SEDICI

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Giorno

La figura del controllore di motivazioni rimase con me per parecchi giorni dopo la notte del sogno. I risvegli ormai ero in grado di controllarli con relativo equilibrio: lo stupore rimaneva una conseguenza onnipresente, ma non percepivo più la sensazione di essere vittima di una maledizione. Anzi, mi ero sempre più convinto che si trattasse di un'opportunità che il destino per qualche strano motivo mi stesse concedendo: la possibilità di sdoppiare la mia vita in due linee di universo separate, delle quali si sommavano su di me gli effetti.
Stava per terminare il mese di luglio e io sentivo di trovarmi in una pacata e bilanciata convivenza con la mia parte onirica, la quale, oltre ad imparare per sé stessa, inconsciamente trasferiva tutte le sue esperienze al me reale. Dopo qualche settimana di riflessione ero sicuro anche di non aver bisogno di un aiuto psicologico, non perché non mi avrebbe fatto bene, ma semplicemente perché non avevo intenzione di far sapere ad altri ciò che mi stava succedendo.  Stavo cominciando piano piano a considerarla una situazione normale, quindi non c'era motivo di allarmare nessuno. A pensarci bene, potevo − o forse dovevo − considerarmi fortunato: stavo entrando concretamente nella dimensione della mia passione, la poesia, percependola mai come prima viva e pienamente mia. Inoltre, il mio lavoro mi permetteva di limare gli aspetti più spigolosi della situazione, di addomesticarli e sentirli più familiari grazie al potere magico dei libri. Entrare in libreria voleva dire riscoprire dietro ogni singola copertina almeno un pezzetto di casa, un piccolo porto sicuro, una fune di collegamento con il progetto onirico che il destino aveva organizzato per me, che lo rendeva in qualche modo più stabile; una "stazione", insomma, come con disprezzo l'avrebbe definita il controllore.
Tornando a lui, il suo discorso mi fece riflettere su me stesso molto più di quanto non avessi mai fatto fino a quel momento: stavo realmente occupando una posizione nel mondo o esistevo solo in qualità di essere umano? La cosa certa era la mia insicurezza: non avrei mai saputo dire con chiarezza in quale zona del bosco − per usare una sua metafora − mi trovassi in quel momento. Probabilmente si trattava di un processo intimo e istintivo, una consapevolezza intrinseca che si genera solo nel momento in cui raggiungi quello status, ma che a parole è praticamente impossibile da definire. Se la conversazione fosse continuata, è probabile che il controllore mi avrebbe collocato nel bel mezzo della foresta: un esemplare perfetto di pellegrino errante che ha sconfitto la paura delle cose, che si è lasciato abbandonare. Per il controllore questa era, forse, la condizione più vicina alla felicità.
Io non mi sentivo di aver sconfitto nulla in realtà; avevo scelto di diventare libraio per una passione che, inconsciamente e con costanza, si era insinuata in me come una vera e propria necessità, un bisogno che si trasformò ben presto in un'arma. Sì, perché nonostante la paura fosse il sentimento che in me veniva fuori con più energia, tanto da imporsi nettamente su tutti gli altri, la lettura mi ha sempre accompagnato in questa lotta, indipendentemente dal risultato finale, come era accaduto quando, al risveglio dal primo sogno − quello in cui avevo fatto la conoscenza dell'ascensore per la prima volta − subito cercai aiuto nel libro che mi stava accompagnando in quel periodo, La stanza 102, sperando potesse darmi delle spiegazioni a riguardo.
