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I giorni passavano lenti, accompagnati dalla noia e dalla tristezza che, ora dopo ora, minuto dopo minuto, distruggevano il cuore di Celeste.

Gli antidepressivi non stavano funzionando. Ci vuole tempo, il tuo corpo deve abituarsi, le diceva Ambra durante le sedute.

L'unica cosa che riusciva a capire Celeste era che per lei non esisteva salvezza: sarebbe stata così per sempre, dannatamente triste e sola, avrebbe rovinato la vita a sua madre, avrebbe potuto prendere psicofarmaci e continuare la terapia per l'eternità, ma non sarebbe cambiato nulla. Il suo destino era segnato. E lei desiderava ardentemente di porre un segno a quel destino beffardo, un punto. Non chiedeva altro.

Se le stelle l'avessero accolta quel giorno, l'avessero abbracciata e coccolata, tutti si sarebbero tolti un gran peso dal petto: sua madre sarebbe stata meglio, con un problema in meno, nel suo letto d'ospedale ci sarebbe stata un'altra ragazza che voleva davvero guarire, che avrebbe potuto salvare Aura, Marla, Castor e gli altri compagni di avventura.

Invece c'era lei, che stava facendo a pezzi la vita di tutti. Non centrava il fatto che lei non volesse guarire, perché lo voleva eccome. Avrebbe voluto che non fosse accaduto niente di tutto ciò. Ma ciò che le annebbiava la vista e le oscurava la mente era che per lei non ci fosse guarigione.

Non esisteva per lei, si meritava tutto ciò evidentemente.

Era solo un lurido mostro, egoista, insensibile, che annientava ogni briciola di speranza, che godeva della polvere malinconica depositata in tutto il mondo. Altro che speranza, altro che felicità e benessere.

No, a lei non erano concessi quei lussi, doveva solamente cancellarsi, appassire. Doveva morire.

Ci pensava tutti i giorni.

Devi morire.

Devi morire.

Devo morire. L'unico pensiero che le passava per la testa, la picchiava violentemente, le sussurrava candide e persuasive parole, la conquistava con prepotenza.

Non trovava neanche un po' di pace tra una seduta e l'altra. La studiavano come fosse un topo da laboratorio, la esaminavano, le guardavano l'anima scrupolosamente e lei non lo sopportava.

Non voleva che nessuno vedesse il dannato malessere che riecheggiava rumorosamente nel suo cuore, non voleva condividerlo, non voleva inquinare nessuno con quello schifo di dolore.

L'avrebbe tenuto per se. Avrebbe salvato gli altri, uccidendo quel corpo estraneo che riposava in lei.

La sera si concedeva la sua solita fuga dalla camera per chiacchierare con Castor. Era il suo momento preferito della giornata. Aspettava solo quello. Un piccolo sollievo. Con lui rideva, scherzava, cercava un confronto, si sentiva capita. Amava i momenti di silenzio in cui riusciva a percepire il respiro di Castor mescolato al suo, ognuno perso nel proprio abisso.

Una fredda notte, mentre miravano il panorama godendosi il vento freddo della città buia, Celeste disse "Puoi chiamarmi Est", e Castor sorrise. Est. Est. Gli piaceva quel nomignolo, amava la fiducia che la ragazza riponeva in lui, si sentiva grato, sollevato. Est, quel nome era suo, solo lui poteva chiamarla in quel modo, solo lui aveva un'amica con quel nome. Solamente lui possedeva il lusso di vederla sorridere, solo lui aveva in mano quel briciolo di felicità di Celeste. Est, la sua migliore amica.

Gli attimi interminabili nella sua stanza li passava in compagnia della solitudine: Aura non era più tornata in camera dopo quella crisi. Più faceva domande a infermieri e dottori, più loro giocavano al gioco del silenzio. Ed erano davvero bravi. Non le dicevano nulla, nonostante notassero il suo stato di ansia, preoccupazione, con l'aggiunta di un po' di curiosità.

COME UNA STELLA CADENTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora