Capitolo 8 DORIAN

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Appena arrivo a casa la macchina di mio padre non c'è, Iris lascia mio fratello in camera sua a dormire e mi saluta con un bacio sulla guancia. Mi torna in mente lei e la immagino parlare con Jeremy. Lui non mi sta dicendo niente, neanche un messaggio. Mi ha chiesto esplicitamente di non messaggiarlo. Sospiro mentre salgo le scale fino in camera mia e mi tolgo tutti i vestiti buttandomi in doccia. Passa mezz'ora, forse di più... e la pazienza inizia già a bruciarmi il culo.

Controllo i messaggi e nessuna notizia di Jeremy. Mi sposto in salotto e rimango fisso davanti alla libreria per non so quanto tempo tentando di scegliere qualcosa da leggere, ma appena sento la serratura della porta d'entrata scattare corro in camera mia e mi chiudo a chiave.

Non mi va di vedere quel bastardo.

Mi sdraio sul letto fissando il soffitto, ma inevitabilmente lo sguardo si sposta sui disegni disegnati sul muro.

Li ho fatti da piccolo e ricordo che ero spaventato. Mi svegliavo nel bel mezzo della notte come se fossi sonnambulo e coprivo le pareti con quel simbolo. Quando la mattina mi svegliavo vedevo mia madre con gli occhi spalancati, spaventata e senza parole. Mia nonna, invece, prendeva la vernice e iniziava a coprirli. Ogni volta.

Si comportava come se non fosse spaventata, come se sapesse cosa mi stesse succedendo. Era lei la mia ancora di salvezza.

Mi metto le mani tra i capelli al pensiero di averla persa. Lei non c'è più, da otto anni ormai. Ma la vedo, spesso. La mattina mi sveglia cantando, cerca di calmarmi quando mio padre mi mette le mani addosso e mi sprona a non perdere me stesso.

Afferro il pacchetto di sigarette e me ne accendo una. Guardo l'orologio: sono quasi le dieci di sera. Jeremy e Raylai staranno parlando, scherzando e forse lei proverà attrazione per lui come ogni cazzo di donna, invece che per me.

Avrei dovuto esserci io con lei.

Merda e doppia merda.

Controllo per l'ennesima volta il telefono per avere notizie da Jeremy ma non chiama e non manda messaggi, come se fosse così impegnato con lei da non pensare al suo amico di una vita.

Mi ha detto di non rompere i coglioni ma non ci riesco, senza pensarci gli mando un messaggio: "Toccala e ti taglio le palle."

Il mio sguardo si posa di nuovo su quei segni, gli ultimi che ho disegnato ma che non sono stati coperti dalla nonna, perché era già morta. Il telefono mi vibra tra le mani: "Non la sto neanche sfiorando. Mi credi così coglione?"

L'anta dell'armadio sbatte alle mie spalle e sussulto sul letto.

È lui. Di nuovo. È sempre lui e stasera ha deciso di torturarmi.

«Non ora» gli dico continuando a digitare sul telefono: "Cosa le stai dicendo di me?"

L'anta sbatte ancora.

«Ho. Detto. Non. Ora!»

Respira e controlla. Posso farcela, posso far finta che lui non esista.

"Che ce l'hai grosso."

Ma perché sta facendo il coglione?

Ancora. L'anta sbatte di nuovo con insistenza. Respira e controlla.

Non devo fare altro che controllarmi.

Tum.

Sospiro appoggiando la sigaretta sul comodino mentre l'anta inizia a sbattere ripetutamente, sempre più forte.

Tum. Tum. Tum. Tum.

Chiudo gli occhi per qualche secondo sotto l'insistenza di quel rumore che improvvisamente mi ricorda quello dei pugni di mio padre sulla faccia e dei calci nello stomaco.

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