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Decimo giorno prima delle Calende di febbraio (23 gennaio)

Livia procedeva dietro al corteo funebre, vestita di scuro per l'occasione. Il cielo sopra le loro teste coperte da pallae e mantelli era plumbeo, una fine pioggerella scendeva su tutti i partecipanti: sui suonatori di flauto, sui mimi e sui danzatori che precedevano il feretro, sulle prefiche che levavano striduli lamenti, sugli attori ingaggiati dal dissignator per indossare le maschere degli antenati del senatore Cosso... La bara era circondata da littori muniti di fasci e vestiti di nero e subito dopo venivano i familiari. In testa c'erano ovviamente il senatore Cosso iunior con la moglie, le gemelle e il senatore Cervo, attorniati da schiavi che badavano ai loro figli, in modo che non distraessero i genitori durante la cerimonia.

Livia diede un'occhiata alle proprie spalle, agli uomini che reggevano cartelli illustrati che servivano a ricordare ai passanti i momenti più salienti della vita di Cosso. Lei sapeva per certo che aveva compiuto la metà di quelle imprese e che di certo non aveva riportato a Roma la testa di un re barbaro nel suo periodo di servizio militare, ma la plebaglia restava sempre impressionata dalle frottole - e dalle elargizioni di monete e pane che i servitori dei Papiri gettavano ai lati del corteo. E il popolo contento era sempre un elemento valido su cui contare al momento delle elezioni.

Livia cercò di intravedere la testa di Cosso iunior, subito dietro il feretro innalzato verso il cielo grigio. Essendo piuttosto alto, la sua testa fitta di ricci neri spiccava in mezzo al mare di altre teste opportunamente coperte per proteggerle dalla pioggia.

Il percorso verso i rostri, dove si sarebbe tenuta la cerimonia vera e propria con la laudatio funebris del diretto discendente di Cosso, era ancora lungo e Livia pensò di mettere a frutto quel tempo sprecato.

Accelerò il passo e si portò al fianco del senatore Cervo. La moglie Papiria le indirizzò appena un'occhiata velata dalle lacrime, quindi tornò a guardare la bara del padre, permettendole di iniziare una conversazione con l'uomo.

«Senatore Cervo, non abbiamo ancora avuto occasione di parlare» iniziò, a voce bassa e pacata. «Sono molto spiacente per i vostri suoceri. Come ve la state cavando?» Gli afferrò un braccio, costringendolo a restare indietro di qualche passo. Quindi sussurrò: «Vostra moglie è rimasta molto scossa da questi ultimi avvenimenti.»

«Lo credo bene!» esclamò lui, a voce fin troppo alta. Un tremendo puzzo di vino aggredì le narici di Livia, che si costrinse a non tirarsi indietro. «Finora le cose le sono sempre andate bene. È cresciuta tra gli agi, ha avuto un'istruzione di prim'ordine, ha combinato un ottimo matrimonio, ha un figlio sano che non ha mai contratto neanche una febbre e non si è mai rotto neanche un osso. E poi, di colpo, le Moire hanno deciso di giocarci questo brutto scherzo.»

«Le Moire o, piuttosto, un essere umano» arrivò al punto Livia. «Sapete se Cosso avesse dei nemici? Qualcuno che avrebbe potuto fargli questo?»

«Cosso era un bravo politico. E in politica è normale crearsi delle inimicizie. Io ne ho una lista infinita.» Ne pareva quasi fiero. «Ma non è un buon motivo per uccidere.»

Livia guardò in direzione di Cosso iunior. «Ora oneri e onori ricadranno sul suo primogenito.»

Cervo emise un versaccio di gola. «Non vedeva l'ora, quel ragazzino. Ha vissuto nell'ombra del padre per trentacinque anni. Ora può finalmente fare le cose a modo suo.»

«Ho saputo che Aurelia e Cosso non vedevano di buon'occhio sua moglie, Fabia.»

«Certo che no! Una mezza plebea imparentata con una stirpe nobile come quella dei Papiri! Ma il ragazzo è sempre stato un osso duro. Quando ha visto quella sgualdrinella, non c'è più stato verso. D'altronde, lei è la degna figlia di sua madre.» Cervo sogghignò. «La frequentavo, all'epoca. Saltuariamente - era una che si faceva pagare bene. Era talmente altezzosa che ti faceva venire voglia di...» Cervo serrò i pugni, il viso che iniziava ad arrossarsi. «Ma aveva i suoi bravi protettori. Poi quel senatore se ne è invaghito al punto da toglierla dal mercato e non se ne è più fatto nulla. Ma sua figlia è del suo stesso stampo. Furba, sleale e dissoluta. So io come ha convinto mio cognato a sposarla. Non le è nemmeno servito fingere una gravidanza. Le è bastato irretirlo con i suoi occhioni azzurri e la sua lingua viperina. Sua madre le avrà di certo insegnato come conquistare un uomo e la piccolina ha messo in pratica le lezioni, sistemandosi per tutta la vita.»

La morte dell'arpiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora