27. Scelte

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«Rose, stai bene?» chiese zia Iris in tono preoccupato.

No, non stavo bene.

«Tesoro, forse è meglio se ti siedi, sei diventata tutta pallida...» continuò lei, con voce quasi tremante per l'agitazione.

A passo lento e pesante, con la testa bassa e con il cuore che mi pulsava nelle orecchie, mi avvicinai.

Mi sedetti sulla poltrona libera, tenendo sempre lo sguardo fisso sul pavimento, di fronte a loro tre, che si sedettero nuovamente.

Chiusi gli occhi, e feci un respiro profondo. Stava succedendo davvero? Me lo stavo immaginando?

Riaprii gli occhi, e loro erano ancora lì, a fissarmi.

Mia madre, Viola, con gli occhi neri come ossidiana che nonostante la loro profondità erano sempre brillanti e pieni di luce. Con una ciocca candida tra i capelli castani, che avevo ereditato, e i tratti delicati e morbidi che poco ricordavo, ma che le davano ancora quell'aria da donna affettuosa e semplice. La carnagione di porcellana, altro tratto distintivo della nostra famiglia, che iniziava a portare i segni dall'età.

Mio padre, Diego, con gli occhi talmente chiari da sembrare più gialli che castani, che nei miei ricordi sfocati risplendevano quando sorrideva. Con i capelli folti e neri che da piccola, quando stavo sulle sue spalle, mi piaceva stringere tra le dita, e la mascella squadrata e il naso forte, che gli davano un'espressione autorevole e saggia.

Guardando i loro occhi, studiando i loro volti, fui travolta da un tornado di ricordi. Ricordi belli, di quei momenti passati insieme a loro in cui ridevo e giocavo con la totale spensieratezza di una bambina, ma anche ricordi brutti, di quei giorni di struggente tristezza che avevo provato quando avevo realizzato che se n'erano andati, che probabilmente non sarebbero più tornati a riprendere, che mi avevano abbandonata di proposito.

«Ciao, Rose» disse mia madre, con un sorriso teso e tremolante, e con la stessa voce calda che avevo conservato nei miei ricordi.

«Ciao» ripeté mio padre, anche lui con un'espressione carica di tensione, e con il suo tono profondo e serioso.

«Rose, non ti aspettavamo a casa a quest'ora, loro sono qui per...».

«Cosa cazzo ci fate qui?» sbottai con voce dura, interrompendo bruscamente zia Iris.

Avevo sempre pensato che rivedendoli, se mai sarebbero tornati, non sarei riuscita a resistere nemmeno per un millesimo di secondo dal saltare addosso ad entrambi per stritolarli un abbraccio, un abbraccio così stretto che colmasse il vuoto di tutti quelli che per anni non avevo ricevuto da parte loro.

E invece, ora che li avevo davanti per davvero, l'unica cosa che avevo in corpo era la rabbia, alimentata dal rancore. Rabbia che per più di un decennio avevo tenuto dentro e soppresso con la tristezza, e rancore che nascondevo con la nostalgia.

Loro rimasero impietriti. Probabilmente anche loro si aspettavano un abbraccio caloroso o un saluto accogliente, e non astio e risentimento.

«Allora?» domandai spazientita. «Non dite niente? Quando avevate detto che mi avreste lasciata da zia Iris per le vacanze di Natale, non mi aspettavo che durassero 10 anni queste vacanze. E comunque, potevate almeno chiamare, o mandare un messaggio, o una lettera, o che ne so, un piccione viaggiatore. E invece no, niente di niente. Avevo iniziato a pensare che foste semplicemente morti».

Forse attaccarli così, fin da subito, non era la scelta migliore, ma la rabbia che avevo accumulato nel corso degli anni era troppo intensa per essere trattenuta.

Guardai i loro volti, cercando disperatamente segni di rimorso o spiegazioni, ma rimasero in silenzio, abbassando lo sguardo, come se fossero travolti dal peso delle mie parole e non riuscissero a guardarmi negli occhi per la vergogna.

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