Giorno
Per la seconda volta in poco tempo la conversazione con un cliente si era conclusa con quella parola.
Scopo.
Fino a quel momento, però, non gli stavo dando troppo peso perché, come si dice, due indizi non fanno una prova. In quelle settimane mi era ricapitato inoltre, di pensare al sogno dell'ascensore, a quella salita colma di angoscia che era cominciata, che non sapevo se e in che modo sarebbe continuata. Nel frattempo, avevo terminato la lettura del thriller psicologico ed ebbi definitivamente la conferma che l'origine di quella sensazione non potesse derivare da esso. Era qualcosa di più intimo, che mi nasceva da dentro, che ancora mi appariva profondamente fumoso e di difficile comprensione. Non avere fra le mani le redini della mia coscienza mi faceva sentire perso. Fortuna che ero circondato dai libri.
Il fischio acuto del freno di una bicicletta fuori al negozio mi catapultò nuovamente nella realtà. Dal bancone mi ero accorto che si trattava di un signore che mi stava facendo cenno col dito di uscire.
Era un omino basso, calvo e anziano. Montava sulla sua bici con fare disinvolto, vestito in una tuta sgargiante per dimostrare al mondo che in lui la gioventù non era ancora scomparsa. Aveva gli occhi sottili e sorridenti, mani rugose e grassottelle e, come di lì a poco avrei scoperto, una voglia matta di chiacchierare.
Si chiamava S. ed aveva ottant'anni.
− Scusa ragazzo, hai dei libri con l'arabo?
Mescolava in ogni frase il suo dialetto meridionale ad un italiano poco più che basilare, ma aveva una capacità espressiva che valeva più di ogni altra cosa.
− Scusi, intende libri in arabo? − chiesi per capire.
Gli si illuminarono gli occhi.
− Sì, sì, quelli. Sta mia nipote che li cerca per scuola. Lei è brava, sa più lingue, studia, ma sti libri non si trovano.
Sorrisi, ma scossi la testa.
− Mi dispiace, signore, non ho libri in lingua straniera. Gli unici manuali che vendo sono i dizionari, ma i romanzi li ho solo in italiano.
Fece una smorfia sul viso e schioccò le dita, come ad aver perso un'occasione, ma il suo disappunto durò poco.
− Comunque, hai fatto proprio bene ad aprirti una libreria qua. Qua stanno molti turisti, vendi tanto, − fece il gesto dei soldi avvicinando l'indice e il pollice della mano e aggiunse: − E poi mica sono tutti ignoranti come a me.
Il suo modo carnevalesco di esprimere i concetti mi divertiva; avere davanti il signor S. mi fece rendere conto di come la parabola dell'esistenza di una persona inizi e termini nella stessa condizione, quella dell'infanzia. I neonati non hanno autonomia nel poter vivere da soli, sono fisiologicamente obbligati a dipendere da un altro essere umano, almeno prima di raggiungere i primi livelli di indipendenza, come il linguaggio, l'imparare a camminare, a fare i propri bisogni e a mangiare. La vecchiaia, tutto sommato, segue regole di dipendenza simili, perché il corpo si indebolisce, non si ha la stessa forza vitale di un tempo nel fare le cose, ma contemporaneamente si ha la possibilità di tornare indietro ad un lusso inestimabile, quello di tornare al modo meraviglioso e puro, tipico dei bambini, di vedere le cose del mondo come se fosse la prima volta, di stupirti per il dettaglio, di fare battute innocue e non avere timore nel mostrarti come sei davvero.
S. mi conosceva da appena qualche minuto e aveva già superato un livello di confidenza avanzato, aveva già fatto una battuta autoironica sulla sua poca cultura e non aveva mai dato segni di sentirsi a disagio per aver cominciato una conversazione con uno sconosciuto.
Gli sorrisi.
− La ringrazio, signore.
− Ma che signore e signore. Dammi del tu, ragazzo, il rispetto non sta in come parli, ma in quello che fai. Ormai qua non si capisce più niente, giovani maleducati, adulti che si approfittano di tutto...− e mentre parlava faceva la mano a pigna, indignato.
Non sapendo come rispondere a quelle considerazioni da uomo vissuto, chiesi di lui.
− Lei... ehm scusa, tu sei di qui?
Fece no con la testa.
− Macché ragazzo. Sono di giù, ma vivo a Torino. Vengo qui in vacanza in un albergo qua vicino e canto la sera nelle serate che organizzano, − e accennò ad un balletto simpatico.
Mi fece ridere.
– Ah, tu canti? Mi fa piacere vederti così energico, non è da tutti per l'età che hai.
− Eh eh, bisogna volerle le cose, ragazzo. Stare fermi non ti porta mai bene, ricordatelo. Pensa che a Torino c'ho ancora i miei banchi al mercatino dell'usato, perché non c'ho voglia di smettere.
− Tu organizzi un mercatino dell'usato? Il vintage mi è sempre piaciuto.
S. sembrava compiaciuto e fece un ampio gesto con la mano.
− Lo puoi giurare, ragazzo. Vendo di tutto, giardinaggio, bricolage, fai da te... pure libri, ma non ci capisco niente io, li vendo e basta, − e scoppiò a ridere.
− E riesci a guadagnare qualcosa?
Inclinò la mano.
– Mah, così così. Lo faccio per restare in movimento, non per i soldi. C'ho un figlio grande che vive fuori, sono vedovo... a chi devo rendere conto, – e spalancò le braccia.
− E quanto ti trattieni qui?
− Boh, di solito qualche settimana, finché l'albergo non organizza più niente. Tu ci sei mai stato a Torino? − mi chiese poi curioso. Io risposi di sì, ma che era successo tanto tempo prima.
− Eh, devi vedere adesso com'è, uno spettacolo. Ci stanno sempre i deficienti che non capiscono niente eh, però si sta proprio bene. Qua invece? Leggono?
− Non troppo in realtà. Gli adulti entrano più facilmente dei ragazzi. I più giovani di solito acquistano fumetti o libri per la scuola, ma difficilmente lo fanno per il semplice gusto di leggere.
S. abbassò lo sguardo, quasi deluso.
− Ah, ragazzo, che brutta cosa sto mondo. I libri potrebbero risolvere molti problemi, ma nessuno li legge. Io sono il primo eh, sono il primo della fila. Pure per colpa mia ci stanno queste situazioni strane, governi ignoranti, paesi poveri, il pianeta che non ce la fa più. È un grosso peccato, mannaggia. Qua una sola occasione abbiamo per migliorarle le cose, non diecimila. Io purtroppo non posso più fare niente, il tempo l'ho avuto in passato e non l'ho saputo usare bene, ma per chi c'è ora le cose devono cambiare. Ho fatto tante cavolate nella mia vita eh, il peccato è che ci arrivi sempre troppo tardi, quando le cose non puoi più cambiarle.
Aveva gli occhi visibilmente lucidi e notai che gli vibrava la voce.
− Non sei soddisfatto della tua vita?
Deglutì e rifletté qualche secondo prima di rispondere.
− Non è che non sono soddisfatto. È che probabilmente dovevo usare il mio tempo in modo diverso; forse se ora sto qua in un albergo a cantare e ballare la sera è per dare valore all'ultimo tempo che mi rimane... boh non lo so, non sono bravo a pensare.
Sorrisi.
− Perché dici questo? Probabilmente hai solo scoperto il trucco per rimanere sempre giovane e tutti al mondo ora ti invidiano.
Annuì solennemente.
– Bah, sarà come dici, ma ora come ora il mondo invidia una sola cosa alle persone: la salute. Con tutti sti problemi sanitari e sull'ambiente, nessuno si rende conto dei danni. E se si inventano le malattie o le epidemie per soldi? Negli anni '20 ad esempio, i danni della Spagnola furono grossi anche per colpa della guerra e della miseria dei soldati. Chi mi dice che non può succedere di nuovo ora? Ah, ragazzo, che brutta cosa sto mondo.
− Per te può esserci una soluzione a tutto ciò?
− Non lo so, io di sicuro non sono capace. Sono solo un vecchio su una bici elettrica che balla e canta, però forse voi potete farcela. Dovete seguire quello che più vi piace, dare un significato a quello che fate. I libri aiutano, ma solo chi vuole farsi aiutare. In tanti anni mi sono solo reso conto di questo, che a fare non ci perdi mai, se stai fermo invece hai già perso le possibilità... − poi sospirò e concluse: − Va bene, ragazzo, devo andarmene ora. Tanti auguri e mi raccomando, se vieni a Torino, ricordati di me. Spero di riuscire a trovare sti libri con l'arabo da qualche altra parte. Ciao ragazzo, stammi bene.
Mi strinse calorosamente la mano, poi si sistemò sulla bici e se ne andò.
S. non era di certo il miglior lettore che la storia potesse ricordare, ma era arrivato ad una consapevolezza invidiabile di sé e della propria vita attraverso l'esperienza. L'unico modo che ha il linguaggio per riuscire a valorizzare qualcosa è avere delle fondamenta solide su cui lavorare, un'esistenza da raccontare, storie fresche, voluminose, semplicemente vite. In tutti gli altri casi si rivelerebbe un vuoto contenitore che si tenta forzatamente di riempire.
E le storie di S. avevano una loro forma, un modo di presentarsi estroverso e inconsapevole, come i racconti di un bambino.
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Un vento di distanza
General FictionSimone è un libraio di trent'anni, ama il suo lavoro, ma si guarda allo specchio consapevole che l'equilibrio raggiunto dalla sua solitudine avrebbe bisogno di una rivoluzione. Qualche anno dopo aver pubblicato una raccolta di poesie, spinto dal des...