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La camera del nuovo ospedale non puzzava più di ospedale. Già, proprio così. Forse perché non era un vero e proprio ospedale. Celeste continuava a ripetersi che lo fosse, per non lasciar spazio ai suoi pensieri più tenebrosi.

Erano passati tre mesi dal suo tentato suicidio. Le sue ossa erano guarite, ma il suo cuore ancora no. I dottori decisero che sarebbe dovuta essere ricoverata in un ospedale psichiatrico fino a quando non avrebbe dato cenni solidi di stabilità mentale. Era fondamentale che la ragazza non riprovasse nuovamente a compiere quel gesto estremo.

Le sembrava che i tre mesi in ospedale fossero durati tre anni. Furono estenuanti, per Celeste e la madre, che ogni giorno subiva le suppliche della figlia di tornare a casa, e ogni giorno immaginava la sua bambina pallida e fredda, coperta da un telo su un lettino d'acciaio delle camere mortuarie. Le tremavano perfino i nervi al solo pensiero.

<<Certo, certo che si, dottore. Se è ciò che serve alla mia ragazza, lo faremo>>. Queste furono le parole di Olimpia alla proposta del dottore che sorvegliava i progressi di Celeste. La proposta di portarla in un ospedale psichiatrico.

Invece, Celeste non disse nulla, aldilà di lacrime e grida ad oltranza.

<<Puoi lasciare la tua borsa a me>>, le disse un'infermiera che profumava di vaniglia e cocco, con un dolce sorriso stampato sul volto.

Celeste gliela porse e si avvicinò al suo letto, o almeno quello che pensava fosse suo.

<<Celeste, quel letto è della tua compagna di stanza: la conoscerai dopo, adesso è in terapia>>.

La ragazza non disse nulla, allungò solo le maniche della sua felpa verde per nasconderci le mani.

<<Vado a posare la tua borsa e torno>>.

In assenza dell'infermiera, Celeste ne approfittò per studiare per bene la stanza. Era una stanzetta non tanto piccola per possedere solo due letti, anzi. Le pareti erano tinte di un verde acqua scolorito, con qualche adesivo di teneri animali attaccati qua e la, consumati dal tempo. Vi era una finestra sbarrata: la serranda era completamente abbassata e la maniglia chiusa con una chiave. Celeste sentì una fitta al petto: non si poteva aprire la finestra? Niente luce solare? Non avrebbe più potuto vedere le sue stelle. Tanto meglio. Egoiste senza empatia che l'avevano rifiutata e lasciata vivere. "Non ci si comporta così", continuava a pensare Celeste. Per il resto vi erano due letti poco distanti l'uno dall'altro, con dei piccoli puff morbidi.

"Come se potessero sostituire i comodini, certo", pensò.

Nessun bagno, nessuno specchio.

<<Eccoci qui>>, tornò l'infermiera con in mano la borsa di Celeste, <<come sai, dobbiamo pensare alla tua sicurezza, per questo sei qui. Quindi troverai i tuoi vestiti un po' modificati, ma penso che capirai>>.

All'improvviso dal camice dell'infermiera uscì un suono forte, come un allarme, e lei corse subito via chiedendo scusa e dicendo che sarebbe tornata dopo per dare altre informazioni.

Celeste si avviò verso l'uscio per chiudere la porta. Ma non ve ne era nessuna.

<<Ovviamente>>, sbuffò e tornò verso il suo letto.

Aprendo la borsa notò che le sue felpe non avevano più alcun tipo di lacci, come le sue scarpe. Il cavo per ricaricare il suo cellulare era stato sostituito con uno corto corto. Niente traccia delle sue cuffiette.

Celeste sentì il cuore battere sempre più velocemente e la stanza vorticare. Il suo sguardo vagò velocemente. E in quel momento realizzò: si trovava in un ospedale psichiatrico perché aveva tentato il suicidio, e molto probabilmente ci avrebbe provato di nuovo. Ma in quella camera nulla portava alla morte e temeva che nell'intero edificio nulla avrebbe provocato questa.

COME UNA STELLA CADENTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora