DODICI

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Giorno

Anche dopo quell'occasione il risveglio fu brusco.
Era da poco spuntata l'alba e l'attacco di panico che mi prese deformò i contorni di tutto ciò che avevo attorno; la stanza non smetteva di girare e il caldo era opprimente. Feci affidamento al più piccolo frammento di razionalità che in me ancora girovagava in fuga dalla disperazione, strinsi forte gli occhi mentre il sudore mi imperlava il volto e mi costrinsi a respirare più lentamente.
Avevo la mente occupata in ogni suo angolo dal nulla, non riuscivo a trovare un'immagine solida, un pensiero che facesse da àncora e non mi lasciasse sprofondare, per cui tentai la soluzione concreta: uscii dal letto completamente avvolto dai brividi nonostante la temperatura estiva e corsi in bagno. Puntai la manopola del rubinetto interamente su FREDDO e gettai in viso e sul collo quanta più acqua possibile. Lo shock termico fece abbassare la frequenza cardiaca e i miei respiri annaspanti si calmarono un po'.
Alzai lo sguardo e guardai nello specchio chi avessi di fronte, senza riconoscermi: le due ampie fosse attorno alle labbra facevano apparire il mio viso molto più magro di quanto fosse in realtà. Mentre ansimavo come dopo una maratona infinita, mi asciugai lentamente e ripresi il controllo dei polmoni e del cuore.
Questa è stata la peggiore pensai. Effettivamente era vero: mai, da quando era cominciato quell'assurdo viaggio nei miei sogni notturni, avevo subìto un risveglio così drastico. Mi consideravo una persona abbastanza ansiosa, ma una reazione così forte non mi era mai capitata.
Non era neanche un incubo...
Tornai in camera con la maglietta ancora fradicia di sudore, alzai le tapparelle e spalancai la finestra per evacuare l'ambiente dall'aria negativa e pesante che stava per stagnarsi lì dentro, poi mi sedetti nuovamente sul letto. Non sapevo se provare rabbia, disperazione o folle rassegnazione. L'incontro con Prof. aveva causato in me una specie di trasfigurazione: il processo di costruzione di un'ipotesi, di solito, comincia a generare spavento quando da casuale diventa paurosamente costante, quando quelle che inizialmente si pensa siano coincidenze fortuite assumono forme reali e quindi spaventose. Prof. aveva scandagliato nel profondo molti aspetti della mia coscienza tenuti involontariamente nascosti, aveva aperto dei varchi laddove ero sempre stato convinto ci fossero dei muri e mi aveva fatto vedere che in fondo a queste aperture c'era una strada puntata verso uno scopo.
Mi sedetti un istante, corrugai la fronte e fissai insistentemente il cassetto chiuso alla ricerca di risposte insperate, ma mi sentivo in gabbia perché solo da sveglio mi rendevo conto di ricordare. Ogni singolo sogno era diverso e totalmente scollegato rispetto a quello precedente, mentre invece nella mia testa il puzzle di quegli incontri era ben chiaro. La risposta dovevo trovarla fuori.
Forse Prof. era la persona giusta, forse lui avrebbe potuto spiegarmi del gabbiano, dell'acrobata, dell'ascensore...
Era come se ognuno di quei sogni fosse una dimensione alternativa in cui la mia coscienza si trovasse catapultata improvvisamente ogni volta, vergine e incontaminata. Se fino a qualche settimana prima tutto ciò mi intimoriva e speravo finisse presto, in quel momento, nel silenzio assordante di camera mia, dove l'unico suono era quello del mio respiro pesante, mi resi conto di averne bisogno, come quando si finisce di guardare un film dal finale aperto e si desidera avidamente conoscerne la conclusione.
Questa era la mia di conclusione e paradossalmente non ne avevo il controllo.

Mi alzai e sistemai il letto, lasciai la finestra spalancata e andai in bagno per lavarmi e gettare nel cestino dei panni sporchi la maglietta e i pantaloncini con cui avevo dormito.
Fu la doccia più rigenerante che io avessi mai fatto: al contatto con l'acqua gelida respirai profondamente tre volte. Ogni singola goccia d'acqua fredda, nel toccare la mia pelle, mi gonfiò i polmoni come si fa con un palloncino, permettendo loro di tornare a respirare normalmente. Scrostare il sudore di quel sogno dal mio corpo equivaleva, anche solo per pochi minuti, a sentirmi libero dalle catene in cui il destino aveva deciso di bloccarmi. Non ero in grado di trovare nessun lato positivo in quello che mi stava succedendo.
Non sto vivendo degli incubi, ma i miei risvegli sono comunque traumatici; mi sembra di essere il protagonista di un videogioco e anche gli incontri in libreria sembrano volermi dire qualcosa di più. Cos'altro deve succedermi? pensai mentre indossavo gli abiti puliti per l'inizio della giornata.

Quel giorno aprire la libreria fu molto più complicato del previsto: ritrovai come sempre l'ambiente fresco, su cui i venti delle notti estive, insinuandosi fra le fessure delle saracinesche abbassate, facevano sempre effetto; ma questa volta, l'odore inebriante dei libri mi penetrò più nel profondo. Fu come se una corrente d'aria velocissima e fredda fosse entrata nelle mie narici e si fosse sparpagliata in ogni anfratto del mio corpo, provocandomi brividi. Le copertine dei romanzi che avevo di fronte mi accecarono, ma non come i raggi del Sole quando li guardi fissamente. La potenza di quella luce era diversa, quasi impercettibile, ma allo stesso tempo devastante e che agiva sulla mia coscienza, piuttosto che sul mio sguardo.
Furono due sensazioni momentanee, di un istante, ma sembrarono durare un'eternità.
Spazzai il pavimento, attivai il registratore di cassa e il programma di vendite al pc, poi alzai le saracinesche laterali. Tutto con estrema calma, come un ubriaco che, muovendosi, cerca di non fare danni. Prima di sedermi dietro al bancone, andai sul retro per accendere il quadro elettrico e per prendere il libro che in quel periodo stavo per terminare di leggere, un romanzo dello scrittore giapponese Haruki Murakami.
Ero da sempre abituato a fare scelte di lettura molto diverse fra loro anche in periodi ravvicinati: non ho mai avuto un genere letterario preferito, ma sicuramente passare da un thriller psicologico ad un'opera appartenente alla corrente del realismo magico giapponese, voleva dire visitare due universi lontani tra loro anni luce.
Il libro si intitolava Kafka sulla spiaggia e l'autore si stava dimostrando un fedelissimo compagno di giornate: lo avevo conosciuto grazie alla lettura di Norwegian Wood qualche anno prima, la quale non mi aveva entusiasmato più di tanto, anche se nel suo stile di scrittura così onirico e sensoriale avevo intravisto una scintilla di poesia che mi sarebbe piaciuto riapprofondire. La scelta di Kafka sulla spiaggia fu una casualità: il titolo così enigmatico, la copertina tradizionalmente simbolica e la scelta di due personaggi apparentemente molto distanti mi convinsero.
Non ero a conoscenza, o forse il destino aveva già deciso per me, che in quella storia avrei potuto ritrovare molto di ciò che mi stava capitando: Kafka sulla spiaggia stava risultando anche ora, arrivato alle battute finali, un viaggio percettivo nella coscienza di ognuno dei personaggi. A tratti intangibile, crudo e sapiente, come solo le opere giapponesi sanno essere, mi aveva permesso di seguire il processo di trasformazione di un sogno lucido, in cui ognuno tenta di riscoprirsi e dare un senso alla propria esistenza.
Giungere alla conclusione di questa storia era per me ormai una necessità, un bisogno in cui rifugiarmi per tentare di ottenere delle risposte alle mie di domande, pur consapevole della grande ansia che mi incombeva addosso, pronta a spuntar fuori come un mostro sotto il letto.
Perciò, tornai al bancone di corsa, mi sedetti sullo sgabello, controllai che sulla soglia non fosse arrivato alcun cliente così mattiniero da venire a comprare dei libri all'ora di apertura, aprii il libro e cominciai a leggere gli ultimi capitoli del romanzo.

...un mondo nuovo.
Ho sempre pensato che le parole con cui si conclude una storia siano l'emblema della storia stessa, come un sigillo di ceralacca che racchiude un segreto in una busta e ne conferisce valore e autorità.
Rileggendo le ultime parole di Kafka sulla spiaggia rimasi folgorato dalla bellezza intangibile a cui l'autore mi aveva fatto assistere; fu come studiare le caratteristiche dell'Universo e accorgersi di conoscerlo talmente poco da non poter andare oltre, continuando però a rimanere affascinati proprio dai suoi misteri.
Ovviamente, posso solo immaginare in quale senso l'autore considerasse "nuovo" il mondo alla fine della sua storia, ma di sicuro una delle due persone che entrò poco dopo in libreria sapeva perfettamente in che modo vedere il suo di mondo. Dopo aver indugiato del tempo su quell'ultima pagina, chiusi il libro e lo risistemai nello scaffale originario.

− Buongiorno, − disse la signora che entrò.
− Ciao, − aggiunse il bimbo che le stava a fianco, salutandomi con la mano.
− Salve, – risposi cercando di sfoggiare il più ampio dei sorrisi.
− Possiamo dare un occhio? – mi chiese quella che presumibilmente era la mamma del bambino, mentre si avvicinavano al bancone.
Dimostrava poco più di trent'anni, aveva una voce leggera, i lineamenti della pelle erano dolci e ancora rigogliosi della forza della gioventù. Aveva lunghi capelli ramati che le ricadevano sulla vivace scollatura della camicia beige a maniche corte che indossava, gambe formose sotto i jeans, labbra sottili e un paio di occhiali da sole sull'attaccatura dei capelli. Ora che si trovava più vicina, un'ondata di profumo fresco alla lavanda mi inebriò le narici. Inspirai a fondo quell'essenza tentando di non farmi scoprire e mi sentii ricoperto da una patina di freschezza.
− Ma certo, guardate quello che volete. Il reparto "bimbi" è qui dietro alle mie spalle. Non ci metterete molto a consultarlo, come vedete la libreria è piuttosto piccola, − risposi e indicai dietro le mie spalle la zona, sorridendo al bimbo che mi sembrava ancora un po' intimorito.
Il piccolo abbozzò un sorriso di ricambio, ma sùbito deviò lo sguardo da me, staccò la manina da quella della madre dopo aver ricevuto indicazioni su dove poter trovare i libri che gli interessavano, e di corsa raggiunse la zona "bimbi". Aveva dei capelli scuri e corti, non arrivava a dieci anni di età, indossava una maglietta azzurra e in testa teneva un cappellino rosso estivo del cartone animato Cars: motori ruggenti.
Per un attimo mi ricordò il bambino della spiaggia: mi tornarono alla mente l'effetto epifanico che mi fecero i suoi occhi azzurri profondi quanto l'oceano e l'attimo in cui ero venuto a contatto con la poesia in una rivelazione simile a quella che ebbe Dante quando scoprì i segreti dell'Universo tramite la visione di Dio.
Insomma, la sensazione quasi trascendente che mi trasmise quel bimbo mi aveva talmente segnato da immaginarmi di ritrovarla in ogni essere simile a lui. L'assurdo legame che egli aveva deciso di tessere con me era simile a quello avuto nei miei incontri onirici notturni.
Ciò che è successo sulla spiaggia, però, appartiene alla realtà mi convincevo di pensare, nella speranza che la mia coscienza non cominciasse a mettere in dubbio anche la differenza fra reale e immaginato.
− Ovviamente per qualsiasi cosa, chiedete pure, – aggiunsi mentre mi avevano già superato.
− La ringrazio, – mi rispose la donna.
− Tranquilla, mi può dare tranquillamente del tu.
Lei sorrise. – Vale il viceversa, allora.
Ricambiai il sorriso e tornai a consultare l'archivio del pc, ma la concentrazione durò poco perché i due ospiti cominciarono a parlare fra di loro in merito a quali libri acquistare e non mi sembravano così d'accordo sulle scelte.
− Amore guarda questo, è Geronimo Stilton, lo leggono molti bimbi della tua età...
− No mamma, non mi piace questo, un topo non può parlare!
− E va bene, allora guarda questo, un'enciclopedia per bambini sulla scienza.
− Un'enci-che? No mamma, è difficile per me, cerchiamo altro.
Dopo qualche secondo di silenzio, in cui sentivo alle mie spalle solo il rumore dei libri presi e riposti negli scaffali, il copione riprese.
− E questo Nico? Il piccolo principe è famosissimo e parla anche di una volpe, un animale che ti piace tanto.
− Mamma questo ce lo ha fatto leggere la maestra a scuola l'anno scorso.
− Senti amore, ma cosa vorresti trovare qui? C'è qualcosa in particolare a cui stai pensando? Perché io non saprei proprio come aiutarti, – disse la mamma sospirando.
Sentii silenzio per un po', poi il bimbo disse: − Non lo so, mamma. Voglio qualcosa come quello che mi leggeva il nonno.
Altro silenzio.
− Intendi delle poesie?
− Sì esatto mamma, quelle.
− Ma amore, le poesie sono per grandi, ti annoieresti a leggerle perché sono difficili.
− Non è vero mamma, il nonno me le leggeva sempre le sue prima di andare a letto. Mi piacevano molto, non erano difficili.
Sentii la donna sospirare in segno di resa.
– Qui non vedo niente del genere, proviamo a chiedere al ragazzo, magari sa trovarci qualcosa. Che ne dici?
− Va bene, grazie.
Li sentii avvicinarsi e, una volta tornati al bancone, lasciai che mi facessero la domanda senza far intendere di aver ascoltato già tutto.
− Senti, per caso hai dei libri di poesie per bimbi della sua età? – disse la donna e indicò il bimbo.
Rispetto al fugace scambio di saluti di poco prima, il suo sguardo questa volta mi sembrava un po' più tranquillo. Spostai lo sguardo dallo schermo del pc e lo guardai sorridendo.
− Ti piacciono le poesie, piccolo?
Il bimbo annuì leggermente.
− Come ti chiami?
Non rispose sùbito, ma guardò la mamma come per ricevere l'approvazione; sorridendo, gli fece un cenno di incoraggiamento con la testa.
− Mi chiamo Nicolò, – e abbassò lo sguardo, come se mi avesse confidato il suo più grande segreto.
− È un bellissimo nome Nicolò. E dimmi, quanti anni hai?
Il bimbo non alzò la testa e mi accorsi che stava roteando la punta del piede sinistro, visibilmente in imbarazzo.
− Ho otto anni. − La sua voce sembrava quasi un sussurro.
− E come mai ti piacciono le poesie? È una cosa particolare alla tua età.
Fu qui che Nicolò alzò lo sguardo, come se fosse stato richiamato da qualcosa.
− Mio nonno me le leggeva prima di andare a dormire.
− Sì, − intervenne la mamma. – Mio padre si era accorto che l'unico modo per far addormentare Nicolò era leggergli le poesie. Provarci con favole e fiabe era un tentativo inutile.
Sorrisi alla donna, poi tornai a guardare il bambino.
− Tuo nonno scriveva poesie?
Nicolò annuì, questa volta vigorosamente, con fierezza.
– Sì, mi leggeva le sue poesie. Erano davvero belle, non erano difficili. Parlavano del mare, della montagna, di quando aveva conosciuto la nonna... e poi quando le leggeva, diceva spesso la parola "anima"; non gli ho mai chiesto cosa voleva dire, ma di sicuro era una cosa molto importante per lui perché la ripeteva tante volte. 
Le parole del bambino mi sconvolsero. Era riuscito nel modo più semplice e diretto a descrivere gli effetti trasfigurativi che la poesia poteva provocare su chi decideva di mettere la propria coscienza in ascolto. Era come se da ogni singolo poro della sua pelle venisse emanato, grezzo e dirompente, il fuoco pulsante che caratterizza ogni processo poetico. Una sensazione del genere la provai da adolescente, quando mi approcciai per la prima volta alla lettura, e poi alla scrittura di poesie; a otto anni non conoscevo neanche il significato della parola.
Mi sembrava di avere davanti una creatura mistica, ma mentre fantasticavo questi pensieri, Nicolò mi smentì con una domanda che mise in mostra tutta l'ingenuità e la purezza di cui un bambino di otto anni è composto.
− Mamma, che cos'è l'"anima"?
La donna lo guardò con gli occhi gonfi di affetto, poi si voltò verso di me in una silenziosa richiesta di aiuto nel trovare la risposta giusta. Poi, sembrò trovare la soluzione.
− Amore, l'anima è questa cosa qua.
Gli prese la manina e gliela appoggiò sulla parte sinistra del suo petto, a contatto col cuore.
− Lo senti questo rumore?
Il bambino corrugò la fronte, poco convinto.
− Mamma, ma qui c'è il cuore. Il nonno non diceva "cuore", diceva "anima".
I gomitoli di significato creati dall'ingenuità spesso erano i più difficili da sbrogliare in assoluto. La donna mi guardò nuovamente: era stato semplice arrivare al limite delle sue possibilità, non aveva una soluzione anche per questo.
− Nico, − iniziai, poi mi accorsi di aver avuto un istintivo eccesso di confidenza e aggiunsi: − Posso chiamarti Nico?
Annuì senza indugio. Allora ripresi: − Nico, c'è qualcosa nelle tue giornate che ti piacerebbe tanto toccare con le mani, o annusare con il naso, o ascoltare con le orecchie, ma non riesci a farlo perché è molto distante da te?
Il bimbo fece una smorfia di riflessione con la bocca e alzò gli occhi verso l'alto. Sapevo che fare una domanda del genere ad un bambino mi avrebbe fatto risultare incomprensibile forse, un adulto noioso e petulante. Ma ormai ero convinto che davanti a me ci fosse un essere vivente in grado di trasformarsi da creatura mistica a bambino senza che io me ne accorgessi, come un incantesimo che non si vede, ma di cui si percepiscono gli effetti.
Per questa folle convinzione, i miei occhi ora vedevano la creatura mistica.
− Il cielo, − disse. – È molto lontano e non riesco mai a toccarlo, anche se ci provo spesso quando vado con la mamma in giro. È lei che mi ha detto che il nonno sta lì. Oppure anche quando faccio volare l'aquilone sulla spiaggia con il papà, devo stare attento che non scappa via, se no lo perdo e non so dove va.
− Ecco, pensa che l'anima sia come il cielo o l'aquilone.
− Quindi non posso toccarla.
− Esatto.
Nicolò rifletté qualche secondo, non sembrava ancora del tutto convinto.
− Ma vale solo per me?
− No, − intervenne la mamma. – Vale per tutti: nessuno di noi ha questo superpotere.
− E come mai il nonno era riuscito a scriverla nelle sue poesie, se neanche lui la conosceva?
La mamma rivolse nuovamente lo sguardo verso di me.
− Perché la sentiva, − risposi io.
Nico aggrottò la fronte. – La sentiva?
Sospirai, intenerito.
− Tu Nico, quando tieni in mano un aquilone, senti qualcosa? Oppure quando guardi il cielo.
Il bimbo sorrise.
– Sì, sento che mi tira forte se c'è tanto vento.
Annuii.
– Esatto. E quella cosa che senti si chiama sensazione. Non la vedi, non la tocchi, non la ascolti, ma la senti.
Scandii ogni mia singola parola nell'arduo tentativo di spiegare ad un bambino di otto anni uno dei concetti più complessi, e allo stesso tempo più poetici che l'uomo avesse mai inventato.
Per qualche secondo ci fu un silenzio carico di riflessione.
− Quindi per il nonno l'anima era un aquilone? – chiese alla fine Nico.
Io e sua mamma non potemmo fare a meno di tradire un sorriso, ricco di tenerezza e spontaneità.
− Non hai tutti i torti, potremmo vederla anche così. Di sicuro tuo nonno sapeva controllarlo molto bene quell'aquilone, − gli risposi.
Nicolò annuì con forza, come se volesse dirmi "Puoi ben dirlo!"
Tornai a rivolgermi alla donna.
– Quindi cercate dei libri di poesie per bambini, giusto?
− Sì, le favole e le fiabe non vanno così tanto d'accordo con lui, lo avrai capito bene anche tu.
Uscii dal bancone e mi indirizzai verso il reparto in cui, fino a pochi minuti prima, si trovavano Nicolò e sua mamma. Trovai ciò che cercavo, però, solo nel magazzino sul retro, perché si trattava di un libricino talmente di nicchia che per questioni di spazio, avevo preferito non esporre l'unica copia di cui ero in possesso.
Porsi il libro a Nicolò.
− Le e-emozioni dei bambini: il gusto agr-agro-agrodolce delle poesie − lesse a ripetizione. Poi il volumetto lo prese la mamma, che lo soppesò fra le mani e mi guardò compiaciuta.
− Sembra ciò che fa al caso nostro.
− Credo di sì. Anche se si tratta di un libricino un po' vecchio, è stato scritto da una giornalista italiana diventata una maestra nel saper cogliere i sentimenti dei bambini. Queste cinquanta pagine riflettono le emozioni, le esperienze, le sensazioni di quell'età attraverso la scrittura poetica, che di norma viene più utilizzata dagli adulti. Spero possa piacergli. Non è vero Nico?
Il bimbo mi guardò intensamente, riprese in mano il libro e si girò verso la mamma.
− Mamma cosa vuol dire "agrodolce"? − chiese, faticando a pronunciare correttamente la parola.
− È un gusto, tesoro.
− E che sapore ha?
− È fatto da due diversi gusti, – intervenni. − L'agro, che è il gusto del limone, e il dolce, tipo quello di un pasticcino. Tutti e due combattono fra di loro perché vogliono vincere uno sull'altro per farsi sentire di più nella bocca di chi assaggia. Ma non sempre esce fuori un vincitore: in questi casi c'è equilibrio, come una partita di calcio che finisce in pareggio, e nasce l'agrodolce.
Nei suoi occhi leggevo un fascino sincero per la mia spiegazione, ancora ostacolato da una certa incomprensione; perciò, senza un motivo apparente, ma forse spinto da un istinto incontaminato, il mio sguardo tornò per un secondo a considerarlo una creatura mistica e pronunciai una frase che la parte più irrazionale di me sapeva gli avrebbe fatto capire esattamente ciò che avevo voluto dirgli.
− Nico, l'agrodolce è il gusto delle poesie. Sono sicuro che in quelle del nonno lo hai sentito tante volte.
Il bimbo sembrò improvvisamente illuminarsi e io mi sentii in stretta connessione con la sua trasformazione. Questa volta nei suoi occhi non c'era più insicurezza, né la curiosità che avevo intravisto quando avevamo cominciato a conoscerci; stavolta era come se il suo corpo stesse subendo una vera e propria epifania della conoscenza, alla maniera Joyciana. In quelle strette e brillanti pupille, Nicolò sembrava aver scoperto i segreti del suo minuscolo Universo, in cui le poesie del nonno luccicavano fiere come stelle nello spazio vuoto.
Il tutto durò un eterno secondo, al termine del quale Nicolò tornò il bimbo di otto anni di sempre.
− Quindi se do un morso ad un pasticcino e poi ad un limone, sto scrivendo una poesia?
Io e la donna scoppiammo in una fragorosa risata.

Comprarono il libro e uscirono.

Un vento di distanza Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora