6. Rapimento

74 8 0
                                    

Nikita

Mi mossi leggermente e sfarfallai le palpebre, cercando di eliminare ogni traccia di sonno che avvolgeva la mia mente confusa. La testa sembrava che volesse esplodermi; sentivo le tempie pulsare incessantemente e ci impiegai qualche istante a mettere a fuoco l'ambiente in cui mi trovavo, troppo stordita dalla droga che mi avevano dato. Provai un forte senso di nausea, quando provai a sollevare la testa, tanto che mi riposai sulla superficie morbida su cui ero stesa, timorosa di rigurgitare o, peggio, perdere nuovamente conoscenza. Tentai di muovere le mani, per portarle al viso e stropicciarmi gli occhi, tuttavia mi accorsi che ogni mio movimento era limitato da delle manette di ferro, che mi tenevano salda alla testiera del letto. Tirai leggermente, senza ottenere alcun risultato, allora, avendo i piedi liberi, ignorando la nausea, mi tirai con fatica a mezzo busto, sperando di avere un maggiore controllo della situazione.

Dalla nuova posizione in cui mi trovavo, potei osservare meglio l'ambiente che mi circondava: mi trovavo senza alcun dubbio in una camera da letto, le pareti erano nere e opache, davanti al letto su cui mi trovavo c'era un camino acceso, dal quale si diffondeva un calore confortante, e una porta poco distante; ai lati del letto c'erano due comodini bianchi, a sinistra una cabina armadio chiusa, mentre a destra una cassettiera con sopra uno specchio e una finestra, coperta da una tenda nera. La cupezza di quella stanza mi mise i brividi, il proprietario doveva avere una personalità che rispecchiava i colori dell'ambiente. Pensai che appartenesse a quell'uomo che mi aveva rapita ed ebbi voglia di urlare, ma, sapendo fosse inutile, mi limitai a posare la testa sulla spalliera e a fare dei respiri profondi per placare il panico che cresceva dentro di me. Odiavo non avere il controllo della situazione, perché non sapevo cosa sarebbe potuto accadere. Mi dissi che avevo vissuto situazioni peggiori, che ero viva e avevo sempre trovato un modo per farcela, nonostante tutto e tutti. Per un attimo provai un lieve conforto, poi, però, quando l'immagine di mia madre comparve nella mia testa, mi si scatenò dentro un'angoscia profonda; immaginai fosse ansiosa e preoccupata, data la mia scomparsa improvvisa, stati d'animo che non facevano che aggravare la sua condizione già precaria. Mi odiai per aver permesso a un uomo, ancora una volta, di prevalere su di me, e, insieme a me, odiai anche il mio rapitore.

I ricordi di quello che era accaduto prima del mio rapimento mi ritornarono violentemente alla mente.

«Non ci siamo ancora presentati noi due, eppure siamo davanti ad un Martini.» Avevo asserito, quando mi ero accomodata davanti a lui, al tavolino che ci aveva riservato in un'aria privata della zona bar; avevo immaginato fosse un uomo importante, per aver ricevuto un tale trattamento.

«Davvero un peccato non conoscere il nome di una donna così bella, non credi?» Mi aveva lusingata, allungando il Martini che aveva ordinato anche per me.

«Michelle è il mio nome, il tuo?» Gli avevo chiesto, assaggiando l'oliva del mio drink.

«Ares.» Aveva pronunciato e per un attimo ero rimasta incantata dalla sua voce roca, tanto che avevo avvertito vibrare il mio basso ventre.

«Il dio della guerra.» Un angolo della sua bocca si era alzato, mostrandomi un cenno di sorriso.

«I miei genitori hanno un'ossessione per le divinità greche.» Aveva spiegato carismatico, bevendo un po' del suo drink.
Le sue labbra carnose si erano appoggiate sul bordo del bicchiere di cristallo e avevo osservato il liquido varcare la soglia della sua bocca, per poi scendere lungo la gola.

«Affascinante.» Mi ero bagnata le labbra con la saliva e gli avevo rivolto un sorrisetto impertinente.

«Michelle non è un nome russo, invece.» All'esterno non mi ero scomposta, eppure, come accedeva sempre, quando facevano quell'osservazione, il cuore aveva aumentato i battiti.

La regina di piccheDove le storie prendono vita. Scoprilo ora