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Sedicesimo giorno prima delle Calende di febbraio (17 gennaio)

L'allegro cicaleccio l'avvolgeva come un morbido mantello foderato di pelliccia. Sdraiata sul suo triclinio e avviluppata in una pelliccia di lince, Livia osservava i volti intorno a sé. E si domandava: quante vipere tra queste galline starnazzanti? Quanti lupi travestiti da agnelli?

All'apparenza, era solo una festa di donne. Donne importanti. Matrone di stirpe, appartenenti a gentes illustri, mogli di senatori e personaggi politici di spicco.

Ma se fosse stata solo una festa di donne, Livia non vi avrebbe mai partecipato. Tantomeno ne sarebbe stata l'organizzatrice. La tediavano a morte gli incontri sociali, i sorrisi forzati, le premure e le gentilezze verso femmine sciocche e fatue. Detestava quando suo marito richiedeva la sua presenza ai convivi di piacere che si concedeva. Grazie agli dèi, raramente i banchetti che si tenevano nella domus sul Palatino erano volti al mero divertimento. Ottaviano era come lei: pragmatico. Forse era per quello che la scintilla del loro amore, scoccata oramai dodici anni prima, non si era ancora esaurita. Forse era per quel motivo che il loro era l'unico matrimonio in tutta Roma - e probabilmente in tutto il mondo - a funzionare nonostante la moglie non potesse dare eredi al marito.

Livia trattenne uno sbuffo e si disse che lo faceva solo per lui. Quindi si voltò verso la matrona che occupava il triclinio accanto al suo. Era grassa come una vacca pronta per il parto, gli occhi porcini incassati nel viso gonfio - ancora più gonfio, ora, dopo le prime quattro portate di un banchetto che era ancora lungi dal terminare - il doppio, anzi triplo mento che le ballonzolava sul gozzo, il collo massiccio, le spalle e le braccia tonde dove era impossibile intravedere alcun osso, neppure quello dei gomiti, che sembravano buchi nella carne bianca. Le mani, assurdamente piccole per un bestione simile, mostravano salsicciotti inanellati d'oro, lo stesso oro che le pendeva anche dai lobi delle orecchie e che scivolava nell'ampia scollatura della stola color porpora. Un colore davvero volgare, addosso a quella caricatura di donna.

Quel fenomeno da arena, con quella mirabolante parrucca bionda che le ondeggiava sulla testa come una piramide, gli occhi color fango di palude e le spesse sopracciglia nere che si congiungevano sul naso - l'unico elemento di una qualche grazia in quel volto devastato dagli eccessi e maledetto dagli dèi che l'avevano creato - si chiamava Aurelia. Discendente di una importante gens patrizia ed entrata a far parte, tramite matrimonio, di un altrettanto importante gens patrizia, doveva solamente ringraziare l'oculata scelta dei suoi vetusti genitori di darla in sposa proprio a quel senatore in particolare, se quella sera si ritrovava alla festa di cui tutta l'Urbe parlava da giorni. Ossia da quando Livia aveva annunciato che avrebbe ospitato le donne più importanti della città per festeggiare insieme a loro l'ultimo successo di suo marito.

Sì, perché il giorno prima il Senato aveva conferito a Ottaviano il titolo di Augusto e di imperatore di Roma e di tutti i suoi territori.

Era stata una giornata sublime e Livia aveva stentato a nascondere l'emozione. In pubblico si era limitata a sorridere e ad accettare gli elogi del popolo. Ma la sera, quando lei e Ottaviano - per lei sarebbe rimasto sempre Ottaviano, il ragazzo che aveva conosciuto e di cui si era innamorata a diciannove anni - erano rimasti soli nel cubiculum, gli aveva mostrato con entusiasmo tutta la gioia e l'orgoglio che provava in quel momento.

Quella sera era per lui. Livia aveva invitato tutta la femminilità che contava a Roma per sondare l'opinione di quelle ochette - e dei loro mariti - riguardo alla decisione dei padri coscritti.

Aveva previsto che sarebbe stata una serata tediosa - sorrisi, inchini, lodi e falsità a tutto spiano - ma avrebbe fatto qualunque cosa per suo marito. Il loro matrimonio funzionava proprio per questo, perché Livia era pronta a tutto pur di impedire a chiunque di distruggere ciò che Ottaviano stava costruendo. Un impero forte e consolidato, frontiere sicure, ponti, fori e templi in tutte le regioni di nuova conquista, alleanze con terre troppo forti per essere piegate, guarnigioni nei paesi che invece non avevano potuto frenare l'ambizione dei Romani. Una pax in tutto il mondo.

La morte dell'arpiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora