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Settimo giorno prima delle Calende di febbraio (26 gennaio)

La domus di Citera si trovava nell'angolo nord-orientale del Palatino, in una diagonale perfetta con il palazzo imperiale, costruito sul versante sud-occidentale. Livia partì dopo pranzo, indossando una tunica intima in più per combattere il freddo che scendeva dal cielo sotto forma di fiocchi di neve. Quando scese dalla portantina dovette aggrapparsi al solido braccio di Zosimo, perché le sue gambe erano irrigidite dal gelo e non sentiva più i piedi. Eppure attendeva quell'incontro con una certa trepidazione.

Fu fatta entrare immediatamente nella casa, che non spiccava sulle altre né per dimensioni né per arredamento o decorazioni. Livia si guardava avidamente intorno, mentre veniva scortata verso il triclinio formale da uno schiavo. Zosimo la seguiva passo passo, un'ombra silenziosa con cento occhi e cento mani pronti a difenderla.

Quando entrò nel triclinio - elegante e accogliente, niente affatto pretenzioso o volgare come se l'era immaginato - fu subito raggiunta da una donna alta e flessuosa come un giunco, con i seni ancora sodi nonostante l'avanzare implacabile dell'età e i capelli rosso fuoco con appena qualche filo argenteo acconciati con semplicità. Livia calcolò che dovesse avere una cinquantina d'anni, specie per avere una figlia dell'età di Fabia. Eppure sembrava molto più giovane e fresca. Indossava una stola color ruggine con dettagli in acquamarina, dello stesso colore dei suoi occhi. Non portava gioielli, solo modesti orecchini a grappolo, e non era truccata, tranne per un leggero velo di fucus sulle labbra ancora morbide e piene.

La donna le venne incontro con un sorriso e si inchinò. «Benvenuta, imperatrice.»

«Grazie per l'invito» rispose Livia, rimuovendo la pelliccia e consegnandola allo schiavo che l'aveva guidata fin lì. «Avete una bella casa.»

«Eppure sembrate delusa» commentò Citera, con una certa malizia.

«Sorpresa, direi. Me la immaginavo più...» Livia faticò a trovare un termine che esprimesse il suo pensiero senza offendere la donna.

«Non mi piace apparire» la salvò lei, facendo spallucce. Poi i suoi occhi brillarono. «Ora. Ho cambiato vita, come sapete. Venite, vi ho fatto preparare una gustatio.» Fece un ampio gesto col braccio candido verso la tavola imbandita.

Livia si avvicinò e subito una figuretta snella si alzò dal divanetto, con un sorriso aperto.

«Fabia» la salutò Livia.

La giovane si inchinò. «Ave, imperatrice.»

«Come ti senti?»

«Fisicamente molto bene. Mia madre mi coccola e vizia fin troppo.»

Citera le prese le spalle tra le mani e accostò la propria fronte alla sua tempia, in un gesto affettuoso. «Mi mancavi, e poi non puoi impedire a una madre di coccolare la sua unica figlia.»

«E il secondo nipotino in arrivo.»

L'uomo che aveva pronunciato quella frase arrivò alle spalle di Livia, costringendola a voltarsi. Era un uomo alto e ben piazzato, solido e robusto, né grasso né muscoloso, con spalle ampie e un torace imponente. I tratti del suo volto fecero capire a Livia che doveva trattarsi del padre di Fabia, ancor prima che Citera lo presentasse come il senatore Marco Fabio Gioviano. Aveva il fisico di un omaccione, ma un volto delicato e quasi femminile. Fabia poteva aver preso i suoi colori dalla madre, ma non mentiva quando diceva che lei e il padre erano due gocce d'acqua.

«Onorata di conoscervi» fece un cenno col capo Livia. Quindi si guardò intorno. L'avevano accerchiata e, nonostante sapesse di essere al sicuro, non le piaceva il modo in cui Gioviano e Citera la stavano osservando. Quindi si schiarì la voce: «Perdonatemi, non vorrei sembrare sgarbata e sono felice di rivedervi in salute, kyria Fabia, ma posso sapere per quale motivo sono stata convocata?»

La morte dell'arpiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora