Sogno
Il tempo della razionalità giunse nell'ascensore poco dopo, quando guardai con più attenzione il pannello dei bottoni: fino a quel momento, aveva prevalso in me l'istinto della scoperta, una sana e ingenua curiosità che mi aveva spinto a vivere quegli incontri nutrendomi della loro singolarità, come se ognuno di essi mi avesse potuto offrire una chiave di svolta. Seppur all'inizio titubante, l'abbandono aveva preso il sopravvento e le uniche cose che avevo deciso di tenere bene a mente erano state le parole di ognuno dei personaggi incontrati, tutti proiettati in un tempo che a stento si poteva definire tale.
Ora, invece, osservando l'ottavo bottone illuminarsi dopo averlo sfiorato, mi resi conto di quanto fossi giunto vicino all'ipotetica fine. O meglio, "fine" era il termine che ritenevo più adeguato, ma non necessariamente quello corretto, anche perché non sapevo assolutamente cosa sarebbe successo appena fossi arrivato al decimo bottone. "Fine" era, però, il termine che di norma tutti gli uomini utilizzavano per sottolineare la chiusura di qualcosa, il completamento di un processo di sviluppo, della costruzione di un progetto di vita o di morte. Per cui, era la parola che descriveva meglio ciò che pensavo sarebbe successo dopo, costruita su una neutralità quasi spettrale e inconsistente, nella forma asettica di quattro lettere e quattro suoni che possiedono il potere tagliente di una ghigliottina.
Quantomeno, sarei giunto all'incognita finale con la consapevolezza che un mondo in cui esiste l'Amore è sicuramente migliore di uno privo. L'incontro con il giovane innamorato ubriaco aveva smentito ogni forma di dubbio che l'assassino dell'Amore mi aveva fatto sorgere, pure in modo rabbioso. Non che fossero due ecosistemi distinti e separati, quelli di Amore e Odio, ma sicuramente una soluzione doveva esistere, o perlomeno la speranza di una soluzione doveva essere posta in cima alla lista dei doveri di ogni uomo, pena una vita di disperazione latente. Anche se il giovane stava sperimentando una delle conseguenze più tragiche della perdita dell'Amore, un Universo in mano all'Odio avrebbe avuto risvolti ben peggiori.
Sperai in cuor mio che un giorno, in una circostanza libera dagli schemi del tempo e delle ideologie, il giovane innamorato avesse avuto una conversazione con il carcerato per potergli dimostrare lo straordinario risultato che si ottiene portando avanti una battaglia con speranza.
Avevo fiducia che quel giovane tornasse ad avere fiducia.
E che comprendesse quanto fragile ma preziosa potesse essere una vita così.
L'ambiente che mi si presentò fuori dalla porta mi apparve, per la prima volta, coerente con il contesto abituale in cui di solito si trova un ascensore.
Mi trovavo, infatti, all'interno di un appartamento.
A giudicare dalla luce che proveniva da sinistra, sembrava che qualcuno avesse dato fuoco al tramonto: un caldo mantello rosso soffuso entrava dai vetri di una finestra, illuminando dolcemente un tavolo di legno circolare con quattro sedie e un vaso, che costituiva il centro del soggiorno che si sviluppava di fronte a me; alla destra del tavolo una porta socchiusa; in fondo un mobile di legno sotto un'altra finestra quadrata chiusa a metà da una tapparella che tentava, sprezzante del pericolo, di reggere i colpi infuocati del tramonto; sulle pareti pochi arredi, qualche credenza, una manciata di quadri e un orologio a pendolo vicino alla finestra in fondo che ritmava il tempo del silenzio. Alla sinistra del tavolo, un divano di pelle ocra.
Sul divano, qualcuno.
La figura era di spalle e la luce non la colpiva in modo diretto, ma ne proiettava sul pavimento lucido una sagoma dai contorni piccoli e dolci.
Tentai di avvicinarmi a passi cauti senza rompere l'equilibrio con il quale il ticchettio del pendolo teneva sotto controllo l'ambiente. Quando mi avvicinai al divano, il tepore della scia di luce della finestra in fondo mi riscaldò il cuore e riuscii ad osservare meglio i dettagli della figura che sedeva di fronte a me.
Era una signora. Una piccola donna, con i capelli grigi raccolti in una solida acconciatura attempata; inforcava degli occhiali da vista dorati sulla punta di un naso morbido, con una catenella che penzolava sul lato sinistro; rimasugli di un rossetto elegante si intravedevano ancora sulla linea delle labbra sottili, mentre le guance rotonde e il collo si erano già da tempo abbandonati all'avanzare dell'età. Portava due orecchini tondi d'oro fissati su entrambi i lobi e indossava una gonna nera sotto un cardigan di lana grigio.
La osservai mentre era intenta, come una moderna illusionista, a muovere le piccole mani sinuosamente nell'atto di infilare e sfilare di continuo un filo di lana in un ago, per poi ricongiungerlo ad un telaio di tessuto che avrebbe dato origine ad uno splendido maglione. L'abito era praticamente terminato.
Quando entrai nel suo raggio visivo, la signora smise di cucire, ma rimase con lo sguardo abbassato.
− Ciao, − mi salutò con voce dolce e pacata.
− S-salve signora, − ricambiai e nel frattempo con la coda dell'occhio tentavo di cogliere più dettagli possibili dell'ambiente in cui mi trovavo.
− Siediti pure, se vuoi, − mi disse e questa volta alzò gli occhi. Attraverso le spesse lenti degli occhiali, si scorgeva distintamente una pupilla vissuta, di un nero sgualcito dal tempo, come l'inchiostro delle antiche lettere d'amore fra innamorati oltreoceano; era accerchiata da un'iride verde inglobata in una bolla di rughe, pronte a insidiarsi, come regine illegittime, sul trono della gentilezza, caratteristica che quello sguardo sembrava possedere dalla nascita.
Mi sedetti a fianco a lei e la pelle del divano cominciò a modellarsi sulla forma del mio fondoschiena.
− Non so perché sono qui, − le dissi, come a voler giustificare la mia assurda presenza in casa sua.
− Non c'è nessun problema, gli ospiti vanno trattati sempre con accoglienza, − mi rispose sorridendo.
− Questa è casa sua, quindi? − chiesi allora, guardandomi attorno.
− Sì, ti piace?
− È molto carina, semplice e confortevole.
− Ti ringrazio. Vivo qui da quasi cinquant'anni e ho sempre cercato di renderla il più ospitale possibile.
− Cinquant'anni? Sono davvero tanti, − esclamai sorpreso.
La signora annuì, distolse lo sguardo da me e lo indirizzò al mobile di legno che si trovava di fronte a lei, sul quale erano state disposte alcune vecchie fotografie.
− Eh sì, ragazzo. Cinquant'anni... Da quando mi sono sposata con mio marito, ho sempre vissuto qui. E sembra che ormai io sia destinata anche a morirci, ma in fondo non è poi una cosa così negativa, no?
Mi prese un po' alla sprovvista, perché non mi aspettavo mi chiedesse un parere.
− Immagino che lei ci sia molto affezionata a questo posto, quindi sì, credo che non sia una cosa così male. E poi vivere fino alla fine insieme alla persona con cui si è stati tutta la vita, è una ricchezza non da poco.
− Ho perso mio marito qualche anno fa, in realtà, − rispose fissando sempre le foto. Sprofondai in un imbarazzo infinito.
− Mi dispiace, se lo avessi saputo non...
Non finii la frase, perché mi anticipò.
− Stai tranquillo, non potevi mica saperlo. E poi hai ragione, abbiamo vissuto sempre insieme qui, fino alla fine. Dopo ogni esperienza, ogni viaggio, ogni semplice giornata di lavoro, ci trovavamo qui io e lui su questo divano.
Si fermò per un secondo, poi sorrise e ironizzò:
− Devo dire che non mi è andata poi così tanto male.
Seguii la direzione del suo sguardo e giunsi anche io alle fotografie.
− Siete voi due laggiù?
Indicai una foto sulla destra, disposta in una cornice quadrata e che sembrava raffigurare due sagome abbracciate. La signora annuì.
− Sì. Non ho mai spostato quelle fotografie, a stento mi avvicino. Preferisco osservarle qui dal divano, soprattutto quando la luce del Sole non le illumina in modo diretto.
− Non vorrei essere indiscreto, ma per quale motivo non le guarda da vicino?
− Vedi, preferisco immaginarle come ricordi non nitidi della mia memoria. Guardandole da qui, è come se avessi solo un indizio su ciò che realmente raffigurano, qualche contorno di figure, dei paesaggi che sono troppo dettagliati per essere riconosciuti da qui. Vedi ragazzo, è come se mi trovassi su un trampolino: quelle foto mi danno una spinta, ma poi il salto voglio gestirlo da sola. Anche perché scontrarsi con dei ricordi lucidi fa davvero molto male, e non so se il mio vecchio cuore reggerebbe anche questo urto.
Rimasi fisso ad osservare da lontano quelle fotografie, immergendomi quanto più potevo nella condizione in cui si trovava la signora e mi venne in mente un paragone letterario. Sorrisi.
− A cosa stai pensando che ti fa ridere? − mi chiese la signora, mentre ricominciò a cucire il maglione.
− No niente, stavo pensando che la sua situazione è molto simile a quella di Giacomo Leopardi quando decise di stendersi dietro una siepe e preferì immaginarsi l'Universo che si espandeva al di là, piuttosto che osservarlo con i propri occhi. Però forse i paragoni letterari sono fuori luogo.
Mi grattai la nuca e sorrisi imbarazzato, ma la signora annuii incuriosita.
− Non è vero, anzi in questo caso hai proprio ragione. A me piaceva molto la letteratura da ragazza, tra l'altro. Soltanto quando si diventa vecchi, però, si comprende meglio quanto possa essere illimitata l'immaginazione. Io lo sto sperimentando così, permettendomi ancora il lusso di viaggiare pur rimanendo seduta su un divano di pelle ocra.
− Ha viaggiato tanto lei con suo marito?
La signora annuì nostalgicamente.
− Tantissimo. Il Giappone e la Thailandia erano le nostre mete preferite, ma abbiamo visitato diverse volte anche gli Stati Uniti. Sembravamo anime che sognavano, immerse in uno strato di incanto che ci seguiva dovunque andassimo; come delle nuvole che volano libere lungo il perimetro del cielo e compiono il giro della Terra più volte, incontrandosi come pellegrini lungo il tragitto.
− Lei sì che si è sentita davvero libera.
− Hai ragione, ma non pensare sia stato sempre piacevole.
− Davvero? − chiesi stranito.
− Essere liberi vuol dire anche avere delle responsabilità verso sé stessi, − disse. − Significa, ad esempio, stare costantemente di fronte al rischio di non riuscire più a ritrovarsi, al pericolo che la propria coscienza si dissolva e venga corrosa da un corpo sempre in movimento. C'è bisogno di una certa dose di coraggio per tenere testa a questi ostacoli; la cosa strana è che nel mio caso non l'ho dovuto cercare all'esterno, il coraggio. Mi è nato da dentro, una spinta che non ho controllato.
− Ha provato qualche volta la paura che il rischio fosse troppo alto da sostenere?
− No, mai, − mi rispose secca. Poi lentamente, tolse le mani rugose e piccole dal telaio di lana che stava sviluppando e indicò con un gesto l'intero appartamento, poi disse:
− Mi ha salvato questo. Vedi ragazzo, sapere di avere una casa per me voleva dire essere in possesso di una radice, che spuntava dal terreno e mi teneva legata alla terra. Voleva dire aver trovato un angolo del pianeta dove sentirmi al sicuro, una volta che io e mio marito ci saremmo accorti che il viaggio era un'esperienza che ci prosciugava le energie. Insomma, queste quattro mura davano un senso alla nostra esistenza come individui; il viaggio, invece, alla nostra esistenza come anime.
Lasciai che per qualche secondo il pendolo riprendesse in mano il possesso dell'ambiente e ci lasciammo cullare da quel suono asettico, che in quel momento ci appariva la più romantica canzone d'amore. Quando osservai di nuovo il volto della signora, vidi che stava piangendo, ma il suo era un pianto immobile, come se ogni muscolo del suo viso si fosse immobilizzato nell'osservare i contorni sfumati delle fotografie sul mobile di fronte, e soltanto gli occhi fossero autorizzati a parlare.
− Le manca, vero?
Quando mi rispose, il tono della sua voce non venne scomposto dalle lacrime.
− Mi manca lui qui. Questa casa aveva senso se vissuta da entrambi. Una volta rimasta sola, le mie difese si sono indebolite molto e ora se uscissi, mi sentirei nuda verso il mondo. Le volte in cui mi vedo più scoperta del solito, tocco ogni oggetto di questa casa, perché so che ci troverò lui. E mi sento al caldo.
Mi emozionai.
− È una cosa molto bella. Siete riusciti a cristallizzare un amore lungo una vita.
La signora mosse il viso bagnato verso l'alto e fissò il soffitto.
− Questa casa è l'ultima cosa che mi resta di lui. Se la lasciassi, avrei perso tutto. Mi sarebbe piaciuto che la morte ci colpisse insieme, per abbandonare il palco allo stesso modo di quando ci eravamo saliti, ma non è stato così. La vita segue binari suoi, un suo viaggio unico e inconciliabile con i nostri.
Poi sbuffò e concluse: − Ma a volte, Dio mio, sembra una maledizione senza fine.
Abbassò lo sguardo e riprese il lavoro di cucito, in assoluto silenzio.
Tornò il regno del pendolo: la luce infuocata del tramonto stava per scomparire definitivamente, rendendo l'interno dell'appartamento un bozzolo di buio romantico, in cui la signora sfilacciava e ricomponeva, giorno dopo giorno, le trame del suo eterno amore. Il vigore rosso con il quale il Sole aveva bagnato quelle quattro mura era sparito, lasciando il posto ad un'intima nostalgia.
Sentii dietro di me il rumore metallico dell'ascensore che si apriva.
Guardare la signora cucire la lana, come una Penelope che aspetta eternamente il suo Ulisse, mi scompose da dentro. Di lì a qualche minuto io sarei andato via, mentre lei avrebbe continuato a combattere da sola le conseguenze atroci della libertà. Sarei rimasto lì su quel divano per ore ad ascoltare il lento susseguirsi di un amore, ad innaffiare volentieri la radice che teneva ancorata la signora alla realtà.
Quando mi alzai dal divano, la signora terminò di cucire il maglione. Staccò l'ago e lo alzò davanti a sé per guardarlo meglio. Era di un blu cobalto.
− Per chi è, signora? − le chiesi.
Lei mi guardò, ma questa volta il nero della sua pupilla luccicava denso e vivo.
− È per mio marito, − rispose.
Quell'ultima frase sembrò scandire come una sentenza l'inizio di un incantesimo e la fine della nostra conversazione. Sul retro del maglione, infatti, la lana cominciò a muoversi, i nodi della cucitura diventarono densi, dotati di un proprio volume.
In pochi secondi, si modellarono a formare delle lettere.
E poi delle frasi.
QUALCOSA DI GRANDE
A te serve un ambiente dove stare
non una casa in cui abitare
a te serve la goccia traboccata dal vaso
la nuvola che ti fa visita sotto le coperte
di un letto nella casa del focolare
da dove hai imparato a volare
da dove hai visto tutti gli ambienti in cui stare
che servono a te.
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Un vento di distanza
Fiction généraleSimone è un libraio di trent'anni, ama il suo lavoro, ma si guarda allo specchio consapevole che l'equilibrio raggiunto dalla sua solitudine avrebbe bisogno di una rivoluzione. Qualche anno dopo aver pubblicato una raccolta di poesie, spinto dal des...