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Quindicesimo giorno prima delle Calende di febbraio (18 gennaio)

Durante tutto il tragitto fino al Palatino, cullata dai movimenti della portantina e avvolta in strati di pellicce per combattere il freddo, Livia Drusilla tentò di ricostruire la dinamica degli eventi della sera prima.

Il vino era stato servito dagli schiavi. L'assaggiatore siriano aveva sorseggiato il calice a lei destinato, con la prudenza e la solennità che aveva sempre in quei momenti di alta tensione. Aveva lasciato trascorrere qualche istante, poi le aveva consegnato il bicchiere. Livia lo aveva posato sul tavolo e non lo aveva più toccato. Sapeva che certi veleni impiegavano del tempo ad agire e attendeva sempre un po' prima di attaccare le proprie pietanze.

Il calice era rimasto sul tavolo dinanzi a lei fino a quando Aurelia non lo aveva preso. Non potevano essere trascorsi più di dieci minuti.

In quei dieci minuti qualcuno, approfittando di un momento di distrazione di Livia, aveva avvelenato il suo vino.

Ma Livia non si era mai distratta così a lungo da permettere una simile manovra. Non aveva mai dato le spalle al tavolo, perché le sue ospiti erano tutte di fronte a lei. Occupava il triclinio a sud della stanza, su un podio sopraelevato, in modo da avere una perfetta visuale sulle invitate.

Eppure...

C'era stato un momento in cui una donna, venuta a renderle omaggio, l'aveva costretta a voltarsi dalla sua parte.

Livia si sforzò di ricordare chi fosse. Poi le sovvenne: si chiamava Balbina ed era la moglie del senatore Lucio Lutazio. Una femmina insulsa e sciocca, che rideva sguaiatamente per motivi per nulla ilari. Era la prima volta che la incontrava e ci parlava e non ricordava nemmeno la conversazione che avevano avuto.

Ricordava solo che, a un certo punto, erano state raggiunte da un'altra donna, che si era intromessa legandosi all'ultimo argomento di cui avevano parlato. Profumi, forse? No, no. Avevano parlato di bambini. Avevano entrambe dei figli circa dell'età di Druso, il figlio minore di Livia. Come si chiamavano? E come si chiamava la seconda donna?

Livia ci pensò e ripensò ma ricordava solo vagamente i suoi lineamenti, i capelli e gli occhi scuri e il portamento fiero. Ricordava che aveva parlato meno di Balbina e con voce meno squillante.

Una volta arrivata alla domus sul Palatino, l'imperatrice ordinò che le servissero un pranzo frugale nel triclinio di rappresentanza. Si sedette sullo stesso divanetto che aveva occupato la sera prima e gettò uno sguardo sul punto in cui Aurelia era morta.

Per quanto sgradevole, volgare e molesta fosse quella donna, Livia non le avrebbe di certo augurato di morire. Eppure, se Aurelia non avesse ceduto alla tentazione del palato, ora quella morta probabilmente sarebbe stata lei.

Livia represse un brivido e poi si voltò sulla destra, immaginando di avere davanti a sé Balbina. L'aveva raggiunta subito dopo che i vassoi con il pasticcio di olive erano stati portati via, all'inizio del banchetto. Le aveva rivolto un saluto emozionato e balbettante, poi aveva iniziato un monologo sulla bellezza della sala, il delizioso sapore del primo piatto e del vino, la generosità dei padroni di casa... E poi, sì, aveva iniziato a parlare di suo figlio, come si chiamava...? Probabilmente Lucio, come suo padre. Aveva suggerito... ma sì, aveva suggerito un pomeriggio di giochi con Druso. Di sicuro voleva che diventassero amici, che suo figlio entrasse nelle grazie del figlio dell'imperatrice. Un piano vanesio, semplice come la mente ristretta e ambiziosa di quella donnetta.

E a quel punto era arrivata...

«Curzia!» esclamò Livia, battendo un pugno sul tavolo. Lo schiavo che stava sopraggiungendo con un vassoio di pane, carne fredda e uova sobbalzò e squittì, lanciando il vassoio in aria e riuscendo miracolosamente a riprenderlo al volo.

La morte dell'arpiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora