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Si sentiva svuotata. Di tutto. Della sua anima. Della sua essenza. Di ciò che era lei.

Sicuramente non era così che si sarebbe dovuta sentire una stella.

Aveva sempre pensato che quei corpi luccicanti fossero pesanti, pieni di energia, colmi di vita. Forse sperava di diventare una stella proprio per questo: per percepire la linfa vitale scorrerle nelle vene.

Effettivamente sentiva qualcosa di liquido circolare nel suo corpo. Che si stesse preparando per brillare?

Era molto probabile. La sua testa stava affrontando una dura prova: sopportava una pressione esorbitante, mai provata in vita. Credeva di avere della roccia al posto della materia celebrale.

Il suo corpo era rigido, duro, come la pietra, e caldo, caldo come il calore che una stella emana.

Si. Era sicura. Aveva tutte le prove. Si stava trasformando in una stella.

Finalmente avrebbe potuto vivere.

La sua nuova vita iniziò con un ronzio, lontano ed otturato. Ma le stelle non hanno le orecchie. Non importava a lei. Era il rumore dello spazio.

La sua nuova vita da stella terminò nel momento in cui le sue palpebre si alzarono debolmente.

Lei era viva. Ma non era una stella.

Era viva, come sempre. Era morta, come sempre.

Percepì il suo cuore battere. Decisamente no. Non era una stella. E più si rendeva conto che era in vita, più il suo cuore riprendeva il suo abituale percorso, più capiva che sarebbe continuata ad essere morta.

Dei sussurri le sfondarono i timpani.

<<Tesoro. Oh, tesoro. Sei sveglia. Dottori! Dottori! Venite, presto! Si è svegliata!>>.

I suoi occhi vennero pervasi da una luce fredda, una di quelle classiche a led, senza consentirle di vedere nulla.

Un odore acido di ammoniaca e disinfettante penetrò con prepotenza nel suo naso. Il suo stomaco ne risentì nell'immediato. Subito i succhi gastrici iniziarono a fibrillare causandole una potente nausea.

Non riusciva a muoversi. Era immobile. L'unica cosa che era in grado di riconoscere era la sua testa stordita: sembrava che avesse assistito ad uno dei peggior concerti, e che lei si trovasse proprio sotto una cassa amplificatoria.

<<Celeste...piccola mia...>>.

Uno scalpitio accelerato le raggiunse l'udito. I dottori stavano correndo nella sua stanza.

Era chiaramente in ospedale. Ma perché?

<<Celeste...Celeste...>> una calda voce continuava a chiamare il suo nome. Eppure lei desiderava così tanto non poterlo udire. Lo odiava il suo nome.

No. No. No. Era andato tutto storto. Lei sarebbe dovuta trovarsi nel celeste del cielo, portando gli abiti di una stella. Non avrebbe dovuto essere Celeste. Non avrebbe dovuto esserlo mai più.

La vista iniziò a farsi più nitida e chiara, e delle sagome umane l'accerchiarono.

Doveva trovarsi su un letto, si sentiva immobilizzata.

<<Ciao Celeste, riesci a sentirmi?>>, la voce di un uomo in camice bianco suonò penetrante, e aggiunse <<vedrai che presto starai meglio, l'importante è che tu non lo faccia più>>.

<<Signora Berger, dobbiamo eseguire degli accertamenti, la preghiamo di uscire>>,

Ed in quel momento, mentre sentiva la voce di sua madre rotta dalle lacrime opporsi alla volontà dei medici, mentre cercava di distinguere le infermiere che si muovevano coordinate per la stanza, lei ricordò tutto.

Quanto era triste quel giorno. Riusciva ancora a sentire la pesantezza nel cuore, su quel letto.

La mente le si era annebbiata. Si, proprio così: un manto grigio le aveva offuscato il cervello e lei non riuscì più a ragionare. Se la ricordava benissimo la freddezza della sua scelta. Lei avrebbe avverato il desiderio della piccola Celeste, avrebbe raggiunto le stelle. Lei avrebbe avverato il desiderio della Celeste attuale, avrebbe posto un punto alla sua vita.

Il tetto era perfetto. Sarebbe volata abbastanza da poter toccare la luce delle stelle, e poi sarebbe precipitata.

Era ciò che aveva fatto. Nel volo Celeste aveva preso fuoco, per poi divenire polvere, sdraiata su quel letto. Ma aveva sbagliato tutto. Non aveva considerato la salvezza.

Lei voleva morire. Lei si era lasciata cadere dal tetto della sua casa. Lei si era suicidata.

O almeno aveva tentato. Ma la vita è stata più forte. Celeste era stata debole anche questa volta.

Una marea di parole le inondarono le orecchie, e di tutte quelle lei riusciva a captarne neanche la metà.

La vista non migliorava affatto, anzi, sentiva le palpebre farsi sempre più pesanti.

Una piccola luce le fece rimpicciolire le pupille, nel momento in cui il dottore, con una presa decisa le allargò gli occhi. Erano reattivi. La vista era apposto.

<<Respirazione e battiti regolari>> un'altra voce maschile, di un altro medico, le confermò il fatto che fosse in vita.

In vita.

Dagli occhi di lei iniziarono a scendere debolmente delle lacrime, calde ed amare. Lacrime di chi desiderava la morte, e di chi, invece, doveva affrontare la vita. Ancora.

La vita?

Celeste, in quel momento di realizzazione, si concesse di dimenticare di non essere morta. Chiuse definitivamente gli occhi, ed il dolore l'abbracciò, facendola sprofondare di nuovo nel sonno. In un sonno non eterno.



Dopo tre ore, Celeste si ritrovò nuovamente su quel letto, con gli occhi spalancati, ad osservare il soffitto, mentre sua mamma le stringeva la mano e piangeva.

Piangeva e parlava, o almeno ci provava.

Celeste non ascoltava neanche una parola. Nella sua testa vorticavano talmente tanti pensieri che aveva sbarrato le porte alla realtà. Si era chiusa in se stessa ed ascoltava esclusivamente una voce. La sua. La sua voce interna che le martellava il cervello.

<<Amore mio, mi senti? Celeste?!>>.

Grazie a quel nome, la ragazza finalmente smise di contemplare il soffitto bianco sporco dell'ospedale, e posò lo sguardo in quello di sua madre. Negli occhi cerulei della donna, Celeste vide i suoi, di un marrone nocciola che non era più caldo come una volta, ma risultava il marrone più scuro e denso e profondo di sempre. Lo sguardo della morte.

Olimpia Berger sentì le viscere muoversi, lo stomaco contrarsi e la gola seccarsi. E poi non sentì altro, se non l'immenso vuoto che leggeva nello sguardo della figlia. E più guardava i suoi occhi, più voleva abbandonarsi sul pavimento e struggersi dalle lacrime, dalla paura, dall'angoscia. Avrebbe voluto urlare tantissimo e spaccare tutto ciò che si trovava in quella stanza. Avrebbe voluto gettarsi sul corpo della figlia, scuoterlo, continuando imperterrita a domandarle il perché lo avesse fatto. Avrebbe voluto battersi il petto, fino a sentire dolore, fino a non sentire più il suo cuore poiché quel momento la stava bruciando viva. Lo sguardo vacuo di Celeste la stava facendo morire. Ma Olimpia Berger non fece nulla di tutto ciò. Sorrise. Un dolce sorriso mascherò il dolore della madre, mentre l'ennesima lacrima le sfuggì dal controllo.

Il lusso che si concesse la signora Berger fu quello di accarezzare con premura la guancia della figlia, con il tentativo di affievolire il dolore di entrambe.

E quella carezza diede il coraggio a Celeste di parlare:<<Fa male>>. La voce rotta e rauca della figlia schiaffeggiò in faccia Olimpia.

<<Fa male, cosa?>> sussurrò lei, con quel briciolo di autocontrollo che le rimaneva in corpo.

<<Uccidersi, ma non riuscirci. Fa male>>.

Un'altra carezza si fece spazio sul volto di Celeste, mentre la Berger, con un sospiro, tentò di nascondere il tremore del suo corpo.

<<E mi fanno male tutte le ossa>> aggiunse poi la giovane sul letto.

Ed un sorriso, con una risata di sottofondo di Celeste, fu la prima cura per entrambe.

COME UNA STELLA CADENTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora