DICIANNOVE - PARTE IV

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Sogno

Quando la porta dell'ascensore mi allontanò definitivamente dalla signora, giunsero le lacrime. Mi sedetti e mi rannicchiai contro la parte bassa di velluto della parete centrale del vano, nascondendo la faccia fra le ginocchia, nel tentativo di contenere il pianto.
L'esistenza della signora si era costruita come radice pulsante dal profondo della Terra.
Io stavo ancora cercando la mia, di radice.
La signora aveva generato uno scopo e negli anni lo aveva allevato, cresciuto come si fa con un figlio, e poi inseguito, da buona mamma anziana.
Io non avevo ancora trovato il mio, di scopo.
La signora si era immersa nelle profondità della meraviglia, nell'Amore e nella libertà che il mondo offre.
Io ne ero estraneo.
La signora aveva superato la paura della morte, aveva dato un'etichetta di luce alla sua vita, nonostante l'unica cosa che ora le rimaneva fosse un appartamento buio.
Io non avevo ancora superato la mia, di paura.
La signora aveva arato il sentiero del suo tempo, che l'avrebbe condotta a quel divano con forza e decisione, le stesse che ora custodiva nelle pieghe delle sue rughe.
Io non sapevo ancora cosa fossero realmente, la forza e la decisione.
Sapevo, però, cosa fossero le lacrime. Quelle sì, perché ci avevo parlato spesso, come stava accadendo in quel momento. E sapevo che quando decidevano di parlarmi, era perché avevano accumulato talmente tanto dolore, da doverlo buttare fuori per non rischiare di esplodere. E ogni volta erano capaci di farmi sentire pieno e vuoto allo stesso tempo: pieno, perché dalle lacrime sgorga la pulsazione della vita, come da ogni forma di bagnato, dall'acqua che riesce sempre a trovare un canale infimo dove infilarsi per portare con sé il miracolo della nascita. Vuoto, perché sentivo che quel prezioso flusso usciva da me per non tornare indietro mai più, lasciando una scia di siccità a cui dover far fronte. Ero un terreno arido. Arido perché le vite, le parole, i monologhi, la luce degli altri mi avevano rinsecchito il midollo; derubato del fertilizzante delle poche risposte che pensavo di possedere certe e infilzato da una serie infinita di domande, lanciate verso di me come coltelli insanguinati. Un terreno che piangeva la sua sterilità, senza un contadino disposto a coltivarlo, anche se in quel momento ero convinto di non possedere neanche un centimetro quadrato di ettaro in cui poter sperare.
Sentivo che ognuno degli incontri che avevo avuto fino a quel momento mi avesse dato tanto, ma mi avesse tolto ancora di più. Era come se ogni volta fossi entrato in diverse gioiellerie e avessi contemplato inerme la bellezza degli smeraldi, degli zaffiri e dei diamanti, senza avere la possibilità di acquistarne nemmeno uno. L'impatto iniziale mi aveva inondato di meraviglia, come se avessi raggiunto un punto d'osservazione pregiato da cui guardare il mondo e avessi finalmente un motivo per sentirmi fortunato.
Ora, però, stava sopraggiungendo la convinzione, fino a quel momento rimasta latente, di essere destinato soltanto ad una contemplazione infinita, senza possibilità di toccare concretamente con mano l'ecosistema di ognuno dei personaggi incontrati. Mi sentivo, insomma, irrimediabilmente indirizzato ad un futuro senza scopo, all'illusione di poter afferrare la felicità, mentre essa continuava ad allontanarsi, come un palloncino dalle mani di un bimbo.
E poi, in quelle lacrime sentivo scorrere anche la frustrazione di trovarmi rinchiuso nel vano di un ascensore silenzioso da mesi, che da casa si era trasformato in una gabbia psicologica. Percepivo la fatica insoddisfacente del pellegrino che vaga senza indicazioni fra le distese di una vallata infinita.
Non sapevo, però, che di lì a poco, un paesaggio del genere sarebbe stato per me la cosa più vicina al concetto di casa.
L'ascensore, infatti, si fermò, ma non come le altre volte. Il rumore meccanico degli ingranaggi durante la fermata fu più duro, un tonfo netto e definitivo, come se avesse appena sbattuto contro un soffitto altissimo. Ci fu un piccolo rinculo che fece rimbalzare leggermente il vano e poi tutto si fermò. Dopo qualche secondo, sentii un suono acustico simile a quello che anticipa la voce degli altoparlanti di un supermercato, solo che in questo caso nessuno parlò.
Mi sganciai dal bozzolo delle ginocchia che avevo sperato mi proteggesse da quel lungo dolore e con il volto arrossato dal pianto mi guardai intorno alla ricerca della fonte del suono. Lo sguardo mi cadde sulla stella posta nella parte alta del pannello dei bottoni. Fino a quel momento non aveva dato segni di vita, mi era sempre sembrato un semplice disegno, una sorta di decorazione immobile e statica. Invece ora, dopo aver emesso il suono acustico, aveva cominciato ad illuminarsi ad intermittenza, come le frecce di un'automobile.
Mi alzai lentamente con il naso che ancora colava, mi asciugai velocemente il volto sul braccio e mi avvicinai al pannello dei bottoni. Toccai il nono, come avevo fatto per tutti gli altri e dopo il loop della memoria, notai che, nonostante non avessi ancora vissuto il ricordo legato ad esso, il decimo ed ultimo bottone era illuminato di uno strano verde intenso. Tentai di sfiorare anche quello, dato che la porta dell'ascensore non dava cenni di volersi aprire, ma mi trattenni quando la piccola superficie sferica del bottone cominciò a roteare da dentro l'incavo in cui si trovava. Piano piano, il bottone venne fuori, scoprendo dietro di sé un corpo cilindrico che si collegava internamente al sistema elettrico dell'ascensore. Non uscì del tutto e quando si fermò rimasi a bocca aperta. Il cilindretto grigio che fungeva da scheletro del bottone, si aprì come un cofanetto che custodisce dei preziosi gioielli.
All'interno di quella strana custodia, si trovava una piccola chiave dorata.
Deglutii: sembrava che tutto facesse parte della sceneggiatura di un film di fantascienza.
Calò un silenzio che sapevo si sarebbe spezzato solamente se avessi preso in mano quella chiave, ma ero appena uscito bruscamente da una crisi esistenziale che probabilmente sarebbe durata molto più tempo e in quel momento l'unica cosa che desideravo fare era rimanere seduto nel vano dell'ascensore in completo silenzio, nell'attesa che il destino mi concedesse la sua pietà e agisse per conto mio.
Invece, neanche nel dolore venivo lasciato in pace, anzi sembrava che il qualcuno che aveva dato inizio a quell'assurdo gioco, avesse lavorato proprio per farmi giungere all'apice della crisi, per poi indirizzarmi verso qualcosa. Per questi motivi, quando presi la chiave le mie mani cominciarono a tremare come foglie nude esposte al vento invernale. Quando lo presi in mano, il metallo dorato amplificò la sensazione di freddo, che nel frattempo si propagava in ogni angolo del mio corpo. Si trattava di una chiave piccola e leggera, formata da una testa tonda legata ad un gambo cilindrico, da cui sporgeva un pettine formato da un solo dente, sottile e rettangolare, che avrebbe spostato un chiavistello altrettanto piccolo.
Mentre soppesavo l'oggetto, mi resi conto che era passato molto tempo da quando l'ascensore si era fermato e ancora non c'era stato alcun segnale acustico che ne anticipasse l'apertura. Guardai attentamente la porta e mi sembrò identica a come era sempre stata: grigia, composta da due pannelli rettangolari che seguivano in alto e in basso i binari del sistema meccanico di apertura, graffiata in alcuni punti e insensibile, come era sempre stata fino a quel momento.
Sulla sinistra, però, a contatto con il muro di chiusura, era apparsa inspiegabilmente una serratura. Ero sicuro che non ci fosse mai stata, perché la porta aveva sempre seguìto i binari meccanici del sistema dell'ascensore e, una volta aperta tutta, veniva interamente inglobata dal muro, senza che niente ne aumentasse lo spessore. Quella, invece, era una toppa sfarzosa, composta da una maniglia dal pomello dorato e arricciata nella forma, come il più classico dei capitelli. Al di sotto, in una piccola struttura dorata, c'era il punto in cui infilare la chiave. 
Se c'era una cosa che avevo imparato da quell'esperienza, era di non farmi domande, perché in ogni caso non avrei mai ricevuto le risposte che desideravo; anzi, si può dire che la crisi di poco prima era derivata da un accumulo consistente di quesiti, sui quali non avevo mai potuto esercitare nessuna forma di controllo.
Tanto valeva scoprire a che punto del gioco fossi arrivato.
Inserii la chiave nella serratura e girai. Sentii lo scatto netto del chiavistello. Toccai la maniglia. Fredda. La spinsi giù e scricchiolò. Poi tirai verso di me e aprii la porta dell'ascensore.

Quando la aprii, ci fu luce.
Mi coprii gli occhi per ripararmi dalla potenza flebile ma densa dei raggi, finché non mi abituai definitivamente al torpore di quell'atmosfera rarefatta.
Il paesaggio in cui mi trovavo era la cosa più simile a ciò che si può trovare ai confini del mondo. Feci un passo in avanti e pensai di aver calpestato una pozzanghera: sotto di me, invece, si estendeva a perdita d'occhio il mare. Quando mi resi conto di starci camminando in completa tranquillità, persi quasi l'equilibrio, spinto dal riflesso condizionato di allontanarmi per non bagnarmi i piedi. Mi abbassai con le mani stese in avanti, come se stessi per cadere, e, una volta stabilizzato − più mentalmente, che fisicamente −, mi rialzai piano. In fondo, molto piccola ma comunque visibile, riuscii ad intravedere una linea di terra marrone, il traguardo sperato di ogni marinaio preda dell'oceano.
Tutto era immerso nell'aria rossa dell'alba.
Quando mi voltai, tornò l'instabilità e questa volta mi sentii sconquassato in ogni angolo del corpo. Dietro di me, un enorme strapiombo si estendeva lungo il confine del mare all'infinito e sprofondava verso il basso in una corsa sfrenata e senza fine, come se fosse l'ultimo e più alto promontorio da cui osservare il mondo. L'acqua non lo seguiva, era come bloccata da una forza invisibile sull'argine.
Divenni un tutt'uno con la vertigine, un brivido lungo, denso e viscerale. Rimasi immobile per qualche secondo, poi, spinto da un naturale istinto di sopravvivenza, indietreggiai velocemente di qualche passo e mi tenni a debita distanza dal baratro.
Cominciò a suonare una lenta musica di vento alle mie spalle; quindi, mi voltai in direzione della terra. Di fianco a me, l'ascensore chiuso e immobile segnava la porta d'ingresso dell'abisso. Sotto i miei piedi, il pavimento calmo del mare. Fu in quel momento che dal fondo qualcosa si mosse e, nonostante l'enorme distanza, cominciai a sentire un ticchettio lento e costante di passi rimbombarmi nella testa. Mi avvicinai all'ascensore, mentre la frequenza di quel suono che cadeva nel vuoto come la pioggia sull'asfalto silenzioso, diventava sempre più una maledizione per le mie orecchie. O almeno così credevo.
Mi posizionai davanti al vano chiuso del marchingegno che mi aveva condotto fino a lì in posizione di difesa, illudendomi che sarei potuto scappare se la situazione fosse precipitata. Strinsi i pugni, digrignai i denti e serrai gli occhi, nel tentativo di capire meglio cosa − o chi − si stesse dirigendo verso di me. Passò qualche minuto prima che quella lenta camminata prendesse le fattezze di una persona, di cui era difficile riconoscerne i dettagli, almeno finché non si avvicinò.
Il ragazzo che si fece avanti indossava un paio di pantaloni lunghi e neri, una maglietta azzurra a maniche corte, degli occhiali nuovi dalla montatura scura di plastica; guardava verso il basso e questo mi permise di osservare la sua capigliatura, castana e arruffata dal vento. Si trovava ad una decina di metri da me, quando decise di fermarsi e alzare lentamente lo sguardo verso di me.
In quell'attimo fui catapultato in un tunnel dimensionale molto più rapido di quello delle mie memorie incatenate; mi trovai solo e fluttuante in un corridoio buio. Dietro di me un puntino di luce irraggiungibile; di fronte a me, verso il punto in cui mi sentivo spinto, un ascensore che si ingrandiva a poco a poco e un ragazzo con la schiena appoggiata al muro che osservava il marchingegno di fianco a lui. Ero tornato indietro. Seppure mi sentissi volare in una dimensione che scorreva rapidissima attorno a me, l'ascensore e il ragazzo rimanevano fissi e immobili di fronte a me. Provai ad allungare una mano nel tentativo disperato di convincere me stesso di non iniziare il viaggio, che pur di non finire succube di un destino fatto solo di domande, sarebbe stato meglio voltarsi ed inseguire un puntino di luce proiettato all'infinito. Ma non ci riuscii.
Destinato ad una contemplazione infinita mi ripetei.
Lo sguardo del giovane aveva sbloccato il lucchetto della mia anima; ciò che adesso era legato ad una catena invisibile non erano più i frammenti delle mie memorie, ma il mio corpo, stretto indissolubilmente con la coscienza dell'individuo che avevo di fronte. Tornai in me giusto in tempo per sentirmi finalmente consapevole.
− T-tu... sei me, − dissi quasi in un sussurro, non appena riconobbi il mio volto.
Per un secondo nello sguardo del ragazzo vidi un luccichio, poi un sorriso. Il mio.
− Ciao, − mi disse. Il panico nel sentire la mia stessa voce giunse senza ritardo.
− D-dove mi trovo? È per caso un sogno?! Perché mi trovo qui?!
Sentii prevalere in me l'impeto della disperazione. Il giovane non si scompose.
− Certo che è un sogno, come tutti gli altri d'altronde.
− Eh?! Cosa?! Tu non puoi esistere!
Strinsi i denti talmente forte che pensai mi si sarebbe staccata la mandibola. Le nocche strette delle mani si fecero bianche.
− Neanche tu potresti, ma qui non siamo reali.
− Cosa ci faccio qui?! − urlai senza voler prestare attenzione alle sue parole.
Il mio alter ego allargò le braccia ad indicare quel paesaggio ai confini del mondo.
− Non la riconosci, vero? Non ci sei mai entrato perché non ne avevi la chiave.
− Cosa dovrei riconoscere?!
− Questa è la tua coscienza, fratello. Il posto più pericoloso e infinito che esista. Ti piace?
La mia... coscienza... pensai mentre osservavo di nuovo l'immensità del cielo e del mare che si sviluppava attorno a me.
− Sono anche venuto a trovarti in libreria oggi pomeriggio, ma non mi hai mica trattato in questo modo... − aggiunse il ragazzo visibilmente dispiaciuto.
In libreria?
L'ammasso informe di domande che mi aveva provocato la crisi nell'ascensore sembrava tornare più forte di prima; questa volta, però, in me non c'era più l'istinto della rabbia, ma solo rassegnazione. La voce perse il tono rabbioso. Sciolsi i pugni e i denti. Abbassai lo sguardo.
− Dimmi perché sono qua... − chiesi in un sussurro, nell'ultimo atto di quieta disperazione.
− Sei arrivato qui perché il senso di un viaggio lo si capisce sempre alla fine, − rispose.
Prima di proseguire la conversazione, lasciai che le sue parole si depositassero in me come foglie giunte alla fine della loro folle danza.
− E quale sarebbe il mio? Non mi sembra di averlo trovato ancora.
Il mio alter ego allargò le braccia.
− Tu cercavi uno scopo, non è così?
Non dissi niente.
− E hai avuto modo di scoprire i molti scopi di chi hai incontrato lungo il tuo cammino, finché non sei impazzito. Non è così?
Fissavo il mare sotto i miei piedi in silenzio.
− Sì, è così, − continuò. − Impazzito perché hai paragonato il tuo non-scopo a quello degli altri e ti sei sentito infimo, non è vero?
Ancora silenzio. Non lo stavo guardando, ma probabilmente dovette avvicinarsi e soffermarsi sul fatto che mi trovavo proprio di fronte all'ascensore chiuso, che consideravo illusoriamente una possibile via di fuga.
− Vedo che ci sei molto affezionato, a quell'aggeggio, − disse e lo sentii sorridere.
Non mi mossi. Dopodiché, il ragazzo sospirò.
− Senti, posso farti una domanda?
Nulla di ciò che diceva, mi avrebbe smosso.
− Mi sapresti dire cosa fa un ascensore? − mi chiese.
A quel punto i miei occhi, spinti da non so quale forza interiore, si sgranarono da soli. Non riuscii a controllarli, come se il nervo ottico fosse stato tirato inconsapevolmente da un impulso cerebrale incontrollabile. Sollevai piano il capo.
− In che senso? − chiesi con voce lenta e sommessa.
− Qual è lo scopo dell'ascensore?
Continuai a non rispondere e il mio alter ego sembrò stufarsi del mio silenzio. Doveva conoscermi bene.
− Allora? La smettiamo con questo mutismo? Sembro un professore che sta interrogando un alunno che non ha studiato. Hai deciso di rimanere zitto per tutto il tempo o forse conviene iniziare una conversazione? Se hai sempre pensato di trovare le risposte che cerchi nel silenzio, è normale che tu ti ritrovi qui in queste condizioni, − poi sospirò e concluse: − Allora, mi vuoi dire cosa fa un ascensore dentro un edificio?
− Sale, − risposi colpito ma consapevole della veridicità delle sue parole.
− Oh, bene, allora la voce ce l'hai.
− Scusa eh, se parlare faccia a faccia con me stesso mi provoca angoscia. Sembra che per te sia una cosa normale da come ti poni, ma per me no, − risposi ironizzando, con un impeto di energia nascosta.
Il giovane sorrise.
− Parlare con sé stessi è complicato per tutti, perché a nessuno capita di farlo realmente. E quando ti succede qualcosa di nuovo, come sta accadendo a te ora, si ha sempre paura. Ma è nelle pieghe intricate di te stesso che trovi le risposte. Sempre. E mai al di fuori.
Riflettei un attimo su quelle parole, mi tirai su fisicamente e moralmente inspirando a pieni polmoni e tentando di affrontare con coraggio quell'ennesima sfida, poi dissi:
− Perché mi hai chiesto dell'ascensore?
− Perché dovremmo tutti prendere spunto dal suo funzionamento.
− Cioè dovremmo salire...? − chiesi corrugando la fronte e facendo intendere di non aver capito.
Il mio alter ego sorrise e si mise a braccia conserte, mentre nel frattempo intorno a noi, i confini del mondo conosciuto venivano massaggiati da una dolce corrente e la luce dell'alba si faceva più tonica.
− Immagina di essere un anziano, − cominciò, mentre sùbito mi vennero in mente le immagini della signora dell'appartamento e del signor S., il pellegrino ottantenne che non sapeva come cambiare il mondo, ma che confidava nella lettura.
− In quel caso, tu non useresti l'ascensore soltanto per salire. Mettiamo il caso che tu viva al secondo o al terzo piano del palazzo, da solo e senza nessuno che ti faccia la spesa o ti sbrighi le commissioni. Bene, dovrai farlo tu, uscendo di casa tutti i giorni. Riusciresti a scendere così tante rampe di scale in un giorno, tutti i giorni? Ed ecco che in quel caso, come per magia, l'ascensore ti fa scendere.
Pronunciò l'ultima frase con una visibile caricatura, non capii se perché mi considerasse un cretino o per enfatizzare meglio il concetto.
− Non capisco cosa c'entra tutto questo con me, − risposi, in una delle ennesime situazioni in cui la confusione si era impadronita del mio corpo.
− C'entra, perché il senso profondo di tutti gli scopi risiede nelle diverse prospettive in cui bisogna porsi per comprenderli. Non ha senso provare invidia per la vita di un altro che credi stia andando per il verso giusto, perché lo scopo di quella vita ha senso soltanto addentrandosi in quell'esistenza. E solo in quella. Pensa alla macchina che ti ha portato fin qui e al suo nome, ascensore: esso indica un'ascesa, una salita, ma può essere utilizzato anche per scendere se ci si pone nella prospettiva di una persona anziana. Solo che è stato deciso dalla Natura che fra i due geni, dovesse prevalere quello che ne facesse risaltare la qualità più elevata, la salita. Questo dovrebbe accadere anche agli uomini, compreso te. Aspirare alla miglior costruzione di sé, al proprio miglior genoma, nonostante tutti siano in grado anche di scendere negli abissi più profondi del mondo che hanno costruito. Voltati, ne hai uno proprio dietro di abisso e poco fa, guardandolo, hai provato paura. E poi, non hai forse intravisto un abisso in ogni persona incontrata finora?
Non sapevo cosa dire. A dir la verità, in quel momento non sapevo proprio nulla. Ero rimasto bloccato, in piedi, preda di un infinito senza confini che si sviluppava dovunque attorno a me, ma che riusciva lo stesso a togliermi il fiato. Di fronte avevo un essere umano − mi convinsi che lo fosse − identico a me, che aveva appena guardato la mia coscienza in modo utopistico, ma fortemente funzionale. Non sentivo alcuna sensazione, il vento stava colpendo una roccia fredda fatta di carne vecchia di trent'anni e le impronte sulla superficie del mare sembravano quelle di un insetto pronto ad essere inghiottito dalla tensione dell'acqua. L'unica cosa che sentii chiaramente scorrermi sul volto fu una lacrima. E questa volta non venne a salvarmi, ma solcò il mio terreno arido con forza e vigore, senza preoccuparsi delle ferite che mi lasciava al séguito, come fa la lava quando cola infermabile dalle pendici di un vulcano; la percepii vendicativa, densa e fredda, la punta di un coltello che mi lasciava giusto il tempo di dare alla vita le mie considerazioni finali. Quando cadde dal promontorio del mento, parlai, ma dentro di me sentii un tonfo sordo scuotermi un pezzo di anima. Qualche secondo dopo di fianco a me, dal cielo limpido e incontaminato che ci sovrastava, cadde una goccia. Una sola. Che si sciolse in mare come una meteora nell'Universo.
− Sono stato costretto... − replicai con un filo di voce.
− Questa è l'etichetta che la paura dà all'esperienza, − mi rispose senza indecisione, come se mi conoscesse talmente bene da intercettare perfettamente tutte le variazioni dei miei pensieri. Poi continuò:
− Dovresti vederla più come una possibilità. Guarda dove ti trovi, − e abbandonò completamente le braccia al vento, tirò su la testa, chiuse gli occhi e inspirò, poi riprese:
− Avresti mai pensato che la coscienza fosse un posto così magico? Non ti senti così disperatamente piccolo al confronto, ma allo stesso tempo convinto di poter raggiungere quella terra laggiù senza fermarti, come un pellegrino straniero che trova nel viaggio il suo scopo?
Mi voltai silenziosamente verso l'ascensore e ripensai a quella lunga salita che mi aveva portato alle soglie della coscienza da varcare.
− La miglior costruzione di me... − ripetei a bassa voce, ma il giovane mi sentii.
− Esatto, proprio quella. Qualcuno ti ha mostrato cosa succederebbe se la vita fosse costruita interamente sull'amore, qualcun altro sull'odio, altri ancora sulla forza, la morte, la libertà. Ma la verità è che costruire vuol dire accumulare, estrarre un frammento di ognuna di queste sensazioni e modellarlo su di sé secondo la propria prospettiva, generando un proprio scopo. Le tue memorie erano frammenti, giusto? Piccoli cocci di ricordi da dover tenere incollati dopo ogni incontro per evitare che si perdessero nel vortice della tua mente. I frammenti esistono proprio per questo, perché sottolineano quanto sia importante tenerli uniti.
− Non credo di esserci riuscito neanche questa volta, − risposi di spalle, ancora rivolto verso l'ascensore.
− A fare che cosa? − mi chiese.
− A trovare il mio scopo. Non sono stato in grado di modellare su di me alcun frammento. Tutto ciò che il destino ha deciso di mettermi davanti agli occhi sottoforma di gioco psicologico, l'ho ammassato insieme come somma di esperienze di altre vite, dentro le quali avrei potuto immergermi per non sentirmi escluso. Qualcuno però, mi disse che le sensazioni vanno assorbite sulla propria pelle, come un bicchiere di whisky che raschia la gola, un temporale che bagna ogni poro del proprio corpo o un fulmine che mostra la vera essenza della forza. Nonostante tutto questo, mi trovo qua in preda alla disperazione, come se tutto si fosse polverizzato in una mia auto-illusione.
− La miglior costruzione di sé parte proprio dal capire che tutti i nomi nascondono la magia di tante prospettive. Devi solo essere forte abbastanza da capire quale delle tante ti valorizza al meglio. Devi saper raccontare a te stesso la miglior versione di te.
Appena sentii pronunciare quel verbo, mi percorse un brivido. Non fui certo che il mio alter ego non se ne fosse accorto. Dopo poco mi voltai e lui mi chiese:
− Tu cosa facevi prima? Qual era la tua più grande passione prima di tutto ciò?
− Scrivere, − risposi. − È il motivo principale per cui ho aperto una libreria.
− Hai pubblicato anche una raccolta di poesie, giusto?
Annuii, poi spezzai il discorso con una domanda diversa:
− Ma tu davvero sei me?
Il ragazzo rise.
− Sono una delle tue tante prospettive in cui potresti sentirti. So quello che hai fatto, ma non posso conoscere ciò che per te sia lo scopo. Al massimo posso immaginarlo, ma dipende sempre tutto da te. Hai mai consultato una mappa?
Annuii.
− In base a come la giri, ti mostra una città in modo diverso attraverso vie, piazze e punti cardinali in costante cambiamento. Ma la città resta la stessa. Tutti siamo come delle mappe e non dobbiamo considerarci estranei ad esse, ma diventarne i migliori visitatori.
− Non è un compito facile, − ammisi.
− Certo che no, ma le scorciatoie portano sempre al solito sentimento, la paura.
Sùbito l'immagine della Morte mi apparve limpida nella mente. Ricordavo avesse detto delle cose molto simili.
− Se sei bravo a raccontare, racconta, ma prima fallo a te stesso − mi disse, mentre si voltò verso la terra lontana. Cominciò a camminare lentamente e il ritmo dei suoi passi tornò a rimbombarmi nelle orecchie, nonostante si allontanasse sempre di più. Ad una distanza da cui ancora riuscivo a sentirlo, allargò le braccia e mi disse:
− E goditi questo posto, perché la sostanza delle cose è tutta qui.
Furono le sue ultime parole. Vidi il giovane incamminarsi verso quella riva lontanissima, con la lenta costanza di chi ha un obiettivo e non ha paura di perderlo. Il rumore dei passi terminò dopo poco, finché non rimasi da solo, immerso nel placido infinito di quel paesaggio. Era infinita la linea del mare; era infinita la riga sottile della terra, rigida e razionale, nella sua sfrenata corsa per dimostrarsi potente tanto quanto il cielo; era infinito il cielo, appunto, e quel crepaccio dietro di me da cui, con un ascensore, ero riuscito a salire.
Il vento si alzò, mi voltai verso la macchina e sulla porta chiusa della cabina silenziosa e priva di ogni suono acustico, apparvero delle parole:

Il nostro punto di incontro è l'alba
nella linea disillusa di confine
che dà fondo alle cose.
La mappa sgualcita ci rivela estranei,
due pellegrini lontani un vento di distanza
alle soglie del mondo da varcare.
La bussola non indica la tempesta in mare
ma una terra di ragione
quella in cui le meteore restano immobili
e le strade sono linee rette di contorno.
Forse il cammino è stato vano
per noi che seguiamo l'istinto della corrente
ma almeno qui, a ridosso del crepaccio
e solo qui, ti ho incontrato.


Dopo aver letto quei versi, la luce dell'alba salì forte dietro l'ascensore e mi avvolse interamente, nel caldo abbraccio di un sogno.

Un vento di distanza Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora