Giorno
Le mattinate estive in libreria cominciavano ad essere sempre più affollate; uno dei pochi veri momenti di calma lo avevo all'apertura, verso le 9, quando ancora la scia del fresco vento notturno cullava l'aria della prima mattina, mentre spazzavo la zona esterna e aprivo i banchi dei libri scontati al 50%.
Il ricordo così vivo di Roy e della donna misteriosa mi rese faticoso anche quel semplice compito. Ancora quella mattina, inoltre, il risveglio non era stato dei migliori, ma memore delle recenti conseguenze, successive all'incontro con Prof., riuscii a mitigare la reazione. Erano passati da poco due mesi da quando ero stato catapultato in questo strano "gioco" e la cosa che più mi preoccupava era di sentirmi meno spaventato di quando era cominciato, come se avessi raggiunto una rassegnata forma di convivenza con un qualcosa che sembrava potesse decidere in che modo trasformare il mio destino.
In fin dei conti, la Morte mi aveva insegnato che non bisogna commettere l'errore di considerare la paura come un nemico da combattere o da cui fuggire, perché essa è uno dei pochi sentimenti in grado di rendere vivo il proprio corpo; in effetti, sentivo di stare seguendo, non so se volontariamente o meno, quel precetto, che pur mi rendeva schiavo di un'omeostasi inquietante del mio organismo.
Riflettei anche sulla possibilità di consultare uno psicologo come un ennesimo tentativo di comprendere ciò che mi stava capitando, ma cambiai idea sùbito: chi mai avrebbe creduto alla storia di un ragazzo che sogna la rappresentazione concreta delle proprie poesie, le quali si collegano al mondo reale attraverso l'immagine di una stella che compare improvvisamente...
Mentre i pensieri oltrepassavano il rumore ruvido delle setole della scopa che strisciavo all'ingresso, quell'immagine mi fece sorridere. Sarebbe stata una spesa inutile di soldi e tempo.
Tempo...
Pensai a Roy, al suo fascino glaciale e alla linea affilata del suo sguardo, con il quale era riuscito a far rabbrividire ogni angolo della mia pelle semplicemente indirizzandolo verso di me. Chissà da quanto tempo si trovava rinchiuso lì, incastonato in quel luogo come una perla in un'ostrica, nella lunga attesa che arrivassi io, senza sapere né come, né da dove, né perché. E chissà quanto altro tempo passerà per lui, senza che sappia che stia trascorrendo, come barista delle emozioni e mediatore dei sensi.
Pensai anche alla donna, a come per lei il tempo non fosse che un susseguirsi apatico di numeri, una serie di date e ore a cui presentarsi per compiere il suo lavoro...
il suo scopo.
Un tempo che, per lei, si scioglieva lento come i cubetti di ghiaccio nei nostri bicchieri di whisky: è difficile da credere, ma nonostante l'avessi bevuto soltanto in un sogno, riuscivo anche il giorno dopo a percepirne precisamente gli effetti sensoriali che aveva avuto su di me.
In fondo, Roy e la Morte, così come l'acrobata, Prof e il gabbiano, erano creature "mie", appendici della mia coscienza, ma non mi sentivo per nulla capace di considerarli tali; mi avevano trasmesso paura, nonostante rappresentassero concretamente qualcosa che avevo scritto io tempo prima. Avevano assunto una forma attraverso le mie parole, mentre prima erano soltanto degli angoscianti pensieri.
Hanno sempre un nome le cose che fanno paura mi aveva detto la Morte. Ora, mentre spazzavo e rispazzavo freneticamente l'ingresso della libreria, mi rendevo conto che aveva ragione. Lo scopo delle mie poesie è sempre stato quello di rinchiudere in contorni definiti delle sensazioni, spesso negative, che di norma sono amorfe. Quella donna, ad esempio, era la personificazione del dolore e con le sue parole aveva tentato di offrirmi un modo alternativo per interpretarlo.
Andai sul retro per mettere a posto la scopa e tornai poi al bancone. Aprii il programma di vendita e andai nella sezione Ordini, per controllare cosa mi avrebbe portato il corriere quella mattina: oltre a diverse copie dei romanzi Gocce rosse di neve e La fabbrica delle lacrime − libri in vetta a tutte le classifiche mondiali di quel periodo, grazie all'effetto del fenomeno Booktok sul social network Tik Tok −, era il giorno in cui mi sarebbe arrivata una carrellata di rifornimenti dei Grandi Classici. Li avevo ordinati una settimana prima in vista dell'arrivo dell'estate, poiché di norma ogni anno le scuole assegnavano ai ragazzi qualche libro del genere da leggere durante le vacanze. Non fu una cattiva idea, considerando anche che li vendevo a metà prezzo.
Il corriere arrivò come al solito in profondo ritardo, intorno alle 12, poco prima che chiudessi per la pausa-pranzo. Dato che in quel periodo i pomeriggi cominciavano ad essere più affollati rispetto alle mattine, perché con il caldo la gente preferiva stare al mare piuttosto che comprare libri, decisi che la pausa l'avrei trascorsa in libreria a sistemare gli undici colli che mi erano arrivati.
Dopo aver messo a posto i best seller nel tavolo centrale e qualche copia in avanzo sul retro, passai ai manga e infine ai classici. Quando aprii la scatola, venni rapito dal leggere il nome dell'autore che si trovava in cima alla pila di libri.
Lucrezio, "La natura delle cose", con un quadro dell'arte romana in copertina, intitolato Venere marina scortata da amorini.
È indubbio che quel susseguirsi di coincidenze non poteva che suscitare in me strani pensieri: la Morte mi aveva consapevolmente messo in relazione con quest'uomo vissuto più di duemila anni fa, dicendo che condividevamo un modo simile di intendere la conoscenza. Forse anche lui, come me, aveva voluto combattere il suo estremo disagio con l'unico strumento che lo rendeva possibile, la scrittura. Probabilmente, per come me l'aveva raccontato la Morte, il suo era stato un dolore molto più forte del mio, se questo lo aveva portato al gesto estremo di togliersi la vita: ipotizzai che per compiere un'azione simile, Lucrezio avesse sperimentato l'essenza del sopravvivere, più che del vivere. In ogni caso, per lui era diventato necessario instaurare un legame molto profondo con la propria coscienza, quasi di subordinazione, talmente potente da trasformarsi addirittura in pesante oppressione. Forse Lucrezio si era spinto così a fondo nel costruire un rapporto con la propria intimità, da risultarne un parassita destinato alla sconfitta.
Un po' come mi sentivo io nei confronti del gioco del destino in cui ero stato catapultato e di cui mi sentivo succube.
Tirai fuori tutte le copie dell'opera, ne sistemai sul retro poche come rifornimento, mentre disposi le altre nel banco dei classici scontati al 50%. Una volta terminato, indugiai qualche secondo con la mano sulla copertina, voltai il volume e lessi la descrizione sul retro:
Vissuto durante i burrascosi decenni delle guerre civili, Lucrezio vide nelle dottrine di Epicuro un'alternativa ad un mondo fondato sulla violenza e sull'oppressione e la liberazione dalle paure ataviche - la morte e l'Aldilà - che portano l'uomo all'infelicità. Lucrezio tradusse questa filosofia in termini fantastici e visionari, guidandoci a contemplare la vicenda misteriosa ed esaltante dell'esistenza cosmica ed umana, del perpetuo divenire delle cose.
In quelle poche righe si intravedevano i tratti distintivi di una personalità profondamente poetica: mi venne spontaneo paragonarlo ad un orefice che deve scegliere fra la moltitudine dei suoi gioielli per costruire la più bella collana mai esistita, un essere curioso del proprio dolore e dei segreti dell'Universo.
Decisi che per quel momento il fascino di Lucrezio potesse limitarsi a delle fantasticherie su di lui e al poetico confronto in cui la Morte mi aveva inserito.
