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Ottavo giorno prima delle Calende di febbraio (25 gennaio)

L'acquazzone dei giorni precedenti sembrava un lontano ricordo, quella mattina. Era una mattina bianca, una mattina di ghiacci e vapori. Una mattina fredda e ventilata che sembrava presagire neve.

Livia stava scortando la sua ospite fino alla portantina che le aveva messo a disposizione per affrontare il resto del viaggio.

«Siete sicura di non volervi fermare un altro giorno?» le chiese, scrutando di sottecchi la sua figura, coperta da strati e strati di stoffa e da una pelliccia di lince che le aveva regalato.

«Vi ho già recato fin troppo disturbo. Mia madre, invece...» Fabia si portò un ricciolo rosso dietro l'orecchio. «Mi ripete in continuazione che quella sarà sempre casa mia. Almeno non mi troverò in mezzo a una strada» concluse, con un sorriso triste.

«Non accadrà mai. Vostro marito tornerà presto da voi, vedrete.»

«Spero abbiate ragione.» Fabia la guardò con i suoi profondi, gentili occhioni; quindi fece un inchino. «Grazie, imperatrice. Di tutto.»

«Fate buon viaggio e siate prudente.»

Gli schiavi l'aiutarono a salire sulla lettiga, che subito si allontanò a passo celere. Livia attese di vederla sparire dalla propria vista, quindi si voltò verso un servo. «La mia portantina è pronta?»

«Sta arrivando, domina

Poco dopo vide i lecticarii avanzare svelti nella sua direzione. «Dove desiderate andare, domina?» le domandò uno, inginocchiandosi insieme ai compagni per permetterle di salire.

«All'Atrium Vestae

I Mauritani si sollevarono e iniziarono la discesa del Palatino. Una volta raggiunte le pendici, svoltarono a destra, lungo il Vicus Vestae, e si fermarono. Livia scostò la tendina e vide subito il tempio circolare della dea svettare bianco contro il cielo altrettanto bianco. Smontò dalla portantina, subito affiancata dal fedele Zosimo, e si diresse verso il tempio, calpestando l'antico lastricato che congiungeva la strada all'edificio sacro. Salì i gradini che portavano alla pedana rivestita di marmo, sulla quale si innalzavano venti colonne corinzie disposte ad anello tutt'intorno. Entrò nel tempio e subito il chiasso di Roma, con le sue tabernae di mercanti che chiamavano a gran voce possibili compratori, le schiave che spettegolavano intorno alle fontane, le matrone che incontravano le amiche e si mettevano al corrente delle ultime novità, tutto quel frastuono venne annullato dalla sacralità dell'ambiente in cui si trovava.

Vesta era una delle dee che Livia preferiva. Era il ritratto della perfetta matrona romana: morigerata, leale, modesta, forte. E misteriosa. "Io sono Colei che è, e nessun uomo ha mai sollevato il mio velo" cantavano le sue sacerdotesse fin dai tempi antichi. Vesta era la Dea Primigenia, la Grande Madre, colei che nei sacrifici doveva essere sempre onorata per prima. Era una dea orgogliosamente femminile, che non permetteva l'accesso al suo tempio agli uomini. Era la dea delle donne forti, coraggiose e indipendenti, come Livia aveva sempre amato considerare se stessa.

Avvolta nel silenzio sacro, l'imperatrice avanzò fino alla cella circolare, che ospitava il fuoco sacro. Uno dei compiti principali delle Vestali era impedirgli di spegnersi, alimentandolo continuamente. Sulla continuità di quella fiamma si fondava la saldezza di Roma. Livia sollevò lo sguardo al tetto conico, individuando il foro centrale attraverso cui usciva il fumo, che altrimenti avrebbe reso l'aria di quel ristretto ambiente irrespirabile.

A differenza di altri templi, nessuna statua raffigurava la dea. In fondo si apriva un vano trapezoidale, il penus Vestae, interdetto a qualunque visitatore, meno che alle sacerdotesse. Lì erano conservati gli oggetti più sacri di Roma, alcuni - secondo la leggenda - appartenuti addirittura ad Enea, che li avrebbe tratti in salvo da Troia in fiamme.

La morte dell'arpiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora