SETTE

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Giorno

Quella domenica decisi di rimanere chiuso.
Era da inizio anno che non mi prendevo una pausa dal lavoro e dedicare quella calda giornata di primavera a me stesso mi era sembrata una buona idea.
Mi svegliò l'afa: ormai era aprile, le giornate cominciavano ad allungarsi e le temperature a salire. Dormivo con una maglietta a maniche corte, ma quando mi resi conto del lago di sudore che avevo formato sul letto, capii di dover cambiare le lenzuola e farmi assolutamente una doccia; poco male, mi avrebbe svegliato più velocemente.
Dopodiché, impiegai qualche ora per mettere a posto la casa: la libreria mi occupava molte ore al giorno, soprattutto durante il fine settimana; quindi, quando tornavo a casa avevo soltanto la forza di preparami da mangiare, fare una doccia e crollare a letto − nella costante speranza che nessuno strano sogno venisse inaspettatamente a visitarmi. Dalla notte della biblioteca e della spiaggia, però, sembrava che il flusso di avventure oniriche si fosse fermato. A questo punto non credevo più alle coincidenze: c'erano stati fin troppi indizi concordanti per pensare a delle semplici casualità e una strana sensazione continuava a dirmi che, prima o poi, questo "sogno a puntate" sarebbe ritornato per mostrarmi dell'altro.
Mi venne fame e decisi di fare colazione in un bar vicino al mare, ma prima di uscire di casa tornai in camera da letto e mi misi a rovistare nei cassetti della mia scrivania per ritrovare il quaderno su cui avevo scritto la bozza di quella che sarebbe diventata la mia raccolta di poesie.
Ripulii dalla polvere la copertina che raffigurava le onde di un mare in tempesta infrangersi sugli scogli, me lo misi sottobraccio e uscii di casa.

Fu una colazione meditativa: i sorsi di cappuccino inframezzavano le lente riletture delle poesie nel quaderno. Ora sì che erano proprio le mie. Ripassavo le dita sull'inchiostro ormai consumato e ripensavo all'enorme fatica spesa per tessere un comune denominatore di significato fra tutti quei versi; alle tante ore di correzione, di scelta dei titoli e delle parole.
Parole. Sono sempre stato ossessionato dalla parola.
Nel secolo scorso, una vera e propria colonna portante della poesia italiana, Giuseppe Ungaretti, aveva percepito in modo molto chiaro le grandi potenzialità che la parola poteva assumere in base a come venisse utilizzata; le sue poesie si presentano tutte nella forma stilizzata della diplomazia, per poi esplodere come bombe che frantumano in mille pezzi i contorni dell'anima e li ricostruiscono a proprio modo.
È da lui che ho tentato di prendere ispirazione per la costruzione dei miei versi: l'importante per me è sempre stato cogliere una sensazione, una percezione emotiva, una soggezione. Così era stato anche per la scrittura di Volo: andai alla pagina dove si trovava, accarezzai quei caratteri che solo ora mi apparivano familiari e notai che all'angolo superiore destro della pagina si trovava un piccolo disegno giallo a forma di stella.
Non ricordo di aver mai disegnato una cosa del genere.
Inclinando leggermente la pagina, notai che la luce del sole si rifletteva sulla superficie dell'immagine, come se quel disegno avesse una consistenza lucida. Bevvi nervosamente l'ultimo sorso del cappuccino ormai raffreddato e sfogliai il quaderno: nessun'altra pagina era contraddistinta dalla stella.
− Mi scusi... − La voce del cameriere mi portò via dalla selva spaventosa dei miei pensieri. − Posso portare via? − mi chiese, indicando la tazza vuota e il piatto dove fino a poco prima c'era una brioche alla crema.
− Sì, certo, ho finito grazie, − risposi, ma la voce mi uscì poco più alta di un bisbiglio.
− Signore, dovrebbe pagarmi qui al tavolo senza passare dalla cassa, se non le dispiace.
− Certamente, − e feci per tirare fuori il portafogli dalla tasca, ma tremavo. Il cameriere se ne accorse.
− Si sente bene? Vuole un bicchiere d'acqua?
− No no, grazie mille. Tutto a posto davvero.
Finsi un sorriso e pagai. Se nemmeno io ero in grado di comprendere quello che mi stava capitando, figuriamoci spiegarlo a qualcun altro.

L'aria della tarda mattina mi riempì i polmoni e mi liberò per un attimo dall'apnea dei dubbi in cui ero finito.
Quel giorno mi ero svegliato, spinto da non so quale istinto, con il desiderio di portare con me il quaderno delle poesie e di recarmi nel luogo in cui mi aveva catapultato l'ultimo sogno, cioè la spiaggia, sperando di poter ottenere lì delle risposte. Dopo la scoperta del disegno della stella, il desiderio si trasformò in angoscia, ma decisi comunque di non demordere.
La sabbia era fredda: era stato il mio fedele compagno di viaggio Istinto a suggerirmi di togliere le scarpe, come se stringere un contatto fisico con quell'ambiente fosse una condizione imprescindibile per il mio obiettivo. Era di un freddo che si insinuava nelle vene a partire dalla pianta del piede e aveva lo stesso effetto di una cascata di cubetti di ghiaccio sulla schiena.
La superficie della spiaggia era piatta e deserta come una tela ancora vergine degli schizzi del pittore; il vento fresco aveva modellato i granelli secondo una geometria che si sviluppava solo di notte, all'insaputa del mondo, quando le migliaia di impronte lasciate dai visitatori venivano magicamente inglobate nel mondo sotterraneo e rese parte della grande tavola piana che si estendeva ai miei piedi.
Ecco cosa siamo in realtà: orme istantanee e serpeggianti inglobate dal mare della regolarità. Avere fra le mani il quaderno dei miei versi influenzava la natura poetica di ciò che pensavo.
Il mio sguardo proseguì lento nell'osservare quella distesa dorata di sabbia in un sentiero immaginario, che partiva dai miei piedi e giungeva alla riva del mare, finché non fu ostacolato da un'immagine.
In lontananza, un bambino stava saltando su un piede verso il mare, cambiando gamba ad ogni salto: indossava una maglietta gialla, dei pantaloncini scuri ed era scalzo. Anche da lontano riuscivo a sentire distintamente il brusio della sua dolce voce canticchiare un ritornello inventato e il mio sguardo non riusciva a staccarsi dalle sue braccia che, mentre compiva i salti, mimavano il movimento delle ali di un aeroplano in volo.
Avvicinandomi verso di lui, mi accorsi del percorso che aveva compiuto: le sue piccole orme erano partite da uno scivolo arrugginito, che in estate faceva parte dell'area giochi dello stabilimento balneare di quella porzione di spiaggia, ed erano proseguite in orizzontale, seguendo il loro particolare moto ondulatorio: viste dall'alto sembravano piccoli missili, iperattivi come le parole di una poesia, infermabili e capaci autonomamente di decidere quale fosse il loro punto di approdo.
Scoprii facilmente che il punto di arrivo delle orme del bimbo fosse il mare: quel sentiero poetico, tracciato come la linea fluida di un pennello d'autore, si disperdeva armoniosamente a contatto con la riva; quando sfiorava l'acqua, il bimbo-aeroplano decideva di virare la sua traiettoria e iniziare la costruzione di un nuovo percorso, come se quello vecchio riemergesse dal mare e proseguisse all'infinito in avanti nella nuova direzione.
− Ciao, − gli dissi mentre stringevo al petto il mio quaderno.
Il bambino si stava allontanando dalla riva per costruire il nuovo percorso e non mi aveva visto arrivare perché era concentrato sui salti. Appena sentì la mia voce, si fermò su un piede, lentamente abbassò anche l'altro, mi sorrise e mi salutò timidamente con la mano. Aveva una capigliatura corta e castana, degli occhi meravigliosamente azzurri e non dimostrava più di otto anni.
− Che ci fai qui da solo?
Fece spallucce. − Sono venuto a giocare, abito qui vicino, − e col dito mi indicò in lontananza la strada del bar da cui ero venuto.
− Giochi da solo? Non hai amici?
Apparve risentito dalla seconda domanda.
– Certo che li ho, ma oggi hanno da fare. E poi a loro non piace il mare.
− Perché no?
− Boh, dicono che a giocare qui si sporcano con la sabbia. Anche le loro mamme non vogliono, quindi vanno sempre al parco, ma io non ho sempre voglia di andare al parco, perché mi annoio.
Mi inginocchiai per poterlo guardare dritto negli occhi, anche se a qualche metro di distanza.
− E la tua mamma invece ti permette di venire qui?
Annuì soddisfatto.
– Sì sì, la mia mamma ama il mare, mi dice che posso venire quando voglio, − poi fece una piccola smorfia e concluse: − Ma non devo fare il bagno da solo senza di lei.
− Beh, la tua mamma ha ragione, sarebbe pericoloso, non credi?
Il bimbo abbassò la testa e allargò le braccia.
– Sì, ma a me piace il mare.
− Dai, fra poco arriva l'estate e potrai fare tutti i bagni che vuoi. 
Gli mostrai il sorriso più convincente che potei. Mi ricambiò, ma non sembrava convinto.
– Sì, ma a me piace volare sopra al mare, non solo fare il bagno − e mi mimò il suo movimento preferito, l'aeroplano, costruendo un cerchio attorno a sé al suono di Vrrrr!
Risi di gusto.
– È più facile fare il bagno che volare, mi sa. Sei così sicuro di poterci riuscire?
Il bimbo si fermò e mi guardò con lo sguardo più fiero che io avessi mai visto.
– Ma certo. Da grande voglio fare il pilota e il mio aereo dovrà essere bianco, il mio colore preferito.
Lo guardai ammirato; sembrava che anche lui avesse uno scopo.
– Te lo auguro tanto, sai, saresti un pilota provetto.
Per qualche secondo il vento prese il nostro silenzio e rimanemmo lì immobili senza dire niente, il Piccolo Sognatore e il Poeta Libraio.
− E tu cos'hai in mano? − mi chiese ad un certo punto il piccolo, indicando il quaderno.
− Intendi questo? − Tentai di prendere tempo per trovare le giuste parole da usare per spiegargli il significato di quello che avevo fra le mani.
− Vedi, è un oggetto molto importante per me. È come il mare per te.
Il bimbo corrugò la fronte per qualche secondo.
– Quindi gli vorresti volare sopra?
Sorrisi.
– Beh, in un certo senso sì. Ci sono volato dentro però, non sopra.
A quest'affermazione il bimbo strabuzzò gli occhi.
− Wow, e come hai fatto? Sai volare?
− No piccolo, magari. Però scrivo... scrivo poesie, − e infine gli rivolsi la domanda che mi provocava più suggestione in assoluto. – Sai che cos'è una poesia?
A questo quesito il bambino sembrò subire una rivoluzione della propria coscienza: osservandolo dritto negli occhi sembrava fosse stato scosso interiormente da un fulmine che lo aveva risvegliato da un sonno profondo. Fu una sensazione difficile da spiegare anche a parole, ma l'azzurro dei suoi occhi mi apparve stavolta di un blu intenso, come se un pittore dentro di lui avesse deciso di cambiare la tonalità del quadro. La profondità in cui ora si trovavano incastonate le sue pupille mi rapì e la percezione fu la stessa provata nel turbine d'inchiostro all'inizio dell'ultimo sogno, con la differenza che ora non mi sentivo solo.
Il bimbo alzò un braccio e indicò il mare.
− Il mare è poesia, − disse come se fosse rapito da qualcosa di invisibile.
I miei occhi avevano seguito il movimento del suo dito che ora tremava, e non credo solo per il vento.
− Sì, hai ragione, il mare è poesia.
Il bambino mantenne fisso il suo sguardo su di me ancora per qualche istante, poi si mosse e mi venne vicino. In silenzio, si inginocchiò e raccolse un pugnetto di sabbia; quando riaprì la manina, la sabbia in eccesso cadde fra le intercapedini delle dita, mentre una piccola montagnetta si era formata sul suo palmo.
− Avvicinati, − mi disse sorridendo. Io obbedii: se fino a poco prima il bimbo mi era sembrato un essere soprannaturale per la sicurezza dei suoi atteggiamenti verso di me, quando feci per accostare il volto, mi accorsi che la sua mano cominciò a tremare dall'emozione di trovarsi vicino ad un estraneo adulto.
Mi accucciai accanto a lui.
− Guarda, − fu l'ultima parola che mi disse, prima di fare un bel respiro e soffiare con tutta la forza che aveva in corpo sulla montagnetta di sabbia nel suo palmo. I granelli si sparsero velocemente in aria davanti a noi, sferzati ognuno in parti diverse dal vento che non sembrava volersi placare. Per un solo secondo mi sembrò che quel volo fosse durato un'eternità, come se il tempo avesse rallentato e io fossi riuscito a scorgere la parabola di ogni singolo granello, dalla nascita fino al suo termine.
− Questa è poesia... credo, − concluse il bambino sorridendomi.
Rimasi a bocca aperta. Non sapevo cosa rispondere a quell'essere umano che mi stava trasferendo qualcosa che finora avevo avvertito solo nei sogni. Spostai gli occhi sulla sua mano rimasta ancora aperta e notai i rimasugli della sabbia incollata dal sudore della pelle. Il bimbo non sembrava avere intenzione di scrollarla.
Fallo parevano dirmi i suoi occhi. Istintivamente quindi, abbassai la mia guancia destra sul palmo insabbiato della sua mano e mi sentii inspiegabilmente al sicuro.
Il gabbiano...
Passarono dei secondi che mi apparvero interminabili, finché fuoriuscimmo da quel limbo di poesia.
− Mi dispiace ma ora devo andare, la mamma mi starà aspettando e non voglio farla preoccupare, − disse il bimbo allontanando dolcemente la mano da me. − Ti ringrazio tanto per aver giocato con me, signore, − aggiunse poi.
Di corsa, senza attendere una mia risposta, lo vidi salutarmi e allontanarsi verso lo scivolo dove aveva lasciato le scarpe, per poi correre verso casa.

Prima di quel giorno non mi ero mai imbattuto nel bambino; nonostante mi avesse chiaramente spiegato che vivesse in zona, non lo avevo mai incontrato. Mi sembrò di aver conosciuto un marziano. Le sensazioni che mi lasciò sono inspiegabili a parole. Ancora oggi considero quello uno degli incontri più travolgenti avuti con la poesia. In ginocchio, mentre lo guardavo correre verso casa, mi resi conto di non avergli chiesto nemmeno il suo nome...
... anche se, non so spiegarmi bene come, mi sembrava di conoscerlo già.

Un vento di distanza Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora