15. Freddo russo

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Nikita

16 ore prima dell'attacco, Mosca, Russia.

Mi sbattei la porta del bagno alle spalle e la chiusi a chiave, desiderosa di non incrociare più lo sguardo di Ares Volkov e di iniziare a godermi la notizia della sua assenza. Aveva scelto il giorno perfetto per allontanarsi da Mosca, poiché ero consapevole che quel giorno sarebbe stato estenuante dal punto di vista emotivo, visto l'imminente incontro con la dottoressa Kosov. La solita stretta allo stomaco, che sentivo quando si parlava della malattia di mia madre, era tornata ad infastidirmi, facendomi avvertire la nausea ogni volta che mi trovavo a deglutire. Sebbene non volessi ammetterlo, ero terrorizzata da quel controllo medico, poiché Nastya aveva iniziato la chemioterapia, l'ultimo disperato tentativo per salvarla, e, se la primaria ci avesse dato notizie negative, non sapevo come avrei potuto reagire. O meglio, lo sapevo bene: un solido pilastro per mia madre, quando poteva vedermi, e un'anima distrutta e irreparabile, nel momento in cui aveva gli occhi rivolti altrove. Avere Ares presente quel giorno sarebbe stato un ulteriore peso, in quanto non ero sicura, almeno per quella giornata, di riuscire a reggere indisturbata i suoi colpi. 

Quella notte mi ero addormentata alle quattro del mattino, troppo persa nei miei pensieri, per poter permettere al sonno di portarmi con sé, e il risveglio offerto dal mio fiancè era stato oltremodo sgradevole. Odiavo quel ghigno di superiorità che incurvava le sue labbra, la presunzione nel credere di esercitare un qualche tipo di potere sulla mia mente e sul mio corpo. Non mi conosceva abbastanza da sapere che, seppur fosse un bell'uomo, ad eccitarmi veramente, non era altro che il suo sguardo sfacciato, pronto a scorrere sul mio corpo, e la bramosia che incendiava il suo sguardo. Tutto, la pelle che mi si riempiva di brividi, la bocca secca e l'eccitazione che mi colava tra le mutandine erano una conseguenza del mio disturbo istrionico. Sospirai, ripensando al modo in cui mi osservava mentre proseguivo da dove lui si era interrotto, credendo di potermi lasciare nuda e insoddisfatta; gli avevo dimostrato che, sì, il mio corpo reagiva al suo tocco, che ero attratta dal punto di vista pienamente sessuale, dalla sua stazza imponente, dai modi rudi e dalle sue inclinazioni a dominarmi, come se fossi la sua maledetta sottomessa, ma che, nonostante tutto, non sarei stata il suo fragile e piccolo animaletto, facile da piegare e da modellare con le sue abili mani, tutt'altro gli avevo dimostrato quanto fossi indipendente, capace di soddisfare da me i bisogni che provavo. Quello era stato un passo importante nella nostra guerra per decretare chi possedesse il potere; era vero, gli offrivo il permesso di punirmi, perché ne traevo godimento, tuttavia mi sarei potuta sottrarre da un momento all'altro e lui non avrebbe avuto voce in capitolo.

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Quel giorno io, Nastya e Nadya andammo a pranzare fuori, prima della visita medica, approfittando di un momento lontana dalle mura di villa Volkov, dove avrei potuto respirare aria pulita e non sentirmi oppressa dall'obbligo morale di proteggere mia madre, lo stesso che mi aveva portata a cedere davanti ai ricatti di Ares.

Durante il pranzo, il mio fidanzato non mancò di scrivermi, per ricordarmi i miei doveri ed io lo odiai per la situazione in cui ero finita, perché da pantera maledettamente indipendente e autoritaria, ero diventata una da tenere al guinzaglio, da controllare ovunque fosse, come se fossi una bambina. Ero ben conscia del fatto che Ares sapesse, che non sarei sparita in un battito di ciglia – non potevo neanche immaginarmi di farlo, vista la malattia di Irina e la minaccia che rappresentavano per noi gli albanesi -, eppure che si divertisse a tormentarmi per ricordarmi il potere che esercita su di me.

ARES VOLKOV: Attenta a dove vai, Nikita, ricordati del braccialetto che porti al polso.

NIKITA: Mi sembrava di averti detto che non sono una prigioniera, ma una futura sposa.

La regina di piccheDove le storie prendono vita. Scoprilo ora