Mentre stavo per rientrare nella libreria − strade e negozi ancora del tutto disabitati − sentii un suono provenire da sopra la mia testa: un enorme e leggiadro gabbiano stava volando proprio sopra di me, libero, fiero nel suo gracchiare, intento a disegnare sinuosamente le traiettorie del suo folle volo; le virate e le picchiate più potenti costruivano di volta in volta la strada istintiva del suo destino, per poi ristabilirsi con eleganza in un equilibrio orizzontale privo di esitazioni.
Inevitabilmente, mi tornò alla mente quel Jonathan Livingston che avevo incontrato qualche settimana prima sulla spiaggia: volli immaginare che si trattasse di lui, passato di fretta a farmi un saluto, per poi riprendere il suo viaggio poetico nel mondo.
Quando rientrai in libreria, Richard Bach lo andai volontariamente a cercare, possente, erto e dignitoso lì nello scaffale della Narrativa Classica del '900. A pensarci bene, lui sì che era riuscito a trasformare la sua vita in una vera e propria forma d'arte: ogni suo romanzo si focalizza su una o più sensazioni che l'esperienza da aviatore gli ha regalato nel corso della vita e il tutto si sviluppa attorno alla costruzione poetica di un universo di volta in volta diverso, ma sempre rarefatto, tinto dalle colorazioni della nebbia, del cielo, delle notti stellate e del sogno.
Il fascino nei confronti della sua visione così intangibile mi aveva spinto a leggere diversi suoi libri e poi a scrivere la poesia da cui poi è derivato l'incontro onirico con Jonathan. Ogni volta che ne ho avuto l'occasione, inoltre, mi sono ritrovato a consigliare ai clienti la lettura di qualche suo romanzo, perché in ognuno di essi Bach riesce a modellare la concretezza della sua realtà, sfumandone all'inverosimile i contorni, ma mantenendone pulsante il nucleo poetico e soprattutto riuscendo ad indirizzarsi in modo molto efficace nella coscienza delle persone: in ognuno di noi, d'altronde, sono convinto esista un Jonathan Livingston che sta solo aspettando di spiccare il volo per sentirsi finalmente libero.
L'incontro con la Morte aveva inciso anche nel modo in cui ora consideravo le opere di Bach; mi aveva reso disinibito come i suoi personaggi, leggiadri, cosparsi di polvere di stelle e incredibilmente vivi. Ed era così che ora percepivo i miei pensieri: vivi, più sensati, elementi nati indistinti, che ora cominciavano ad assumere una forma ben chiara nella costellazione della mia coscienza.
Dopo dieci minuti dalla mia riapertura nel pomeriggio, entrò in libreria il signor M.
Si trattava di un uomo sulla cinquantina, brizzolato e con degli enormi baffi ad addolcire un volto già paffuto negli zigomi e nella linea dolce delle sopracciglia. Portava degli occhiali da vista dalla montatura vecchia ma elegante, una camicia rossa di lino a quadri rialzata ai gomiti, dei pantaloncini marroni − che notai subito fossero macchiati di rosso nella zona della coscia destra − e per finire un'eclettica coppola beige in tweed, visivamente il suo tratto distintivo.
Istintivamente mi sfuggì un sorriso quando lo vidi entrare dalla porta, alleggerito dall'aria fresca che il condizionatore emanava nel locale. Dovette accorgersene.
− Oh no, sono appena entrato e già ridi. Di solito la mia dignità dura qualche minuto in più.
Sfoggiò un sorriso ineccepibile per farmi capire che stesse scherzando. La sua voce era accompagnata da un sapore intenso di caffè e tabacco.
− No, per carità, mi scusi. Non era per prenderla in giro, assolutamente, anzi. Ridevo per quella, − risposi in uno scialbo tentativo di giustificazione, e indicai la coppola che aveva in testa.
− Per questa? − ripeté, poi se la levò dal capo guardingo e si aggiustò con la mano i capelli.
Annuii divertito.
− Non soffre il caldo, poi?
− Qui dentro sto bene, ma in ogni caso non fa differenza che stagione sia, la porto sempre con me, − rispose e si risistemò velocemente la coppola in testa, come se per un attimo avesse perso una parte fondamentale di sé.
− Se non sono indiscreto, posso chiederle il perché? Non ne ho viste così tante in giro.
− Perché è l'identità di noi pittori. È come se fosse il mio segno distintivo, ha un valore affettivo per me.
− Lei è un pittore?
La sua figura, già di partenza stravagante, si faceva così ancora più interessante.
− Precisamente da trent'anni, − rispose fiero.
− Deduco che quella ne sia una prova, vero? − e indicai la macchia rossa sui pantaloncini. Il signor M. sembrò sorpreso, come se non se ne fosse mai accorto.
− Ah sì, questa. Ho messo su la prima cosa che ho trovato nell'armadio senza pensarci: questi sono i pantaloncini da lavoro che uso d'estate quando dipingo e questa dev'essere una memoria dell'ultimo mio quadro. Perdonami, non è un bel vedere.
− Ma no, non si preoccupi, anzi. È un oggetto con una propria storia e a me piacciono le cose che sanno di vissuto. Di che quadro si tratta?
L'aver individuato la macchia rossa quasi istantaneamente fra le caratteristiche primarie di quello strano individuo mi aveva convinto di essere entrato in una relazione diretta con il dipinto, di cui non conoscevo né il nome né il contenuto e quindi di essere legittimato a rivolgergli delle domande più confidenziali.
− Si intitola Parola.
A quel punto il signor M. tirò fuori dalla tasca il suo cellulare, digitò qualcosa e dopo pochi minuti lo girò verso di me. Sullo schermo c'era la fotografia di un quadro astratto, in cui ai lati erano raffigurate delle linee curve di diverso colore − arancioni, rosse, blu e verdi − e diversa dimensione: ognuna di queste curve partiva da un punto indefinito della tela, percorrendo una distanza sempre diversa e con diverse traiettorie. L'inizio di questi "tragitti" era di un colore ben acceso, come se in quel punto il pennello si fosse soffermato maggiormente; seguendo lentamente le direzioni, invece, ci si accorgeva di come la pennellata si allargasse e il colore sfumasse a poco a poco, fino a scomparire in una scia nel punto in cui finiva il percorso, come se il pittore avesse avuto un contrattempo e avesse lasciato incompiuto il dettaglio. Non c'era mai, in nessuna traiettoria, una fine netta, ma tutte erano evanescenti, come lo strascico di una sposa. Al centro del dipinto si trovavano due cerchi concentrici, uno al centro dell'altro: quello esterno blu notte, quello interno completamente nero. Al di sopra di essi, nella zona superiore della tela, mi parve di vedere l'astrazione della riva di un mare che lambisce la spiaggia: delle chiazze frastagliate di blu, accompagnate dal giallo e marroncino della spuma, si lasciavano gocciolare verso il basso, in direzione dei cerchi. Ogni apice di onda che gocciolava in giù sembrava un rivolo di sangue fresco che esce da una ferita. Lo sfondo era paurosamente nero.
Fissai il dipinto giusto il tempo di percepire tutti questi dettagli: la visione da un cellulare ovviamente faceva perdere molto del significato intrinseco dell'opera, ma tant'era.
− Come mai questo titolo?
Tentai istintivamente di capire il nesso con il dipinto, ma come spesso succede quando si parla di creazioni artistiche, solo l'autore ne conosce l'origine e il senso profondo.
Il signor M. riprese in mano il cellulare e lo ripose in tasca.
− Beh, diciamo che è una lunga storia.
Allargai le braccia e mi guardai attorno, a voler sottolineare che non ci fosse nessuno.
− Non credo di avere fretta, − risposi.
Tamburellò per qualche secondo le dita sul bancone in silenzio, nell'attesa di trovare le parole giuste da dire.
− In realtà è una lunga storia perché la risposta è sempre diversa.
− In che senso diversa?
− Diversa in base alla persona che osserva il quadro.
Corrugai la fronte e il signor M. sorrise, rendendosi conto di dovermi delle spiegazioni migliori.
− Ho cercato di costruire un quadro in cui fossero inclusi tutti i miliardi di quadri che le altre persone "creano" quando pensano al concetto di parola. È un quadro astratto, è per natura soggettivo; anzi, spero che anche tu abbia potuto intravedere qualcosa che possa convincerti.
− Sì, di sicuro mi ha lasciato qualcosa, ma di solito preferisco lasciarmi affascinare dall'idea originale di chi genera l'opera d'arte. Per me è più interessante trovare qualcosa di nuovo in questo, che nella mia interpretazione. Per cui, cos'è per lei la parola?
− È un liquido, − rispose senza esitazione. − Un liquido che si muove costantemente attorno a noi, senza occupare lo spazio di niente ma essendoci dovunque. A primo impatto ha un proprio gusto, una propria densità, un proprio colore, come le traiettorie curve nel mio quadro, ma quando termina l'attimo del primo incontro, tutto sfuma: come quando un'onda del mare parte dal fondo dell'oceano, crescendo fiera e dignitosa e, dopo essersi abbattuta a riva, scarica le energie sulla sabbia e svanisce.
− Le chiazze frastagliate nel quadro, vero?
Il signor M. annuì con decisione.
− Il fascino sta proprio nel fatto che svaniscono: finché la parola viene percepita nel momento del primo incontro, il suo significato resta accessibile a tutti. La sfida è tentare di cogliere la sfumatura che diventa sempre più potente e inarrestabile, il senso che si cela al di là della scia, quando la parola perde la sua forma compatta e mostra il suo significato secondario. E questo processo è attuabile da tutti, ma solo chi accetta di inseguirla può sperare di farcela.
Poi tirò un profondo sospiro e concluse: − Ma le persone al mondo non hanno la minima intenzione di inseguire. Per questo motivo la risposta alla tua domanda è "sempre diversa"; per chi non accetta il compromesso, quello che hai visto è solo un mix di forme geometriche e schizzi colorati.
Rimasi affascinato dalla sua spiegazione.
− E i due cerchi al centro? Che pezzi sono del puzzle?
− Ho voluto stilizzare il buco nero della memoria. È lì che finiscono tutte le parole che usiamo in modo improprio e che provocano più sofferenza. Una delle più grandi sfortune nella storia di noi uomini, se ci pensi, è di conservare con gelosia in un cassetto del nostro cervello le sensazioni del dolore, ma non credo sia una cosa voluta. È un meccanismo automatico della nostra coscienza che ci mette in allerta, che ci fa sentire deboli di fronte alla sofferenza. Ecco, secondo me le parole sono le armi peggiori per provocarlo; ho voluto immaginarmi quel cassetto come uno spazio oscuro e intoccabile dove risiedono quelle tragiche parole.
I miei occhi rimasero fissi sullo sguardo tagliente di quello strano individuo, che sembrava appartenere ad una galassia distante anni luce dalla mia. La descrizione così minuziosa di quel suo universo di pensieri e sensazioni aveva drenato in me ogni possibilità di risposta; quindi, mi feci istintivamente trascinare dalla prima cosa che mi venne in mente.
− Sono identici a quelli di Kandinsky.
− I cerchi intendi, vero?
Annuii.
− Credo che lei abbia apprezzato molto il suo Alcuni cerchi.
Il signor M. si grattò la nuca, sorridendo.
− Ho avuto la fortuna di apprezzarlo dal vivo al Museo Guggenheim di New York. L'ispirazione per rappresentare il buco nero al centro è nata proprio dall'osservazione di quel quadro: fu come svanire, smaterializzato in un'altra dimensione. Anche se quei cerchi per lui erano pianeti, per me fu come visitare un buco nero.
Cadde un silenzio di profonda riflessione: quella del signor M. fu una descrizione autentica ed eccezionale di un sistema ben definito di valori, pensieri e sensazioni, che avrebbe fatto invidia al filosofo Hegel. Per il signor M. nella parola erano sintetizzate le più grandi incoerenze spirituali che si scontrano quotidianamente nella coscienza dell'uomo, le sue più grandi esperienze e le sue più desiderate ricerche, fra cui la più importante, quella del senso. Parola voleva dire dare un senso alle cose, plasmare un significato alle proprie esperienze, sentirsi vivi in una costante e profonda indagine di sé; voleva dire non accontentarsi della superficie, ma addentrarsi...
− Ora posso chiedertelo io?
La domanda del signor M. interruppe di colpo il flusso dei miei pensieri.
− Cosa?
− Che cos'è per te la parola?
Ci pensai ancora un secondo, poi risposi con un'altra domanda.
− Lei conosce l'etimologia del verbo addentrarsi?
Il signor M. corrugò la fronte.
− Ne conosco il significato comune, ma non so bene da dove derivi, credo dal latino.
Sorrisi.
− In realtà non proprio dal latino. Come concetto è nato all'inizio della nostra storia linguistica, nel 1300, quando all'avverbio dentro è stata aggiunta la preposizione semplice a. Probabilmente si starà chiedendo cosa c'entra tutto questo con la domanda che mi ha fatto: beh vede, quell'elemento così innocuo all'apparenza, così modesto, così neutro, tra i più semplici della grammatica italiana, modificò in profondità il significato del verbo. Non fu una semplice aggiunta, un suono armonico che si accostava bene al resto della frase, ma una rivoluzione percettiva. Addentrarsi, infatti, non vuol dire soltanto indirizzarsi dentro alle cose, ma seguirne il verso, ricercarne una trama logica, un sentiero che permetta di non perdersi. Per me la parola è questo: addentrarsi nel mondo, scovarne la direzione e tentare di non smarrirsi.
Le sopracciglia del signor M. mi apparvero più dolci, come se fosse entrato in un tale livello di confidenza con me da poter smussare ogni spigolo del suo corpo. Mi fissò con occhi sorridenti, poi spostò lo sguardo sugli scaffali della libreria, osservandoli con ammirazione.
− Devo ammettere che mi hai stupito. Io per arrivare ad una descrizione del genere ho avuto bisogno dell'aiuto di un quadro, mentre tu sei arrivato dritto al punto parlandone e basta. D'altronde, guarda qui in che cosa hai deciso di addentrarti, − disse enfatizzando l'ultima parola e indicando i libri sugli scaffali.
Arrossii e abbassai lo sguardo sul bancone, ma subito mi ricordai della cosa più importante da chiedergli e tornai a fissarlo.
− A proposito, sono stato così tanto preso dalla sua coppola da arrivare a tutto questo, ma non le ho neanche chiesto il perché è entrato e se cerca dei libri nello specifico.
− A dire il vero sono passato per curiosità; mi sono accorto solo recentemente di questa libreria in zona e volevo venire a vedere di persona. A proposito, complimenti: investire nella cultura è sempre roba complicatissima, soprattutto al giorno d'oggi. Comunque, ora che ci penso, forse una richiesta ce l'ho.
− Mi dica pure.
Il signor M. sembrava imbarazzato e parlava sorridendo.
− Ti verrà sicuramente da ridere, ma non è che hai qualche manuale sul rapporto fra parola e immagine?
Scoppiai in una fragorosa risata.
− Non esiste ricerca più azzeccata e coerente della sua.
− C'è da dire che quello che ci siamo detti mi ha spalancato diverse porte. A questo punto mi chiedo se esista anche qualcosa di scritto su cui poter riflettere.
− Guardi, purtroppo a livello di saggistica non sono così fornito. Come vede, lo spazio è abbastanza limitato, quindi ho dovuto fare delle scelte anche in base ai generi più appetibili. Ne ho letti diversi in passato, ma qui in libreria ho deciso di dare più spazio alla narrativa. In questo caso, può trovare tutto il filone del realismo magico, che si fonda essenzialmente sull'importanza del rapporto fra immagine e parola, e in particolare Murakami e Garcia Marquez.
Il signor M. sembrava affascinato.
− Realismo magico...− ripeté. − È una sorta di movimento simbolista?
Sorrisi nel sentire chiaramente venir fuori la sua conoscenza in campo artistico.
− Sì, diciamo di sì. È una corrente a cui sono particolarmente affezionato anche io, perché secondo me quando un romanzo riesce ad equilibrare l'elemento realistico con quello fantastico, raggiunge una potenza espressiva senza pari. Nel leggere opere simili è come se si riuscisse a ricostruire una sintesi del proprio io, fra la realtà è l'immaginazione. Non so se mi sono spiegato bene...
Il signor M. aggrottò la fronte, incuriosito, poi mi diede la sua interpretazione:
− Praticamente è come osservare un Picasso, in cui la realtà viene scomposta nelle sue forme più spigolose, mostrando in modo chiaro all'osservatore la linea di demarcazione che separa il concreto dall'astratto. O almeno questa è l'interpretazione che ne do io.
Lo osservai ammirato.
− Sì, esatto. Non avrei trovato nell'arte un paragone migliore.
Poi sopraggiunse il silenzio tipico di fine conversazione, quello in cui gli interlocutori si rendono mutamente conto di aver rivelato tutti i loro misteri, di aver ribaltato tutti i bauli di pensieri che tengono dentro e di averli rimessi in ordine; insomma, il silenzio in cui l'eccitazione della condivisione di sé stessi si completa interamente e lascia il posto ad una stasi di coscienza. Ed è a questo punto che, di solito, il viaggio ultraterreno termina e si torna alla realtà.
− Allora, mi segua pure, − dissi. − Le mostro qualcosa sul realismo magico.
Lo portai davanti agli scaffali in cui avevo disposto in ordine alfabetico i romanzi moderni delle case editrici Einaudi, Feltrinelli e Mondadori e gli mostrai per prime le opere di Haruki Murakami: Norwegian wood, Kafka sulla spiaggia, L'uccello che girava le viti del mondo e la trilogia di 1Q84. Gli consigliai la lettura dei primi due, in particolare del secondo per mia diretta esperienza, tentando a parole di lasciar trasparire la stessa magia che lo scrittore giapponese mi aveva infuso con le sue parole. Probabilmente ci riuscii.
− Io non ho mai letto libri di scrittori giapponesi, ma è vero che sono stravaganti tanto quanto le opere d'arte? Io ricordo perfettamente i dipinti di Hokusai e sono sempre rimasto affascinato dal suo modo così distante di vedere l'arte. Ne La grande onda di Kanagawa o in tutte le altre Trentasei vedute del monte Fuji, è come se i colori, i volumi, i soggetti e le pennellate assumessero una dimensione nuova, più snella e pungente, quasi fredda, rispetto a come li osservo nei quadri europei. Tu hai notato questa differenza anche nei libri?
A mano a mano che quella conversazione andava avanti, mi sentivo sempre più accerchiato da un certo alone di sublime che non accennava ad affievolirsi. L'eccitazione della condivisione era tornata.
− Sì, signore. Dalla mia esperienza ho capito che nella scrittura giapponese risiede un approccio verso le cose distante anni luce dal nostro. Non che loro vedano mondi diversi dai nostri, sia chiaro, la realtà è la stessa per tutti; però, è come se nei loro libri gli autori giapponesi raccontassero come sia il mondo dall'altra parte dell'orizzonte, in quella linea in cui tradizionalmente vediamo "terminare" il mare e che immaginiamo impossibile da raggiungere. Loro modificano la prospettiva, non la sostanza delle cose. Ti danno in mano un binocolo da cui osservare la terra dai confini del mare. Ad esempio, i giapponesi sono talmente tanto affezionati ai gatti, da utilizzarli spesso come metro di paragone o elemento ontologico per comprendere l'essere umano; spesso questi animali vengono realmente trasfigurati da domestici a creature divine, pur mantenendo le loro sembianze reali. Nella letteratura europea questa cosa l'ho vista poche volte, mentre per i giapponesi non è solo un semplice dettaglio da aggiungere alle storie, ma è diventata una base narrativa su cui costruirle a priori. Questo era solo un esempio, ovviamente, già credo di essermi dilungato troppo e mi dispiacerebbe annoiarla.
Il signor M. fece un rapido gesto con la mano e sorrise.
− Non mi annoi affatto, credimi, − disse mentre si passava fra le mani Kafka sulla spiaggia, poi aggiunse: − Forse riuscirei a trovare dei collegamenti anche con i miei quadri, non credi?
− Assolutamente sì, mi creda. La cultura giapponese mi ha sempre offerto degli stimoli eccezionali, soprattutto nella scrittura.
Il signor M. mi guardò sorpreso.
− Tu scrivi?
Annuii.
− Sì, ho scritto una raccolta di poesie tempo fa e ogni tanto continuo ad aggiornare un quaderno di bozze dove annoto pensieri, considerazioni, ragionamenti, insomma un po' tutto quello che istintivamente mi viene in mente.
− Devo ammettere che sei pieno di sorprese tu...− e sorrise.
− Anche lei non scherza, sto parlando con un pittore contemporaneo, la sorpresa è tutta mia.
Il signor M. fece una smorfia e abbassò lo sguardo, poi ci catapultammo di nuovo nella modalità più formale in cui quella mistica conversazione potesse convertirsi.
− Allora questo lo prendo dai, voglio fidarmi di te, − concluse.
Mentre gli facevo strada per tornare al bancone, sentii che si fermò. Mi voltai e lo vidi davanti al piccolo scaffale delle biografie, incuriosito da un volume.
− Credo che prenderò anche questo, − disse e mi girò il libro: Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori di Giorgio Vasari. Allargai le braccia.
− Strano che non l'avesse adocchiato prima, − scherzai.
− Lo conosco per fama, ma non l'ho mai letto. Credo che sia giusto che io mi faccia una bella scorpacciata di storia dell'arte, potrà solo che essermi utile per le mie opere.
Tornammo al bancone e gli feci lo scontrino.
− Tutto fa brodo, come si dice. Siamo tutti circondati da forme d'arte, ma tendiamo a non rendercene conto. Se ho deciso di aprire una libreria, era anche per far sì che questo alone non mi abbandonasse mai. Sicuramente questi due libri le saranno di grande aiuto per le sue opere. Credo che l'arte, quando agisce, segua un procedimento molto semplice: si affianca a chi ha il coraggio di tendere l'orecchio e ascoltare. Sono sicuro che quest'infusione di stimoli arriverà anche a lei.
Il signor M. prese la busta e si avviò alla porta, poi si fermò e si voltò verso di me. Si mise una mano sulla coppola, se la tolse e mimò un inchino.
Il tratto distintivo dell'artista, etichetta che marchiava la sua esistenza nel mondo, ora era diventato uno sfuggente simbolo di saluto, la fune gettata verso di me per mantenere salda in eterno quella conversazione, che mai più materialmente si sarebbe ripresentata. Un ponte gettato verso l'altra linea dell'orizzonte.
Poi uscì.
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Un vento di distanza
Ficción GeneralSimone è un libraio di trent'anni, ama il suo lavoro, ma si guarda allo specchio consapevole che l'equilibrio raggiunto dalla sua solitudine avrebbe bisogno di una rivoluzione. Qualche anno dopo aver pubblicato una raccolta di poesie, spinto dal des...