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Sedicesimo giorno prima delle Calende di febbraio (17 gennaio)

La confusione si interruppe, le chiacchiere cessarono, le risate si spensero. Tutti gli sguardi si puntarono sul loro tavolo. Le matrone sdraiate sui triclini più lontani si alzarono in piedi per vedere cosa fosse capitato.

Livia era immobile, lo sguardo puntato tra la schiena e il collo dell'immensa matrona, che formavano un tutt'uno di carne strabordante, tanto che non si riusciva a capire dove iniziasse l'una e terminasse l'altro.

All'improvviso qualcuno la costrinse a voltarsi e si sentì una piuma d'oca farsi strada nella sua gola. Scossa dai conati, Livia si sporse in avanti, rigurgitando il pasticcio di olive, la crema di piselli e porri, la lagana e il maialino da latte.

Una delle donne più vicine al suo tavolo strillò. Un'altra poco distante le fece eco. E il caos piombò sulla sala.

Le ospiti iniziarono a correre di qua e di là, alcune verso Aurelia, spiaccicata tra mammelle di scrofa, anfore di vino e cestini di frutta; altre verso l'uscita, scappando come se avessero i lemures alle calcagna. Una addirittura si mise due dita in gola e vomitò tutto ciò che il suo corpo aveva assorbito fino a quel momento nel grembo di un'altra donna, che strillò e scoppiò a piangere. Vedendola vomitare, le donne più vicine a lei furono tutte colte dal terrore e si appartarono negli angoli della sala per espellere il cibo e il vino che avevano ingerito. Bastò poi che una di loro, bianca in volto, si scapicollasse verso l'uscita, perché tutte le altre la imitassero.

In pochi minuti, il silenzio nella sala deserta si fece assordante.

Livia rimase sola, con Aurelia ancora riversa sulle pietanze e gli schiavi sconvolti che giravano in tondo e non sapevano che fare, starnazzando e sussultando. Allarmate dal trambusto, accorsero anche le guardie, che fissarono la colossale matrona.

Livia si pulì le labbra col dorso della mano, poi chiese un catino di acqua profumata e se le risciacquò. Infine, con una calma surreale, ordinò: «Chiamate Asclepiade.»

Tutti cercarono di ubbidirle in simultanea. Nessuno voleva rimanere lì, con la padrona così strana e quella donna... Alcuni, però, si trattennero quando capirono che così la domina sarebbe rimasta senza protezione, e chi poteva sapere cos'altro sarebbe capitato durante la loro assenza?

Livia rimase accanto ad Aurelia, ricomponendosi per l'arrivo del medico di corte. Il suo cervello era come paralizzato, non riusciva a pensare a nulla. Non sapeva nemmeno da dove le fosse giunta l'idea di chiamare il greco. Forse un qualche meccanismo di sopravvivenza era scattato in lei, suggerendole la mossa corretta.

Era stata brava. Aveva deciso bene. Ora poteva affidare la questione in mani più sapienti ed esperte.

Asclepiade arrivò in tutta fretta. Era stato regalato loro da Mecenate, il ricco etrusco che aveva aiutato Ottaviano nella sua ascesa al potere. Era uno schiavo originario di Atene, ma Mecenate l'aveva graziato con la manumissio e, quando gli aveva chiesto se desiderasse servire i padroni di Roma, Asclepiade aveva accettato subito, gli occhi brillanti all'idea di tutto il denaro che avrebbe potuto guadagnare. Così era venuto a vivere nella loro domus, sempre a disposizione per qualsiasi mal di capo o di stomaco, febbre improvvisa o infezione. Fino ad allora non aveva mai dovuto curare nulla di più grave di un po' di tosse e raffreddore. Ma, Livia sospettava, quella sera si sarebbe vista tutta la sua abilità, che Mecenate aveva a lungo magnificato quando lo aveva donato loro.

Asclepiade corse verso la domina e si inchinò appena, lo sguardo già catturato da Aurelia. Livia si alzò in piedi. «Credo sia morta» disse con voce incolore. «Io mi ritiro nella mia stanza. Ti aspetto quando avrai finito.»

La morte dell'arpiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora