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E' molto complicato far capire alle persone ciò che stai provando in un determinato momento. Ancora più difficile è farlo comprendere alle persone che si amano, soprattutto se le emozioni che si sentono sono estremamente negative. E' difficile accettare che una persona che si ama, si adora, che fa parte della propria vita soffra talmente tanto da voler porre un fine alla sua, di vita. Non è per niente facile guardare la nostra persona immobilizzata nel tempo, ferma, senza la voglia e la forza di vivere, di ridere, di gioire. Vederla soffrire, farsi del male significa sentire quel male anche su di se. Di certo, Pollux non aveva il corpo coperto di tagli, eppure riusciva a percepire il dolore del fratello fino in fondo, come se qualcuno gli stesse lacerando la pelle.

Vederlo vivere, anzi sopravvivere, in quella stanza lo dilaniava giorno dopo giorno. Ormai anche lui sentiva la pressione del tempo che scorreva troppo velocemente, della noia che si impossessava il corpo del fratello, della morta sempre più certa e vicina. Ed anche lui, si sentiva immobile, fermo incatenato in un lasso di tempo che sembrava estraneo al mondo reale. Ogni giorno Pollux percepiva nel suo cuore una strana sensazione: non si sentiva in vita, non si sentiva parte della realtà, del mondo, del tempo. Era come se vivesse a vuoto, senza un senso, quel senso che neanche Castor poteva colmare, perché prima o poi se ne sarebbe andato. E più i giorni passavano, più Pollux si sentiva stressato, agitato e irrequieto.

Come poteva salvare il fratello? Come avrebbe potuto salvare il fratello da se stesso? Pollux non doveva lottare contro la depressione, l'autolesionismo di Castor, doveva combattere contro Castor stesso. Ma allo stesso tempo portarlo in salvo. Come era possibile? Gli sembrava di impazzire, di perdere il controllo. Aveva perso la serenità, tolta dalla rabbia e dal terrore che ogni giorno picchiavano violentemente il cuore del ragazzo.

Eppure, nonostante tutto, Pollux continuava a sorridere. A sorridere per il fratello, per dargli forza, speranza, per ricordargli che al mondo esiste una persona che è in grado di farlo ridere.

<<Sei proprio scarso!>>.

Le risate dei tre ragazzi riempivano la camera da letto di Pollux, mentre Castor tentava di afferrare con la bocca i pistacchi che Celeste gli lanciava.

<<Sono un fenomeno!>> urlò Castor, prima di strozzarsi con un pistacchio entrato troppo velocemente nella sua gola.

E ridevano, ancora e ancora, e ancora, fino a sentire male allo stomaco, fino a soffocare le risate con dei cuscini per non farsi sentire dai compagni assonati nelle stanze accanto. Difatti era notte piena e i tre ancora stavano giocando. La camera era illuminata solamente dalle lucine provenienti dall'albero di Natale, dal chiarore della luna e dalla luce della Torre Eiffel che ogni tanto si affacciava, controllava che i ragazzi si stessero divertendo e poi spariva, per tornare qualche istante dopo.

Pollux si schiarì la voce, si alzò dal letto e si poggiò le mani sui fianchi sorridendo.

<<Perché ridi in quella maniera?>> domandò Castor un po' preoccupato.

<<In quale maniera?>>.

<<Non lo so, in modo strano>>.

<<Qual è una cosa che vorresti fare in questo momento? Qualcosa che non fai da tanto tempo?>>.

<<Ci sono tante cose che non faccio da molto tempo, Pollux>> rise nervosamente il fratello.

<<Si, lo so. Ma ce ne sarà una che ti manca da morire...>>.

<<Beh...è da tanto che non faccio un bagno al mare...>>.

Celeste rise.

<<Ma a Parigi non c'è il mare>> disse poi lei.

COME UNA STELLA CADENTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora