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Ottavo giorno prima delle Calende di febbraio (25 gennaio)

Dopo aver lasciato il Dalmata Noxos a presidiare l'Atrium Vestae, promettendogli che a breve gli avrebbe mandato anche Tallio in modo che uno dei due potesse avvisarla di eventuali sviluppi circa Aureliana, Livia tornò al Palatino, dove scrisse un codicillum che consegnò a uno schiavo perché lo consegnasse a Papiria.

Trascorse la mattinata consumando un rapido pranzo e assistendo alle lezioni dei suoi figli, felice di vederli così attenti e diligenti. Passando per l'impluvium per andare alla latrina, si fermò a osservare i primi fiocchi di neve che cadevano dall'apertura sul soffitto e si posavano sulla grande vasca piena di ninfee e pesci guizzanti. Dopo aver espletato i suoi bisogni andò nel peristilio, si sedette su una panca, si avviluppò in numerose pellicce e si godette lo spettacolo dell'inverno che imbiancava piante ed erba.

Quando uno schiavo l'avvisò che i suoi ospiti erano arrivati, Livia si alzò quasi a malincuore. Per qualche ora aveva liberato la mente e non aveva pensato a morti, indagini, menzogne e persone sgradevoli. Aveva pensato alla fortuna di essere nella sua posizione, alle decisioni che nella vita aveva preso per arrivare fino a lì. Si era sentita benedetta dagli dèi e invincibile.

Accolse gli ospiti nel tablinum, dando le spalle alla finestra aperta sul peristilio per non essere distratta da quell'incantevole spettacolo.

Papiria e suo figlio Emilio entrarono tenendosi per mano. Livia spese poche parole, quindi chiamò uno schiavo perché portasse il bambino a giocare con Druso. In fondo era quello il pretesto dell'invito, che i ragazzi potessero passare del tempo insieme e conoscersi meglio. Se Livia aveva ben individuato l'ambizione di Papiria - la stessa di Curzia e Balbina e di tutte le matrone del mondo - sapeva che non avrebbe rifiutato una simile opportunità.

Quindi fece accomodare la donna ed esordì: «Grazie per essere venuta. Volevo sapere come state, dati gli ultimi avvenimenti.»

Papiria le fece tanto d'occhi. «Voi sapete

«Sarebbe grave se così non fosse. Se Augusto non avesse occhi e orecchie non solo a Roma, ma in tutto l'impero, non riuscirebbe mai a governarlo.»

Papiria si indispettì. «Se sapete tutto, allora potete immaginare il mio attuale stato d'animo.»

«Ho parlato con vostra sorella, ieri. Si compiace molto dell'attuale stato delle cose.»

«Ovviamente!» sbuffò la donna.

«Ma ha anche detto che non ve lo meritate. In fondo, siete stata costretta a sposare il senatore Cervo, non è stato un vostro desiderio.»

«Certo che no! Prima mio padre mi obbliga a sposare quel buono a nulla, poi mi costringe a pagare le conseguenze del suo errore di giudizio.» Papiria era furibonda, ma di una furia stanca, rassegnata.

«Eravate al corrente dei vizi di vostro marito?»

«Sapevo che beveva fuori casa, ma non avrei mai immaginato che fosse un frequentatore abituale di quei... postacci.»

Si riferiva alle tabernae lusoriae, luoghi di incontro clandestini in cui patrizi e plebei si dedicavano al gioco d'azzardo. Livia era molto critica al riguardo - come d'altronde Papiria - ma non poteva esprimere pubblicamente il proprio disdegno, perché anche suo marito, il grande Ottaviano Augusto, era un accanito giocatore. Giocava solo con gli amici e i più stretti confidenti, ma giocava forte. Livia era abbastanza sicura del loro patrimonio, ma ogni tanto nei suoi incubi più riposti sognava che Ottaviano impegnava la casa e i creditori arrivavano a portargliela via, sradicandola dalle fondamenta e trasportandola giù dal Palatino a dorso d'asino.

La morte dell'arpiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora