DICIANNOVE - PARTE I

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Sogno

Il lento rinculo ammortizzato dell'ingranaggio trainante anticipò di qualche secondo la fermata dell'ascensore. Fissai il pannello: il display si spense come di consueto, mentre il disegno dell'enorme stella rimaneva incollato lì, come un antico sigillo a guardia di un luogo sacro. La fissavo incredulo di come fosse possibile averla ritrovata sia nel mio quaderno, che in quello del bambino. Strizzai gli occhi nel disperato tentativo di estorcerle anche solo un frammento di verità, come se la stessi metaforicamente tirando con una corda per avvicinarla a me.
Fu tutto inutile. Era un destino da vivere, non da comprendere.
Poi passai velocemente ai bottoni: tutta la colonna di sinistra era illuminata in modo fisso, mentre il primo della colonna di destra lampeggiava. Lo sfiorai e la memoria dell'incontro con il leone si incastrò nel flusso incatenato dei precedenti ricordi.
Non ebbi modo di pensare ad altro, né fui in grado di riflettere su ciò che quel giorno era accaduto in libreria, perché la porta dell'ascensore si aprì all'improvviso e io mi ritrovai catapultato nel corridoio di un carcere.
Il pavimento gommato e color legno permetteva l'accesso a sei celle, tre per lato. Due file di quattro lampadari impolverati e visibilmente antichi illuminavano con luce calda e soffusa l'intero ambiente. In fondo al corridoio si trovava una scrivania in legno, con una lampada, una poltrona in pelle e alle spalle una piccola libreria e una lavagnetta con delle scritte. Regnava un silenzio surreale e tanto opprimente da permettermi di sentire distintamente il ronzio di un moscerino che si avvicinava ad uno dei primi lampadari, per poi ricadere fulminato al suolo. Sembrava che in quel posto non ci fosse scampo neanche per degli insetti e il sapore ammuffito dell'aria che si respirava non lo rendeva di certo più invitante.
Staccai le braccia dalla sbarra orizzontale sulla parete centrale del vano dell'ascensore che avevo usato per riposarmi e misi un piede fuori: lo stridio della scarpa sulla gomma inglobò per un secondo il vuoto sonoro del corridoio.
Le prime due celle per lato erano vuote e buie. Mi avvicinai a quella di sinistra e toccai le sbarre: il freddo glaciale dell'acciaio si incanalò denso sottopelle fino a gelarmi istantaneamente il sangue nelle vene. Per un attimo il mio corpo divenne un tutt'uno con il brivido, almeno finché non mi abituai al tocco.
L'interno era scarno, tipico di una cella: sulla destra si trovava un letto in ordine ma impolverato, segno che doveva essere rimasto vuoto da chissà quanto tempo; in fondo, sotto una piccola finestrella con tre grate verticali, da cui non passava alcun raggio di luce, era stata posizionata una scrivania, anch'essa spoglia di qualsiasi oggetto; infine, appeso sulla parete di sinistra, uno specchietto rettangolare stava sopra un vecchio lavello sporco e arrugginito.
Mi voltai e raggiunsi la cella di destra con circospezione, quasi impaurito dall'angoscia del rumore dei miei stessi passi, ma non notai nulla di diverso. Poi, mentre sostavo in quel punto, con lo sguardo perso, abbattuto dal silenzio e atterrito dal timore di dover proseguire, un suono mi raggelò sul posto.
Era un rumore ovattato e intermittente, come di qualcosa che colpisce ripetutamente una superficie dura. Non era opprimente; anzi, paradossalmente era delicato, a tratti rilassante. Per questo motivo pensai che, se si fosse trattato di un oggetto, doveva essere qualcosa di molto morbido.
Lo sentii giungere dal fondo del corridoio; spostando lo sguardo, mi accorsi che dall'interno dell'ultima cella dell'ala destra si era accesa una luce calda che proiettava decisa la sua ombra sul pavimento e accompagnava distinta il ritmo di quel suono.
Mi avvicinai con lenta circospezione superando le celle centrali, anch'esse disabitate, buie e arredate come le prime. Il rimbombo sonoro dei miei passi aveva finito per alternarsi involontariamente al rumore intermittente, dando vita ad uno spartito funesto e denso d'angoscia. Poi, entrai nel cono di luce della cella illuminata, varcai senza permesso il confine di pavimento governato dall'ombra e il rumore improvvisamente cessò. Stavo fissando davanti a me la scrivania in legno: anch'essa, come le celle, doveva essere stata abbandonata da molto tempo, dato l'ampio strato di polvere densa che la ricopriva. Priva di alcuna suppellettile, vantava alle sue spalle una lavagna, su cui ora potevo vedere scritti distintamente dei numeri.
Fermo alla fine del corridoio, con l'animo e il fisico ingabbiati nella paura, mi voltai verso l'interno della cella illuminata. L'arredamento era molto simile a quello di tutte le altre: sulla parete in fondo un lavello arrugginito sormontato da uno specchio crepato; un piccolo tavolinetto in legno scheggiato con qualche foglio scarabocchiato, una penna e una lampada accesa; il letto, invece, era vecchio come gli altri, ma era stato usato da poco e doveva essere ancora riordinato.
Seduto per terra con la schiena rivolta verso il letto, infatti, c'era un uomo che teneva in mano una pallina di gomma. Aveva appena smesso di farla rimbalzare sulla parete di fronte a lui perché il mio arrivo aveva attirato la sua attenzione. Era un signore di mezza età già con il viso segnato dai primi solchi delle rughe. Indossava dei pantaloni lunghi e larghi, una maglietta grigia sgualcita, ma la barba e i capelli brizzolati erano incredibilmente curati. I lineamenti del viso erano duri, corrucciati, all'apparenza insensibili. Mi fissava dubbioso e intanto giocherellava con la pallina.
− Chi sei?
La voce era profonda e rauca.
− Dove mi trovo? 
Provai a tenergli testa con le domande e irrobustii il tono.
− Questa è casa mia, ma tu chi sei? − insistette.
− Tu vivi in una cella?
− Ci sono finito.
− E come?
− Non ti deve interessare, − poi sputò per terra di fianco a lui. − È diventata casa mia. Ma tu mi vuoi dire chi sei e cosa ci fai qui?
Tossii per provare a fare il duro e allargai le braccia.
− Non lo so perché sono qui. Forse potresti aiutarmi tu a capirlo...
Scoppiò in una fragorosa risata, simile a quella di un cattivo dei cartoni animati che pensa di essere imbattibile.
− A momenti non so neanche il perché io sono qui, come posso saperlo di te... So solo che mi stai già dando sui nervi, − mi rispose secco e riprese a far rimbalzare la pallina sulla parete, come se fino a quel momento avesse avuto paura di trovarsi in pericolo di fronte a me, mentre adesso per lui ero diventato innocuo, addirittura ingombrante.
− Vedo che sei molto socievole con gli sconosciuti...− risposi con amara ironia e lasciai cadere lì la frase; poi, mentre stavo per voltarmi verso l'altra cella alla ricerca di risposte, lo sentii ridacchiare sottovoce. Allora mi avvicinai e strinsi le grate gelide con entrambe le mani. 
− Senti, non ho idea del perché tu mi tratti così senza neanche conoscermi, ma non mi interessa. In ogni caso, sei l'unica persona con cui poter parlare in questo posto e l'unico a cui poter chiedere delle informazioni per tentare di capirci qualcosa di più. Se non comunichiamo, è tutto inutile. Magari c'è un modo per farti uscire da qui.
Nel frattempo, il ritmo cantilenante della pallina sul muro continuava a fare da sottofondo a quell'astioso dialogo.
L'uomo sogghignò.
− Tu credi davvero che ci sia un modo per liberarmi? Questo conferma che sei un semplice illuso e lo avevo capito dalla tua faccia. E poi chi ti dice che io me ne voglia andare?
− Di sicuro se non mi parli, non potrò mai verificarlo al cento percento.
− E cosa dovrei dirti?
Questa volta aspettò il ritorno della pallina e non la rilanciò, si voltò verso di me e contrasse rigidamente il volto.
− Magari farmi capire il motivo per cui ti trovi qui. Sarebbe un buon inizio.
L'uomo si passò la lingua su entrambe le labbra, non smettendo di sorridere ironicamente, come quando ci si trova costretti a dire o a fare qualcosa che si considera ridicola e senza senso. Alla fine in qualche modo si arrese.
− Mi trovo qui perché ho commesso un reato.
− Un reato?
Istintivamente indietreggiai di un passo, impaurito.
− Hai ucciso qualcuno?
Il tono della mia voce si indurì dalla paura. L'uomo rise.
− No, ma ci sei andato vicino.
La situazione diventava sempre più confusa.
− Smettila, − sbottai. − Si può sapere cosa diavolo hai combinato?
L'uomo abbassò lo sguardo mantenendo intatto il sorriso.
− Ho ucciso l'Amore.
Calò il silenzio. Uno di quei silenzi densi e veloci, che sembrava avesse raggiunto gli anfratti più profondi dell'Universo, resistente ad ogni rumore. Uno di quei silenzi che toglie il fiato e la voce.
− Cos'è, hai perso la parola? − mi chiese. Sembrava essersene accorto. Deglutii.
− C-cosa vuol dire che hai ucciso l'Amore?
− Sai quella cosa fatta tutta di coccole e baci, di smancerie e finti affetti? Ecco, l'ho uccisa, − rispose con tono sarcastico.
Continuavo a non capire.
− Ma come hai fatto ad uccidere qualcosa che non si vede? L'Amore non è una persona, è un concetto invisibile...− lasciai cadere la frase senza conclusione e allargai le braccia.
− Come fai a credere che non puoi toccare una cosa che non vedi? Vivi ancora nel mondo del banale materialismo? Quasi mi vanto di trovarmi qui allora, lontano da quella melma.
Sospirai, infastidito dai suoi infiniti giri di parole.
− Vuoi rispondermi, o no?
Sospirò e ricominciò a lanciare la pallina sul muro di fronte: avevo facilmente intuito che, quando riprendeva questo irregolare spartito musicale, voleva dire che le sue difese nei miei confronti si stavano abbassando, che aveva raggiunto un grado completo di tranquillità e non riserbava verso di me né timore, né insicurezza, ma anzi nutriva un forte senso di superiorità. 
− Una cosa che non vedi la uccidi sprigionandone il contrario, − disse con il tono lento di una fatale sentenza. Interruppe il lancio della pallina e fissò con occhi persi un punto di fronte a lui, immobile. Poi continuò:
− Come il tubo nero di una pompa ricolmo di petrolio che, a causa della noncuranza degli uomini, sfocia nelle profondità dell'oceano, divampando in tutto il suo disgusto sulle creature dell'abisso...
Per qualche secondo lasciò in sospeso quell'angosciate flusso di coscienza, fuoriuscito dal ventre del suo corpo nell'espressività lenta e viscerale tipica di un attore di teatro: sembrava stesse recitando la scena fondamentale di una tragedia giunta all'apice del pathos, dove il protagonista enfatizza ogni singola parola del suo discorso per elevarla al grado massimo di suggestione. Teneva la mano sinistra aperta davanti al volto e la muoveva lentamente, come se stesse reggendo il teschio dell'Amleto; poi, giunse al taglio netto della ghigliottina, alla drastica battuta finale, la tragica recisione che allontana gli spettatori dalla dimensione drammatica e li rispedisce nel loro mondo reale, incitandoli ad applaudire per la fine dello spettacolo.
− Uccidendole, − concluse.
Fu un sussurro, più che una vera battuta. Ma di quelli che nella loro lenta danza perdono la sensualità e diventano presagi di morte.
− Non capisco se tu sia pazzo o finga di esserlo, − risposi scioccato.
Ruppi il silenzio in un modo quasi comico, ma necessario: era davvero complicato per me riuscire ad immedesimarmi nelle sue parole. Per risposta sogghignò.
− C'è anche la possibilità che io lo sia, effettivamente. Ma in fondo lo siamo un po' tutti quando proviamo dei sentimenti, no?
Mi avvicinai nuovamente alla cella e strinsi le grate: non so bene per quale motivo, ma a mano a mano che l'uomo parlava, il timore iniziale per aver sentito pronunciare la parola uccidere si placava. O meglio, si trasformava in sincera curiosità. Quindi abbassai le difese anche io e nei confronti di quello strano individuo decisi di dispormi in uno stato di ascolto empatico. Quantomeno ci provai.
− E tu hai deciso di ucciderne uno, di sentimento? Perché mai avresti dovuto farlo?
L'uomo sospirò, come se la mia domanda fosse inutile.
− Perché è tutto visibilmente finto.
− Intendi l'Amore?
− Esatto. E tutto ciò che lo circonda.
Il viso si contrasse e il tono della sua voce divenne quasi tormentato, stanco di dover sottolineare delle ovvietà. Poi continuò:
− Ma non ti accorgi di quanto sia tutto costruito artificialmente? L'Amore è nato quando qualcuno ha deciso di mescolare in un pentolone la bugia con l'istinto sessuale. La finzione permette di costruire dei mondi fantastici, castelli fatati e finali lieti. Costruire vuol dire "ammassare insieme", ammucchiare le cose per deformarle, modellarle per incastrarle volutamente in un sistema che stia in piedi. Gli innamorati prendono gli infiniti rimasugli della propria anima in pena alla ricerca della felicità e li ammucchiano uno sopra l'altro, facendone scorgere l'angolo ancora intatto e nascondendo le crepe. Fanno un po' come i bambini che ammucchiano la sabbia bagnata per costruire un castello in riva al mare: modellano e compattano l'esterno, perché è la parte visibile a tutti che deve mostrarsi dignitosa, ma dentro il cuore resta fragile, progettato su una finzione di immortalità. Basta una sola onda e sulla battigia torna tutto piatto.
Poi, si fermò qualche secondo mantenendo lo sguardo fisso in un punto perso di fronte a sé e concluse: − E va bene un po' a tutti alla fine, perché quando si costruisce qualcosa, si dà senso e scopo ad un bisogno. E ci si sente sazi.
Mi lasciai andare ad un contrattacco istintivo e forse non ben preparato.
− E tu? − iniziai con fare inquisitorio. − Cosa credi di aver fatto disseminando odio? Hai modellato delle coscienze verso la violenza e l'intolleranza. Hai contribuito a "costruire" quella stessa società che ti ha imprigionato qui dentro per disprezzo. Tu non sei migliore di chi si ama; loro almeno provano a rendersi leggera l'esistenza.
Questa volta l'uomo non mi fissò. Decise che l'unico organo degno di potersi confrontare con me in modo diretto dovesse essere il suo orecchio, mentre il resto del corpo aveva bisogno di rimanere ancorato alla sua dimensione per sentirsi sicuro di ciò che stava dicendo. Sorrise e prese a far rimbalzare la pallina nuovamente, non più sul muro di fronte, ma a terra.
− È qui che ti sbagli, piccolo essere umano, − mi schernì. − L'odio è un sentimento sincero. Infatti, non costruisce nulla, ma separa come fa la verità, che pondera ogni singolo elemento della realtà e lo valorizza con sincerità. Ho agito in questo modo perché mi ero stancato di vedere che il castello di sabbia del mondo continuasse a crescere sulla falsità e sul bisogno intrinseco di rispondere a dei bisogni. Tutti nascono con degli istinti, che spesso però si mostrano in una forma poco elegante, dismessa e a tratti anche mostruosa. Quindi, gli uomini hanno dato origine all'Amore come copertura che rende presentabile queste inclinazioni. Lo fanno passare per romanticismo, ma sono solo parole. L'odio, invece, agisce. L'odio ha fatto sì che io finissi qui dentro perché ha risvegliato la vera natura delle persone, l'indole con la quale sono nate. Tu sbagli se pensi che io mi stia schierando, purtroppo il mondo là fuori tende a mascherare. Io ho solo voluto togliere il travestimento e ciò che c'è sotto è questo, che piaccia o meno.
Strinsi forte le grate in preda ad un sentimento misto di rabbia e shock.
− E pensi che l'unica soluzione possibile sia questa?
Digrignai i denti e lui rise.
− Vedi? Ti stai arrabbiando. Questo perché la verità è sincera e la sincerità fa arrabbiare, − mi rispose con serenità.
− Rispondimi! − urlai.
L'uomo non sembrò scomporsi.
− Non ho idea di quale sia la soluzione per il mondo e non so neanche se esista. Io di certo non avevo il compito di fornirne una. Sono un semplice brandello di carne con la colpa di aver scoperchiato il vaso di Pandora. Se tornassi laggiù, mi ucciderebbero.
Abbassai lo sguardo senza allentare la presa sulle grate e il tremolio della mia voce anticipò il pianto.
− Se succedesse, sarebbe solo colpa tua, − sussurrai.
Poi improvvisamente l'uomo si alzò da terra, si stiracchiò e sbadigliò.
− Buon per te che hai tutta questa fiducia, piccolo essere umano. Io però adesso ho sonno e credo che mi farò una gran bella dormita.
Si avvicinò al tavolo con un'andatura squilibrata e spense la lampada. Piano piano i miei occhi si riabituarono allo scuro torpore di poco prima. Mi staccai dalla grata ancora con lo sguardo lucido di pianto e riuscii a scorgere i movimenti dell'uomo che si coricava sul suo letto.
− Non è... come dici tu... − fu il mio ultimo contrattacco, flebile, fuoriuscito direttamente dall'anima in lacrime che si spinse oltre il limite con la forza della disperazione.
− In bocca al lupo, piccolo essere umano, − sentì dal fondo della cella mentre mi asciugavo gli occhi con l'incavo del gomito.
Poi fu silenzio.
Quello iniziale, lo spartito silenzioso da riempire con le note angoscianti dei miei passi che però non decidevo a muovere. Quando lo feci, fu per obbligo. Nel buio circostante, sentii un rumore provenire dalla mia sinistra, nella direzione della scrivania. Tirai su con il naso e tesi l'orecchio: era il suono di un gessetto che stava scrivendo qualcosa. Non feci in tempo ad alzare lo sguardo verso la lavagnetta, che i versi erano già stati incisi:

SBARRE
Nel frastuono assordante
di un rintocco impolverato
ci sono io
e ciò che resta
del mio brandello di colpa.

È in quei secondi
di smorfie insanguinate
che vorrei rimanere
prima della condanna finale
che mi rigetta paurosamente
nel mondo, fra gli uomini
mi uccide.

Alle mie spalle l'ascensore si aprì.

Un vento di distanza Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora