30. Delusioni

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I giorni passavano, le settimane anche, e le cose non sembravano andare meglio come speravo.

Erano passate tre settimane da quella cena in cui avevo avuto quella piccola delusione da parte dei miei genitori, che sembrava un nulla in confronto a tutto ciò che era successo dopo.

La vita con loro era totalmente diversa da come mi ero immaginata: non era frenetica, non era piena di avventure ed esperienze, ma era monotona e apatica.

La mattina mi svegliavo, seguivo le lezioni online e poi pranzavo insieme ai miei genitori con quello che capitava di trovare da mangiare, sempre sul solito tavolino in plastica posizionato fuori dal van.

Nel pomeriggio passeggiavo sulla spiaggia, oppure studiavo, leggevo e dipingevo.

E infine la sera si mangiava di nuovo, e poi si andava a dormire, nello scomodo divano letto diviso da tutto il resto soltanto da una tenda di stoffa sgualcita.

E ogni giorno funzionava così: al risveglio e a pranzo sembravamo una famiglia normale che faceva e parlava di cose normali, e nel pomeriggio o a cena invece nasceva una nuova discussione, sulla quale io poi passavo tutta la notte a meditare e riflettere.

Una sera, prima di cena, ero seduta sul mio letto e stavo dipingendo la mia vecchia casa a Redwood contornata da alberi pieni di neve.

Mia madre si avvicinò, sedendosi accanto a me, e iniziò a guardare quello che stavo facendo.

Sorrisi, pensando che fosse contenta di vedermi dipingere per la prima volta e di scoprire che cosa frullava nella mia testa nei miei momenti creativi.

Ma poi mi voltai verso di lei, e la vidi fissare la mia tela con uno sguardo perplesso.

«Che c'è?» le chiesi. «Non ti convince?».

«Non è che non mi convince, è che...» rispose, inclinando la testa e continuando a guardare il mio dipinto. «Non capisco come possa essere divertente fare questa cosa. Mi sembra un passatempo senza senso, in realtà. Alla fine le cose sono già nella tua testa ed esistono le macchine fotogratiche, perché perdere tempo a disegnarle?».

In quel momento, mi sentii improvvisamente svuotata di tutto quello che avevo dentro. Era come se mi avessero tolto tutto il sangue dalle vene, come se nel mio corpo non fosse rimasto nulla a pulsare e darmi energia.

Non dissi nulla.

Lei se ne andò, e io non riuscii più a mettere mano ai pennelli, alle matite e ai blocchi da disegno.

Un pomeriggio invece, mentre ero appollaiata sullo sdraio a leggere il libro che mi aveva regalato a Natale zia Iris, mio padre mi vide e si accomodò sull'altro sdraio.

«Quindi ti piace leggere» constatò, fissando il mio libro.

«Si, moltissimo» risposi sorridendo. «A casa ho una libreria gigantesca, e ne ha una anche zia Iris. Abbiamo talmente tanti libri che non ci stanno nemmeno più!» esclamai ridacchiando.

«Quella non è più casa tua» rispose lui con una freddezza contagiosa, che spense in un secondo il mio entusiasmo. «E comunque, io trovo che i libri siano una perdita di tempo, soldi e spazio. Perché leggere e occupare la mente in cose finte e assurde quando puoi vivere nel presente? È roba per chi non è capace di stare al mondo!» continuò, con una fragorosa risata.

E anche quella volta, era come se delle semplici parole fossero riuscite a strapparmi un pezzo di anima e portarmelo via, lontano da me.

Ogni notte andavo a dormire con un macigno sul cuore, che sembrava farsi sempre più pesante giorno dopo giorno.

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