TREDICI

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Sogno

Passava sempre qualche secondo di sospensione nel vuoto fra il momento in cui l'ascensore si fermava a quando si aprivano le porte. In quel minuscolo lasso di tempo speravo sempre fosse la volta buona di rivedere la porta di casa, che quell'assurda dimensione in cui mi trovavo finalmente scomparisse.
Venni, però, smentito ancora una volta.
Mi trovavo in un bar. Una sensazione di calore soffuso entrò nel vano dell'ascensore dolce come un vento estivo, accompagnata da una luce calda altrettanto debole da rendere visibile solo una porzione di bancone e lasciare nell'oscurità il resto del locale, sfumandone i contorni come fa un artista con gli angoli di un quadro.
Dal punto in cui mi trovavo, riuscivo a scorgere una decina di tavoli di legno rotondi con tre o quattro sedie ciascuno, sopra i quali si trovavano delle candele, alcune spente ed altre accese, che facevano atmosfera; un bancone lungo di marmo scuro sopra una base anch'essa di legno, intarsiata agli orli come i capitelli greci, con davanti alcuni sgabelli; sulla parete in fondo due mensole marroni lunghissime dove si trovavano le bottiglie degli alcolici e diversi set di bicchieri di vetro; al centro del muro un grosso specchio quadrato.
C'erano quattro persone: due uomini seduti in tavoli diversi, che non sembravano essersi accorti di me, intenti a sorseggiare degli amari e immersi nei loro pensieri; una donna dai capelli lunghi seduta su uno degli sgabelli al bancone che giocherellava con il dito sull'orlo del suo bicchiere, la quale si voltò non appena sentì la porta dell'ascensore aprirsi; il barista, capelli lunghi e bianchi, vestito da maggiordomo in giacca e cravatta scure e camicia bianca, apparentemente uscito da un manga giapponese, intento a lucidare un calice di vetro in un panno pulito. Anch'egli voltò lentamente lo sguardo nella mia direzione.
Feci un passo in avanti, mentre l'ascensore dietro di me cominciava a chiudersi, e in quell'immortale silenzio il suono delle mie scarpe sul linoleum sembrò il rumore più potente mai esistito. I due uomini ai tavoli non diedero comunque segno di accorgersi di nulla, quindi mi avvicinai al bancone, sfidando con poca convinzione gli sguardi sfuggenti del barista e della donna.
− Salve, − esordii timidamente.
− Buonasera, – rispose il barista. La sua voce trasmetteva calma e pacatezza. La donna non disse niente. Mi guardai attorno per qualche secondo.
– Dove mi trovo?
Con un movimento impercettibile, il barista puntò il suo sguardo su di me e in quel momento mi accorsi del colore delle sue iridi: bianche, come se fossero immerse in una tempesta di neve e ghiaccio, avvolte in una scia di candore. Mi rispose continuando, lentamente e con precisione, a lucidare il bicchiere che aveva fra le mani.
− Sei nel posto in cui dovevi essere, evidentemente.
− E voi chi siete? − chiesi rivolgendomi anche alla donna.
− Io sono il gestore di questo locale, puoi chiamarmi Roy.
La donna di fianco a me non rispose alla domanda, ma mi fissò intensamente per la prima volta. Aveva un viso spigoloso e di ghiaccio; stava con la testa curvata in avanti, cosicché i lunghi capelli bordò le ricadevano sul bancone, dando l'idea di una criniera spettinata, ma eternamente fiera. Giocherellava ancora con il dito sul bordo del bicchiere.
− La stava aspettando qualcuno? − mi chiese. La sua era una voce passionale.
Fra le tante domande che potevano essermi rivolte, quella era sicuramente la più strana.
− In realtà no. Non so neanche il motivo per cui mi trovo qui...
La donna non sembrava soddisfatta della risposta, ma non si mostrò delusa, anzi accennò un sorriso ironico.
− Ci pensi bene, − mi disse. − Forse è proprio nella sua insicurezza che risiede la risposta.
− A dire la verità, in questo momento è lei che mi sta generando insicurezza.
La donna sorrise e appena scorsi il profilo della sua dentatura, un lungo brivido mi percorse la schiena.
− Ha ragione, me lo dicono in molti.
Dopo qualche secondo di silenzio, fu Roy a rivolgermi la parola, mentre metteva a posto il bicchiere appena lucidato sulla mensola alle sue spalle.
− Desidera bere qualcosa? − mi chiese, con il tono affabile dei baristi.
Guardai per un attimo il bicchiere della donna: il colore ambrato del liquido, che avvolgeva teneramente quattro cubetti di ghiaccio, consapevoli da tempo del loro ingrato destino, mi sembrava del buon whisky.
− Quello che ha preso la signora, − risposi.
− "Signora" addirittura, la ringrazio per questo omaggio, è un'onorificenza non da poco, − intervenne lei.
Le sorrisi; poi, il mio sguardo superò la sua figura e si soffermò sui due uomini che avevo notato seduti nel locale.
− Ma loro non si sono accorti di me? − chiesi ai miei interlocutori. − Non hanno mai rivolto lo sguardo verso questa parte.
− Come pretendi possano farlo? − rispose Roy di spalle mentre preparava il mio ordine.
− In che senso?
− Loro sono uomini, hanno paura e qui dentro sono delle comparse. È come se stessero svolgendo un cameo, perciò non conoscono la storia principale.
Il mio cervello era rimasto bloccato alla prima frase.
− Che significa sono uomini? Perché, noi cosa siamo?
− Troppe domande, signore, − intervenne la donna accentuando il tono sull'appellativo finale. − Piuttosto, vedo che anche a lei piace il whisky.
− Sì, ha un sapore intenso e pervasivo; già soltanto ammirandone il colore percepisco una sensazione strana, ma piacevole.
La donna annuì.
− È l'unico alcolico che riesce a svegliare il mio corpo, come se venissi trapassata da delle scariche elettriche o mi si bloccasse il respiro in gola. E questo mi eccita.
− Lei si eccita in questo modo? − le chiesi, ipnotizzato dal bicchiere che il barista mi aveva messo davanti. − A me sembrava più il racconto di una tortura.
− Se non si ricerca l'estremo, cosa si vive a fare? − disse lei.
Preso da un'improvvisa forza istintuale, afferrai il bicchiere, percepii tra le dita il freddo dell'alcool che voleva comunicarmi la sua essenza attraverso la sottile barriera di vetro che ci separava, e ne bevvi un sorso: questa volta, a differenza delle altre in cui mi era capitato di assaggiare del whisky, fu come essere trasportato in una dimensione extrasensoriale. Il flusso di whisky che mi percorse la gola fu come un fiume di lava purificatore: si abbatté feroce su ogni singolo angolo della mia coscienza, radendo al suolo il terreno incolto dei miei pensieri, ma allo stesso tempo conferendogli nuova vita; lo sconquassò da dentro violentemente, ma con efficacia.
− Buono, vero?
Solo la voce della donna mi riportò alla realtà.
− Non avevo mai assaggiato un whisky del genere, cosa c'era dentro? − chiesi a Roy, sconvolto e con la voce ancora provata.
Il barista, che nel frattempo aveva preso fra le mani un altro bicchiere da lucidare, sorrise.
− Ti ringrazio. In realtà, è classico whisky inglese; hai notato un sapore particolare?
− Non è proprio una questione di sapore, piuttosto di sensazione. Mi sembrava di stare in una tempesta di fulmini nel bel mezzo dell'oceano, − ironizzai per cercare di adeguarmi alle descrizioni della donna.
La donna sogghignò.
− Ha usato una bella immagine e devo dire che ci ha azzeccato, sembra proprio una tempesta.
− Lei sente questo ogni volta che lo beve?
Quasi come a volermene dare una dimostrazione concreta, prese il bicchiere e sorseggiò ciò che ne rimaneva.
− Sì, certo. A volte la sento addosso la tempesta, altre volte mi sento farne parte. È un'allucinazione, ma che posso toccare.
− E non ne ha paura?
− Paura?
− Sì, paura.
− Perché dovrei averne?
− Forse perché è una cosa che va oltre una semplice bevuta o perché semplicemente... è strano.
− Lei ha paura delle cose strane?
Mi voltai istintivamente a guardare l'ascensore e lo indicai.
− Io ho paura di quello, di cosa può succedermi per colpa di quella cosa senza che io me ne renda conto.
Roy e la donna guardarono insieme la porta chiusa dell'ascensore grigio, che sembrava essere lì da sempre e contemporaneamente non esserci mai stato.
− Non devi averne, − mi rispose Roy, chiudendo gli occhi. − La paura è una scorciatoia per chi non ha voglia di avere il coraggio di conoscere le cose.
− Ma prima vi ho fatto delle domande e non mi avete risposto...
Roy aprì gli occhi.
− Conoscere le cose vuol dire sentirle, non chiederle, né vederle − e fece un cenno con la testa rivolto al bicchiere di whisky. Poi continuò:
− Qui dentro le cose vanno sentite. La tempesta, il fulmine, il sentirsi nudo e preda del vento, il whisky... Sono tutte cose che vanno sentite. Solo così puoi capirle.
Poi intervenne la donna.
− Il trucco è imparare ad annegare.
− Imparare ad annegare? − ripetei sconvolto.
− Sì, diciamo avere il coraggio di farlo senza provare paura. È per questo motivo che i due qui dietro non possono vederla: hanno paura di morire, − e indicò gli individui seduti ai due diversi tavoli.
− Come fate voi a non averne, allora? Siete fatti della stessa carne di quegli uomini... e mia.
− Io non posso averne, − mi dice lei. − La traghetto, la paura.
− E io la ospito, − si agganciò Roy, che mi sorrideva anche questa volta.
Sgranai gli occhi, ma non posso dire con certezza che in quel momento stessi provando della vera paura. Più che altro, mi trovavo in uno stato di ubriachezza dei sensi e della ragione, in cui i miei occhi non riuscivano a non considerare i due individui che avevo davanti degli esseri umani come me. Per un attimo pensai si trattasse di un gioco, di uno scherzo, una supercazzola inventata solo per mandarmi ancora più in confusione di quanto non lo fossi già; nonostante ciò, la parte forse più istintuale di cui ero composto aveva capito la situazione.
La donna fece un giro rapido sullo sgabello, si alzò e fece due passi: in questo modo riuscii ad ammirare le linee sinuose che trasformavano il suo involucro di carne in un perfetto corpo scultoreo; la criniera ramata della fiera leonessa che ondeggiava libera sulla schiena, dei pantaloni neri ultra-attillati e degli stivaloni di pelle scura che lentamente ne scandivano il passo felpato.
Quando parlò, rimase di spalle.
− Lei ha paura di me?
Deglutii.
− Lei... lei è la Morte... − dissi infine, con il fiato corto.
Si girò e mi fissò, poi allargò le braccia.
− Hanno sempre un nome le cose che fanno paura, − disse e abbozzò un sorriso.
− Ma... ma come fa ad essere qui? E perché anche io sono qui? Che posto è questo? Sono morto, quindi? Perciò...
Tirai fuori il mio malessere tutto d'un fiato e di scatto mi alzai dallo sgabello vacillante, finché Roy non mi interruppe.
− Ehi, ehi, calmati. Non devi agitarti, non sei morto.
La sua voce, dolce e calda, in quel momento mi apparve l'unico porto sicuro dove rifugiarmi. Mentre parlava, Roy continuava tranquillamente a lucidare il suo bicchiere, chiudendo e aprendo gli occhi con lenta regolarità, come se nulla di quello che stesse accadendo lo turbasse più di tanto.
− Cosa cambia per te sapere lei chi è? È la stessa donna con la quale poco fa hai condiviso un whisky e con la quale stavi iniziando una conoscenza.
− Ma certo che cambia! Lei... non è umana!
− Come fai a stabilire cosa sia umano e cosa no? − mi chiese la donna, mantenendo stabile il suo sorriso.
− La carne è umana! La pelle è umana! Il cuore che batte è umano! Lei è... un'entità.
− Un'entità? Ne sei così convinto?
Annuii fortissimo, più per convincere me di ciò che stavo dicendo, piuttosto che lei.
− Quindi le emozioni non sono umane? Le sensazioni, i profumi, gli odori, i baci, le paure, gli amori, le lacrime... Nulla di questo per lei è umano?
Ero ancora in piedi, ma il battito cardiaco aveva ripreso il suo corso regolare, consolato probabilmente dal suono di quella voce che faticavo a non considerare umana. Poi risposi:
− Non nascono come elementi umani, ma lo diventano. Quando proviamo paura, tristezza, gioia, delusione o quando sentiamo un profumo o un odore, ci mettiamo in relazione con qualcos'altro o qualcun altro e assorbiamo sul nostro corpo le percezioni che riceviamo.
− Lei ha un concetto di conoscenza molto simile a quello di Lucrezio. Lo conosce? − mi chiese.
Feci no con la testa.
− Era un autore latino del I secolo Avanti Cristo. Ha avuto una vita abbastanza travagliata, è morto suicida poco dopo aver compiuto i quarant'anni ed è rimasto sempre molto isolato da tutto quello che nel mondo attorno a lui succedeva; ancora oggi viene considerato una perla nel panorama letterario mondiale. La sua opera maestra si intitolava De rerum natura e in uno dei capitoli affronta proprio il tema della conoscenza, affermando che essa si realizza tramite uno scontro diretto delle percezioni, emanate dalle cose che ci circondano, e la nostra pelle: come se noi passivamente venissimo inondati da un fiume di stimoli esterni, senza quasi esserne consapevoli del tutto.
− Quindi non sono l'unico a vederla in questo modo!
La donna sorrise.
− No, certo. È difficile trovare al mondo un'idea che non sia stata condivisa da almeno un'altra persona. Però vede, a volte subentra l'esperienza e quando succede, i punti di vista possono cambiare anche di molto.
− Che cosa sta cercando di dirmi?
A quel punto intervenne Roy, che stava mettendo a posto l'ennesimo bicchiere lucidato.
− Credo ti stia semplicemente dicendo che la sua esperienza da Morte le ha permesso di mettersi su un piano diverso rispetto a quello in cui sei tu. All'inizio nemmeno io ero riuscito bene a comprendere cosa volesse dirmi e che immagini utilizzasse per raccontare le cose, ma ormai si trova qui da diverso tempo e bisogna solo prestare l'orecchio, non è vero?
Roy si voltò, guardò la donna e lei sorrise.
− In realtà non ne ho imparate molte di cose, anzi a dirla mi è bastato capirne una, che è ancora quella che mi accompagna nel mio "lavoro": prendere coscienza che ogni singola sensazione vi appartenga.
− Vi?
− Sì, a voi uomini. Io la paura la traghetto e basta; la sposto da un punto all'altro del vostro corpo, ma non la inietto come una siringa. Semplicemente la trasporto dal punto più profondo e dimenticato dello stomaco alla parte più alta del cuore. Ma lo stesso discorso vale per ognuno di quelli che lei ha chiamato "elementi non umani".
− Come fa a sentirsi a posto con la sua coscienza? Ma è a conoscenza del dolore che la gente prova per colpa sua?!
Incattivii il mio tono di voce nel tentativo di mostrarmi sicuro di me.
− Io non ho una coscienza, − mi rispose pacata. − Io non posso prescindere dallo scopo per cui esisto e dai sentimenti che trasporto. La soluzione può stare solo in voi, nel vostro modo di percepirmi e vedermi. Per questo motivo la conoscenza non è passiva, perché viene influenzata da una variabile fondamentale, cioè il punto di vista che voi uomini avete su ciò che vi circonda e vi capita.
Passò qualche secondo di silenzio, prima che Roy chiudesse il ragionamento.
− Imparare ad annegare, ricordi? − disse profeticamente mentre sentivo i suoi occhi di ghiaccio trafiggermi l'anima come pugnali.
− Come posso avere un pensiero positivo su una cosa del genere? È impossibile!
− Non si tratta di questo, infatti, − riprese la donna. − "Imparare" non vuol dire avere un pensiero positivo su qualcosa, ma prenderne coscienza. L'annegamento è una delle situazioni più brutte in cui una persona può incontrarmi, perché è una situazione in cui non si può avere il controllo su niente; semplicemente, si è assaliti dalla paura e si sente che ogni particella del proprio respiro vitale sta per scomparire. È un dolore acuto e lento, che porta via la vita a mano a mano, come una tortura che logora il corpo. Ma una strada, nell'abisso, c'è sempre. Bisogna solo trovarla.
− Forse per lei è facile parlare perché non le vive direttamente queste situazioni.
− Io non posso viverle, ma le percepisco, le sento, perché le trasporto. Le maneggio, le soppeso, le bilancio e so perfettamente quanto sia difficile per voi riuscire in un lavoro del genere, me lo ha dimostrato anche lei poco fa quando ha bevuto il whisky e ha percepito con i suoi sensi tutto ciò che le ho detto: se si riesce a trovare la goccia inesplosa in mezzo a quel freddo buio, allora ci si può salvare.
Solo a questo punto della conversazione, quando anche il mio corpo percepì che ci stavamo avvicinando alla fine, decisi di sedermi nuovamente al bancone; mi accorsi che era rimasto ancora un po' di whisky nel mio bicchiere.
− Non so se ne sono così tanto capace, − dissi. La mia voce uscì flebile, rassegnata.
− Non deve preoccuparsi di questo. Come vede, lì dietro ci sono due uomini che vivono nel suo stesso modo. A dire il vero, tutte le persone incontrano nella loro vita le stesse difficoltà, solo che le chiamano in modi diversi e cercano di trovare delle cause diverse, spesso che fanno loro comodo. Si riempiono le orecchie di parole, di discorsi, monologhi interiori, per attutire il rumore del silenzio, per trovare una distrazione mentre affondano. Ma è il suono del fondo che va ascoltato e accettato.
Il mio sguardo si sciolse fra le gocce di whisky del mio bicchiere, così come stava capitando ai quattro cubetti di ghiaccio che Roy aveva messo dentro.
− Allora, che si fa? Lo finiamo di bere? − mi chiese il barista sorridendo, ormai cristallizzato in una postura eretta, quasi perennemente immobile e cauto, come la sua anima.
Presi il bicchiere e ingoiai il whisky rimasto in un unico sorso, percependo come la prima volta che nella mia bocca − e non solo lì − stesse avvenendo una delle battaglie più sanguinose e cruente di sempre.
Porsi il bicchiere a Roy.
− Grazie, − dissi e tamburellai le dita sulla superficie del bancone per qualche secondo, mentre vedevo il barista sistemare i bicchieri sporchi nel lavello.
− E tu Roy, cosa ci fai qui? Chi sei?
Nel frattempo, il rumore degli stivaloni della donna si avvicinava sempre più a noi, finché non vidi comparire la sua figura alla mia destra, nella stessa posizione dell'inizio.
− Cosa cambia per te sapere chi sono?
Ripeté, quasi simbolicamente, la domanda che mi aveva fatto prima, rimanendo ad occhi chiusi, poi continuò:
− Sono solo qualcuno che dovevi incontrare in questo momento e in questo luogo. Il valore non lo fanno le etichette, ma i gesti che compi. Io, dal canto mio, sono solo uno che versa del whisky ai clienti e questo mi basta.
Concluse la frase riaprendo lentamente quello sguardo sferzato da una ciocca di capelli bianco-neve che contribuivano a renderlo un personaggio fiabesco.
Passarono pochi secondi di silenzio in cui non sapevo cosa dire, ma sembrava che il destino avesse percepito la mia difficoltà, perché d'un tratto sentii dietro di me un rumore di ferraglia che mi risultò rapidamente familiare. Mi voltai e la porta dell'ascensore si stava lentamente aprendo, facendone intravederne l'interno di velluto rosso che ormai sembrava essere diventato la mia seconda casa.
− Allora arrivederci, − dissi rivolgendomi ad entrambi.
− Arrivederci, − rispose Roy, mentre riempiva nuovamente di whisky il bicchiere della donna.
− Addio, − rispose la donna.
Mi alzai e arrivai alla soglia dell'ascensore e mi fermai. Qualcosa dentro di me − quel vivo e incontrastato istinto − mi spinse a voltarmi.
La donna e Roy si trovavano nelle stesse posizioni di quando ero entrato: lui a lucidare un bicchiere, immerso nei suoi pensieri d'argento come i suoi occhi; lei ricurva sul bancone, a tamburellare le dita sul bordo del bicchiere con la chioma da leonessa che le ricadeva davanti.
Spostai lo sguardo dietro di loro e anche i due uomini seduti sembravano essere tornati nella posizione iniziale − sempre se l'avessero cambiata.
Per loro è stato un sogno, un cortometraggio, la solita sceneggiatura.
Roy e la donna non mi guardavano più, forse per loro ero davvero scomparso. Respirai profondamente e feci per voltarmi, ma improvvisamente la tenue luce che fino a quel momento aveva illuminato il bar si spense del tutto, le figure al suo interno vennero divorate dal buio e nel punto in cui si trovava lo specchio alle spalle di Roy, una luce cominciò a scrivere.

Annegare
è un'arte da imparare,
farsi strada nell'oscuro
abisso di sé, trovare
la goccia inesplosa
che cade contro corrente.
A negare
Il mare ci vuole coraggio,
è la scorciatoia di chi sale
per respirare e preferisce
il silenzio
al ruggito scomodo
del fondo.

Un vento di distanza Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora