Loki
Gli umani hanno sempre detto cose strane.
A loro piaceva inventare proverbi, frasi che li facessero sembrare più intelligenti di ciò che erano in realtà, come: “Una persona spesso incontra il suo destino sulla strada che aveva preso per evitarlo”.
Ecco, tra tutte, questa era quella che odiavo di più.
Credevo che per gli dèi non valesse, che fossimo in qualche modo superiori rispetto agli altri.
Eppure ci fu un momento, nella mia lunga vita (anche se breve, per un dio) in cui mi sono sentito umano, forse più degli umani stessi.
Solo che non l’avevo ancora capito.
E che siano state le norne, il fato o qualsiasi altro essere superiore a tessere la tela della mia storia, gli sarò per sempre grato, nonostante tutto, per avermi dato una seconda possibilità.
Il mio destino era lì, davanti a me, e mi piaceva pensare che, in qualche modo, avessi contribuito a scriverlo, a disegnare la strada che mi aveva portato così lontano.
O così vicino, se vogliamo essere pignoli.
Ero tornato ad Asgard, la cittadella d’oro, perfetta, immortale: la casa che un tempo mi fu promessa.
Sull’aggettivo “immortale” avrei ancora qualcosa da ridire, perché quella notte sarebbe andata a fuoco, esattamente come tutti noi.
A me il fuoco piaceva, eh.
Alla fine, era il mio elemento.
Non ci si poteva mai fidare, di lui: poteva riscaldare le case, è vero, ma bastava una scintilla per distruggere città intere.
Dalle ceneri poi, nasceva sempre qualcosa, perciò non era proprio la fine.
Okay, mi consolavo così.
A capo di una nave costruita letteralmente con le unghie dei morti che soggiornavano nel regno di Hel, mentre stava per iniziare la battaglia più importante della mia vita, cominciavo ad avere paura.
Tutti gli dèi erano contro di me.
Avrei voluto definirli i miei vecchi amici, ma sapevo che sarebbe stata solo un’altra bugia.
E poi non avevano tutti i torti, dato che guidavo un esercito composto dai loro eterni rivali.
I giganti e le anime dannate non vedevano l’ora di combattere, aspettavano il mio comando.
Dall’altra parte della pianura Ida, dove un tempo sorgeva la mia piccola casa, c’era Odino, con la sua gente e i guerrieri più valorosi, pronto a dare il via.
Sarebbe stato Heimdall, in realtà, suonando il suo corno, a segnare l’inizio della guerra.
Non aveva molto senso, era così e basta.
Riuscivo quasi a vedere il riflesso dei suoi denti d’oro, mentre sorrideva.
E poi il Ragnarok ebbe inizio.
Ognuno affrontò il suo nemico più terribile.
Odino si batteva contro Fenrir, un lupo che era diventato così grande da toccare il cielo e la terra con le sue fauci.
Difficile da credere, ma anche lui era mio figlio, così come Jormungand, il serpente del mondo, che fu attaccato da Thor.
E mentre mi facevo strada tra i guerrieri, ferendoli mortalmente con i miei pugnali, ritrovai, di fronte a me, proprio Heimdall.
In realtà ero troppo stanco per combattere, ma non potevo lasciargli la soddisfazione di farmi fuori senza opporre resistenza.
Era stato lui a far uccidere Narvi e Vali, davanti ai miei occhi.
Odiavo tante cose ma, soprattutto, che i figli pagassero per le colpe dei loro padri.
Nella mia mente riaffiorarono i ricordi di quel giorno.
Dopo avermi portato in quella grotta buia e fredda e legato ad una roccia con una catena magica decisero, grazie al consiglio di Boccadoro, che sarebbe stato divertente ucciderli, solo perché erano i miei figli.
Due ragazzini innocenti, che avevano appena iniziato a vivere la loro vita.
Forse il loro unico peccato fu avermi come padre.
Sigyn era lì con me, mentre fummo costretti ad assistere alla scena.
Ma la mia tortura era appena iniziata.
Posarono un serpente sulla roccia a cui ero legato, un cobra sputatore.
A raccogliere il suo veleno c’era proprio mia moglie, con una piccola ciotola, ma quando essa si riempiva doveva svuotarla e, proprio in quei momenti, l’animale colpiva.
Come aveva detto Aren, ero io a causare i terremoti che colpivano la Terra.
Era il mio dolore.
Poi, un giorno, le catene si spezzarono.
Ma dov’era finita Sigyn?
Non l’avrei rivista mai più.
Forse nemmeno dopo il ragnarok.
Ritornai alla realtà, sbattendo le palpebre.
Heimdall mi osservava divertito, impugnando la sua spada d’oro, mentre la guerra infuriava attorno a noi.
«Non puoi più scappare, ingannatore.»
«Chi ti ha detto che l’avrei fatto? Diamine, sono diventato prevedibile.» Risposi, sarcastico.
«Tra poco non farai più il simpatico. È la fine.»
«Potrei dirti la stessa cosa. È ciò che volevi, no? Sin dal nostro primo incontro, non vedevi l’ora di liberarti di me.»
«Ti farò pentire per ogni tua malefatta, piccolo demone.»
«Oh, avevo l’impressione che tu ti fossi già dato da fare, per questo…forse prendendotela con delle anime innocenti.»
Digrignò i denti, arrabbiato.
«È stata colpa tua, un prezzo da pagare per le scelte sbagliate che hai fatto. Ti sei messo conto di noi, ci hai insultati e denigrati, se non ricordo male. Ah, è vero…hai anche ucciso uno di noi.» Disse, prima di attaccare.
Dovevo ammetterlo: con la spada era davvero bravo, riuscivo a parare i suoi fendenti a fatica.
Cercai di guardarmi intorno e, ciò che vidi, mi sembrò impossibile da credere.
Fenrir aveva divorato Odino.
Il padre degli dèi a quanto pare fu il primo a cadere, ma venne prontamente vendicato da Vidar, uno dei suoi figli.
Thor sembrava aver avuto la meglio sul serpente, ma era entrato a contatto con il suo veleno: dopo nove passi cadde a terra, privo di vita.
Tornai a fronteggiare il mio rivale, il nostro era l’ultimo duello.
Una piccola parte di me sperò, in qualche modo, di poter sopravvivere e tornare da Aren e Liv.
L’unica famiglia che mi era rimasta.
Ma si sa, il dio dell’inganno, prima di tutto, mente sempre a se stesso.
Le bugie più grandi dette nella mia vita, alla fine le ascoltavo solo io.
E ci credevo pure!
“Non faccio da babysitter a nessuno” Dissi al nonno di Aren quando mi visitò nel mio sogno, tanti anni prima.
Chi avrebbe mai pensato che sarei finito addirittura per coprirlo, per prendermi la colpa di un crimine che, per la prima volta, non avevo commesso?
Avrei dovuto ucciderlo io, Balder.
E invece sono stato così sprovveduto da permettere a lui di correre un rischio simile.
Stavolta toccava a me, pagare per le mie colpe, e l’avrei fatto.
Con stile.
Ecco, uno dei difetti di Boccadoro.
Combatteva bene, davvero, ma aveva la grazia di un elefante drogato a capodanno, non so se mi spiego.
Mi ritenevo più bravo di lui almeno in quello ma, sommando le nostre abilità, avevamo più o meno la stessa forza.
Il principio del ragnarok era quello: non c’era una fazione vincente, entrambi eravamo consapevoli di come sarebbe finita.
Schivai i suoi colpi da vero guerriero, ma mi muovevo come un ballerino sul palco di un teatro.
La vita è uno show, no? O a volte un libro: in ogni caso, deve valer la pena di guardarla, o leggerla.
La mia è sembrata più una barzelletta, ma fa lo stesso: ad alcuni avrà fatto ridere, ad altri riflettere.
Con un pugnale riuscii a colpire il mio avversario sul braccio destro, che sanguinò appena: non era sufficiente.
Si arrabbiò molto e il fendente che ricevetti fu troppo forte, per evitarlo del tutto.
Risultato? Ero ferito alla gamba sinistra, zoppicavo.
E possiamo salutare il ballerino.
Sul mio volto si formò un ghigno, uno di quelli che l’avrebbe fatto infuriare ancora di più.
Un altro detto degli umani era:
“Affronta la vita con un sorriso”
In questo caso si trattava della morte, ma la differenza è sottile.
Ovviamente, funzionò.
«Sei ancora così sfacciato, eh? Te lo toglierò io, quel sorrisetto.»
Altro colpo di spada.
Questa volta riuscii a schivarlo, ma il movimento troppo rapido non fece bene alla mia gamba: stavo perdendo troppo sangue.
«È la fine, no? Tanto vale divertirsi!» E cominciai a fare sul serio.
Non era un aggettivo che si addiceva bene a me, ma le sorprese erano il mio forte.
Gli procurai qualche ferita qui e là, ma non bastava e stavo per perdere la sensibilità del mio arto inferiore, dovevo darmi una mossa.
Qualche runa poteva fare al caso mio, no?
Utilizzai Kaen, quella con cui Odino mi aveva marchiato.
Significava mortalità e dolore, perciò era perfetta.
Lo indebolì molto e, inizialmente, faticava a restare in piedi: lo colpii così al petto, una ferita mortale, da cui non si poteva scappare.
Peccato che, così sicuro di me, avevo abbassato la guardia.
Prima di cadere, infatti, fece affondare la sua spada nel mio fianco sinistro.
Fu lui a sorridere, quella volta, ma finimmo a terra entrambi.
Un boato si sentì in lontananza: era Surtr, il gigante di fuoco, pronto ad incendiare ogni cosa e fare piazza pulita.
La terra tremava sotto i suoi passi, ancora lontani.
È strano, ma la prima cosa a cui pensai in quel momento fu la foto che avevo ancora in tasca.
Provai a prenderla, con la mano tremante, e ci riuscii: era un po’ sporca di sangue, ma si vedeva ancora.
Sorrisi debolmente, ripensando a quei momenti che, nonostante tutto, furono i più felici della mia vita.
Io, durante la vigilia di Natale, con i miei figli.
Mi dispiaceva lasciare Aren e Liv da soli, ma non potevo farci nulla: avevo promesso a Narvi e Vali le nuvole, no?
Alla fine avevano imparato a volare senza di me, ma li avrei raggiunti presto.
Lanciai la polaroid lontano, sperando che, nel nuovo mondo, qualcuno la trovasse.
E poi alzai lo sguardo al cielo.
Era tutto buio, come avrebbero fatto senza le stelle?
Forse potevo fare ancora qualcosa.
Sollevai, a fatica, il braccio verso l’alto.
La mia vista si faceva sempre più sfocata, ma mi imposi di restare cosciente un altro po’.
«Non puoi fare niente... è finita. Non hai mai fatto…nulla di buono... comunque.» Mi avvertì Heimdall, ridendo debolmente.
«Non è vero…adesso l’ho capito...» Dissi, con difficoltà.
Lui non rispose più.
Restavo solo io, eh?
Dalla mia mano nacque una piccola luce, che viaggiò velocemente verso il cielo.
Un’esile fiamma si accese, nell’oscurità.
Questa volta una stella l’avevo incendiata per davvero e, come dalle scintille di un fuoco, ne sarebbero nate altre.
Non ero poi così male, alla fine.
«Questo è…il mio dono. Che sia…fatta…luce…»
Il mio braccio cadde, potevo riposare.
Una lacrima rigò la mia guancia, ma sorridevo ancora.
Avrei voluto trasformarmi in un falco e volare libero, per sempre.
Sarebbe stato proprio bello.
Magari in un’altra vita, ma per ora, questa è la fine della mia barzelletta.È stato molto difficile per me, scrivere questo capitolo.
Finalmente conosciamo il punto di vista di Loki, uno dei personaggi più importanti di questo libro, che ha aiutato molto i nostri protagonisti e continuerà a farlo, grazie al suo dono.
Volevo dargli una giusta fine e spero di esserci riuscita.
Il prossimo venerdì verrà pubblicato l'ultimo capitolo, insieme all'epilogo.
Vi ringrazio per essere arrivati fin qui e vi invito a commentare o semplicemente a lasciare una stellina, se vi sta piacendo la storia.
E, ovviamente, vi auguro una buona lettura, perché voi possiate ridere o riflettere dopo questa "barzelletta"che, a me, ha insegnato tanto.
Maira
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Evara - Il dono di un dio
Fantasy"Non ho mai saputo ballare. Non sono mai stata capace di seguire il ritmo della musica, di lasciarmi andare. «Nemmeno io so ballare, ma a chi importa?» Diceva lui. Eppure, era il miglior ballerino che io avessi mai visto. Ma forse ero un po' di part...