Al risveglio dall'incontro con il controllore, quindi, spalancai istintivamente gli occhi dall'incredulità, ma in pochi secondi razionalizzai l'accaduto e iniziai la giornata. Questa volta, allo specchio del bagno non ritrovai il volto sudato di un ragazzo impaurito, come era successo fino a poco tempo prima, ma lo sguardo limpido e profondo di chi ha imparato qualcosa di molto importante. Percepivo per la prima volta un flusso di vitalità liquida scorrere sotto le guance di quel viso; una linea d'occhi spigolosa come quella di un'aquila che agogna di scoprire il covo della sua preda; un sottile strato di stanchezza dignitosa, di sacrificio consapevole. Mi sciacquai la faccia e mi sembrò di sentire i pori della pelle che assorbivano le gocce d'acqua con la stessa foga con cui le radici si sfamano della pioggia che cade durante un temporale. Fu una sorta di nuova rinascita. Rifeci il letto, aprii la finestra per purificare l'aria viziata della stanza, mi vestii e indugiai per qualche secondo in piedi davanti alla scrivania, guardando fisso il cassetto chiuso in cui si trovava il quaderno delle poesie. Sapevo già cosa avrei trovato aprendolo alla voce Ho scoperto il vento, per cui evitai di farlo.
Quella mattina, prima di aprire la libreria sentii il bisogno di tornare nel punto della spiaggia dove, qualche tempo prima, avevo incontrato il bambino misterioso. Da quel giorno di primavera non avevo più avuto notizie di lui − il passare del tempo lo aveva reso un pensiero secondario −, mentre ora sentivo che una parte di me aveva la necessità di ricostruire un legame anche con lui, una sorta di riconciliazione dei pezzi che mi costituivano. Dopo essere riuscito a ripristinare la mia memoria completandola, il riavvicinamento all'essere umano a cui, fino a quel momento, mi ero sentito più simile, era come il tassello mancante del puzzle della mia integrità.
Giunsi in spiaggia alle otto, quando il Sole da poco aveva cominciato a scaldare la sabbia e fortunatamente in giro non c'era ancora nessuno. Durante il corso dell'anno la spiaggia era in grado di trasformarsi completamente, un luogo capace di rispondere alle necessità di ciascuno: da platea poetica e spalancata sul mare d'inverno, deserta e contemplativa, in pochi mesi diventava una fervida e affollata piazza d'incontri assolati.
In cui scovare un bambino era inevitabilmente impossibile.
Avevo sperato che in un momento di solitudine come quello, potessi rincontrarlo lì a disegnare le sue traiettorie di volo con i piedi, ma ipotizzai troppo tardi che potesse ancora essere a letto a dormire. Camminai a riva per parecchi metri, fino a che non vidi arrivare i primi bagnanti che prendevano posto ai loro ombrelloni. Tornai indietro senza successo, ma promisi di tornare, magari ad un orario diverso, sempre che non fosse venuto prima lui da me in libreria.

Mezz'ora dopo aprii il negozio: spazzai il pavimento, lucidai le vetrine e sistemai i libri lasciati in disordine dai clienti il giorno prima. Accesi il computer e la cassa, controllai che il bancone fosse in ordine e, in attesa dell'inizio della giornata, portai lo sgabello fuori, sul lato destro della libreria, dove un largo piazzale in cemento conduceva direttamente all'inizio dello stabilimento balneare che sorgeva lì di fianco. La vicinanza al mare era tale da rendere quella zona sempre arieggiata, fresca ed esposta al Sole di mattina. Non volli perdere quell'occasione, quindi mi sedetti sullo sgabello al centro dello spiazzo, chiusi gli occhi, respirai e mi godei il fresco e silenzioso vento della mattina.
Dopo una quindicina di minuti, una voce giovane maschile pose fine a quel torpore magico, risvegliandomi.
− Ehi, mi scusi, è lei il signore della libreria? Ho visto che dentro non c'è nessuno.
Sorrisi. Il Signore della libreria. Immaginai un indegno spin-off della trilogia di Tolkien. Poi aprii gli occhi e osservai colui che avevo di fronte.
Si trattava di un ragazzo dai lineamenti orientali. Ipotizzai avesse all'incirca una ventina d'anni − informazione che poco dopo mi avrebbe confermato lui stesso −. Si presentava con un'acconciatura tipica delle sue parti, un caschetto di capelli neri lucidi che gli ricadevano sulla fronte con una frangia precisissima. Gli occhi gentili sovrastavano un naso schiacciato e una bocca sottile. Indossava una t-shirt color pelle sotto ad una camicia nera a maniche corte con delle stampe giapponesi agli orli, dei bermuda fino alle ginocchia e un paio di scarpe sportive. Portava uno zaino nero sulle spalle e con entrambe le mani abbracciava al petto dei libri. Era abbastanza basso.
− Sì, sono io. Scusami, arrivo subito.
Presi lo sgabello e rientrai in fretta e furia nella libreria, seguìto dal ragazzo.
− Prego, dimmi pure, − dissi mentre mi sistemavo dietro al bancone.
Poggiò sul tavolo i tre libri che teneva in mano; buttando una rapida occhiata, mi accorsi che si trattava di manga.
− C'è il reparto manga qui? − mi chiese.
− Sì, certo. È qui dietro di te, in fondo a destra, − risposi indicandogli la direzione oltre le sue spalle, poi aggiunsi: − Sei giapponese?
Il ragazzo si guardò alle spalle per capire dove andare, poi tornò a guardarmi e sorrise.
− Si sente tanto, vero?
− No, in realtà ti avrei detto esattamente il contrario. Hai imparato molto bene la lingua italiana. Ti si riconosce dai lineamenti, ma ti assicuro non dalla voce.
− Ti ringrazio. Sono qui da quasi un anno in Erasmus da Tokyo, ma l'italiano lo studio da quando sono bambino. Quando sono arrivato qui, avevo già qualche base.
− Veramente affascinante. La vostra cultura è molto particolare, noi da qui vi guardiamo spesso con ammirazione.
Il ragazzo sorrise.
− Anche noi vi guardiamo così. Sono venuto fin qui per questo motivo. Viviamo in modi molto diversi e sembra che non facciamo parte dello stesso pianeta, ma ci ammiriamo a vicenda. Eppure, si può prendere un aereo e in qualche ora si copre la distanza. È quello che ho voluto fare io, perché ero molto curioso.
− E ne sei rimasto deluso?
Il ragazzo fece cenno di no con la testa, sicuro.
− No, assolutamente, anche perché non sapevo con precisione cosa aspettarmi. Sapevo solo che sarebbe stato diverso, e così è stato. Qui in Europa mettete molta passione nelle cose che fate, − poi si bloccò un attimo e vidi che strizzò gli occhi, come se stesse pensando a qualcosa. Alla fine, continuò: − Com'è che lo chiamano i greci? Ecco, pathos. Siete una società piena di pathos, dal Colosseo alla pizza. Vedo come se avete deciso di vivere seguendo l'arte in tutte le sue forme e studiando la vostra storia, si capisce bene da dove è partito questo processo.
− Sembra che tu lo stia dicendo come se in Giappone l'arte fosse una scoperta ancora da fare, − risposi sorridendo.
− No, non è questo. È che noi siamo un po' più formali. Siamo in grado di costruire legami con l'arte, la storia, la musica, la poesia, ma rimaniamo sempre un gradino indietro. Siamo più silenziosi, perché consideriamo il silenzio una forma di rispetto. La vostra immersione nell'arte, invece, è concreta e fa parte del prodotto che viene fuori; nel nostro caso invece, la passione resta dietro le quinte, nel modo in cui si forma l'arte, mentre il prodotto finale sembra quasi freddo. Comunque, anche se provengo da questa mentalità e ovviamente non ho motivo di rinnegarla, credo però che a volte sia necessario prendere spunto da voi, tirare fuori dalle cose un po' di istinto: spesso nel mio paese si conserva tutto, come in uno scrigno, anche i sentimenti, per paura che vengano rovinati dal contatto con il mondo esterno. È per questo motivo che sono qui ora, per guardare con gli occhi un po' di meraviglia.
Meraviglia...
Il pensiero all'acrobata giunse istantaneo, l'uomo che mi aveva dimostrato che custodire il proprio scopo equivale a compiere qualcosa di meraviglioso. Ricordo che il dialogo con lui fu molto più enigmatico degli altri, perché non parlò mai con immagini concrete, ma si concentrò nel metterle in pratica, specificando che era impossibile vedere un'emozione e che fosse necessario soltanto sentirla. Mentre scivolava leggero sulla corda sopra il laghetto come neve su un pendio, mi mostrò la sua meraviglia con lo stesso istinto a cui stava facendo riferimento il ragazzo giapponese.
− Ti è mai capitata una cosa simile? − mi chiese poi.
Rinvenni dal torpore psichico in cui ero caduto scuotendo rapidamente la testa e tornai a percepire la voce del giovane forte e chiara, non più come colonna sonora ovattata dei miei pensieri.
− Cosa intendi? − chiesi ancora un po' intontito.
− Di guardare qualcosa e considerarla meravigliosa.
− Sì, è capitato anche a me. A dire la verità, mi succede ogni volta che entro qui. Vedi, stare in mezzo ai libri per me è una scoperta continua, come se il cuore e il cervello si nutrissero continuamente.
− Per descrivere questo rapporto noi usiamo il termine Mono no aware. Alcuni lo traducono con "sensibilità delle cose", altri con "partecipazione emotiva alle cose", come se avessero lo stesso significato, ma per me sono due traduzioni molto diverse e io personalmente sono sempre stato a favore della seconda. Partecipare emotivamente secondo me è qualcosa di molto più profondo della semplice sensibilità. Siamo sensibili verso qualcuno che prova dolore, ad esempio, ma se si partecipa in modo attivo a quell'emozione vuol dire che si decide di farla passare anche nel proprio corpo. Se si applica il Mono no aware è come se si possedessero sei sensi: i primi cinque per cogliere gli stimoli del mondo reale e il sesto, l'anima, per introdurre noi stessi nelle emozioni. Se non si usano tutti, è come se non si vivesse interamente. E la vita, alla fine, è una, destinata a finire. Credo sia un vero spreco.
Ero letteralmente estasiato. Mi sentivo catapultato in un giardino di alberi di ciliegio, accerchiato da un vento fresco e pacifico. Presi da sotto il bancone, in uno dei tanti cassetti pieni di cianfrusaglie di cancelleria, un foglio ed una penna e ricopiai il termine che aveva spiegato il ragazzo.
− Perché lo trascrivi? − mi chiese.
− Ecco vedi, io amo scrivere poesie. Ho pubblicato una raccolta qualche anno fa, ma non ho mai smesso di portare avanti questa passione; anzi, se c'è qualcosa o qualcuno che può darmi degli stimoli, non mi faccio sfuggire l'occasione di appuntarmeli. Ti assicuro che sei stato appena in grado di raccontare una poesia a tutti gli effetti, travestendola in una spiegazione orale.
Il ragazzo sembrò avere un'illuminazione su qualcosa e sgranò gli occhi, sorridendo.
− Praticamente tu sei simile a chi pratica lo Tsundoku.
Lo guardai perplesso, ma al contempo affascinato.
− Credimi, non so di cosa tu stia parlando, ma mi hai rapito. Di cosa parli?
Il giovane giapponese rise di gusto, poi tornò serio e mi disse:
− Lo Tsundoku è un'azione che consiste nell'acquistare molte cose da leggere, per poi lasciarle in un angolo ad impolverarsi, in attesa di essere lette. Tu lo fai con le parole e le idee che più ti stimolano, finché non arriverà il giorno in cui li userai, dico bene?
Annuii lentamente, estasiato dalle parole del ragazzo.
− Esiste davvero un termine che descrive una cosa del genere? − chiesi.
Il giovane sorrise.
− Certo. Te l'ho detto, per noi il rapporto poetico sta dentro le cose, si nasconde dietro le quinte. Ed è molto diretto: pensa che esiste una parola che descrive la luce del Sole che passa attraverso le foglie e i rami degli alberi, creando uno strano effetto di luce. Il fenomeno prende il nome di Komorebi.
Segnai, quasi convulsamente, anche quel termine.
− Penso che rimarrei ad ascoltarti per ore, − gli dissi grattandomi la testa.
Lui rise ancora, poi sospirò:
− Eh sì, se ci pensi studiare le parole è come assistere al gioco di prestigio di un mago e chiedersi quale trucco ci sia dietro. Quel dietro è il pathos giapponese.
− E poi personalmente è molto complicato non lasciarsi affascinare da queste cose, − aggiunsi. − Soprattutto per chi come me ha la passione per la scrittura. Scoprire i segreti delle parole significa rivelare i misteri dell'Universo.
Il ragazzo mi guardò e sorrise languidamente. Nei secondi di silenzio che seguirono, l'occhio mi cadde sui manga che aveva poggiato sul bancone. Ovviamente erano scritti in lingua originale. Avevo cominciato solo da poco tempo ad ordinarne qualcuno per la libreria; quindi, non ne avevo una grande conoscenza e non riuscii a riconoscerli neanche dalla copertina. Il fatto che si dovessero leggere al contrario rispetto ai nostri comuni libri o che le dimensioni dei volumi fossero più piccole rispetto a come ero abituato, mi tenne sempre un po' lontano da quel genere letterario. Ero, ad esempio, molto più curioso di guardare gli anime alla tv, opere di animazione di stampo giapponese, che spesso nascevano come trasposizioni animate di una storia tratta da un manga. Insomma, ne avevo una cultura più commerciale che da vero e proprio intenditore.
− Di che si tratta? − chiesi.
Il ragazzo mi raccontò storie fantastiche: futuri distopici destinati all'autodistruzione che tentano di essere salvati da gruppi di persone − spesso ragazzi − che tentano di proteggere l'umanità; mondi in cui le società e le classi dirigenti sono fondate su degli anti-valori, come la furbizia, l'egoismo, l'individualismo e che vengono combattute da giovani ribelli moralmente integri; futuri in cui la tecnologia ha superato i limiti dell'etica, ritorcendosi contro gli stessi che l'hanno sviluppata e obbligando l'uomo ad un'obbedienza forzata e spesso violenta; infine, storie fantasy di giovani superdotati di poteri eccezionali che studiano per affinarli e metterli a disposizione del Bene nell'eterna lotta al Male.
− Ammetto di non essere mai stato così tanto amante dei manga, − cominciai dopo la sua spiegazione. − Soprattutto per la struttura delle opere in sé, mentre nelle tematiche siete sempre così tanto avanti. Riuscite ad alternare finzione e possibile realtà in modo molto coinvolgente. Anzi, credo che in questo siate i maestri. E poi, c'è sempre una sorta di avvertimento per il futuro nelle vostre opere, come se gli autori volessero mettere in guardia le generazioni di giovani che qualcosa di grave potrebbe accadere se ci si abbandona alla cattiva strada.
Mi fermai un secondo e notai che il ragazzo stava annuendo, probabilmente d'accordo con la mia analisi.
− Ma la cosa che mi colpisce di più, − aggiunsi poi, − è l'atteggiamento che mostrate nei confronti della censura. Siete molto diretti nell'affrontare temi delicati come la sessualità o la violenza e ciò li rende più veri e soprattutto degni di considerazione. Se si nasconde la realtà dietro un'eccessiva finzione narrativa, si finisce per costruire un mondo che non esiste e si allontana l'attenzione di chi legge dai reali problemi di cui bisognerebbe trattare. Il fascino giapponese sta proprio nel saper dire le cose in un modo unico e riconoscibile nella propria verità.
Il ragazzo mi guardò stupito.
− Credo tu abbia fatto un riassunto perfetto di buona parte della cultura del mio paese. Sono ammirato.
Dopo qualche secondo, il giovane si voltò verso il reparto manga e si avviò in quella direzione. Mentre lo osservavo camminare mi tornò in mente il signor M., che durante la nostra conversazione aveva fatto riferimento alle opere e allo stile del maestro Hokusai. Ora, grazie all'incontro con il giovane giapponese, stavo avendo l'opportunità di verificare concretamente ciò che in quella conversazione ci era sembrata solo una descrizione teorica di un mondo lontano migliaia di chilometri dal nostro.
Passò circa mezz'ora nella quale io continuavo ad intramezzare le mie fantasticherie sul Giappone al controllo degli ordini di quel giorno sul computer; il ragazzo, invece, era ancora intento a consultare volume per volume i diversi manga che avevo in esposizione. A giudicare da come cambiavano le sue espressioni, conclusi che non tutte le storie gli apparvero originali o meritevoli di essere lette; forse, come era per noi, a volte gli autori si lasciavano andare alla banalità del prodotto, generando la rabbia dei lettori. Lui comunque lesse tutte le trame, alcune anche due volte; non si lasciò sfuggire nessun dettaglio, doveva essere sicuro della propria decisione, avendo fra le mani tutti gli elementi che componevano i racconti, altrimenti sarebbe stato come condannarli senza dare loro il giusto diritto di replica. Il giovane giapponese era bravo ad insegnare qualcosa anche con i gesti: ora mi stava mostrando l'importanza di concedere sempre alla lettura − e forse anche alle persone − una seconda possibilità.
Quando tornò al bancone mi porse un solo volumetto da acquistare: la copertina raffigurava una giovane ragazza, magra, dai capelli lunghi castani, rivolta di spalle rispetto a chi osserva e vestita di un leggerissimo abito di lino estivo, sotto un rigoglioso ciliegio in fiore che spuntava all'angolo destro del manga dove, al contrario dei romanzi occidentali, si trova la costa del manuale. Avvolta in un vento soffice che le gonfiava i capelli e il vestito, era intenta a salutare un aereo grigio minuscolo che si allontanava in cielo nell'angolo in alto a sinistra.
Me lo rigirai fra le mani, incuriosito.
− Sembra poetico, no?
Il giovane fece spallucce.
− Sì, così sembrerebbe. Sulla quarta di copertina c'è scritto che i ciliegi hanno un ruolo fondamentale all'interno della storia. E poi mi piace il contrasto fra il rosa acceso dell'albero e lo sfondo bianco, mi dà un senso di pace. Sono curioso di sapere se anche la lettura sia all'altezza di questa sensazione.
Sparai il codice a barre del libro con la pistola a radiofrequenza, aggiornai l'archivio sul computer e preparai lo scontrino in silenzio. Poi gettai un'altra occhiata alla copertina del libro, prima di metterlo nella busta con la ricevuta, e la curiosità sorse spontanea.
− Tu l'hai mai vista la fioritura dei ciliegi?
Il giovane giapponese prese in mano la busta e mise dentro gli altri suoi tre manga, poi mi guardò e sorrise.
− Certo, più di una. 
− È suggestiva, vero?
Dovette accorgersi dell'incanto che i miei occhi stavano provando in quel momento.
− È la reincarnazione della magia. Immagina che tutto quello di cui abbiamo parlato oggi abbia una forma nella realtà. Ecco, è quella dei ciliegi in fiore. È un fenomeno che si ripete ogni anno, ma ti posso assicurare che la potenza con cui ti colpisce è sempre la stessa. È come se ogni anno, all'incirca nel mese di aprile, la Natura si mettesse a dipingere un quadro sul nostro pianeta, un insieme di pennellate rosa che per noi significa fragilità, rinascita e bellezza. 
Fece per voltarsi, poi si fermò e aggiunse: − E poi, a proposito di termini difficile da tradurre, in Giappone ce n'è uno, Hanami, che indica proprio l'azione del "guardare i fiori", considerata un vero e proprio rito. Ci si stende con un telo sotto l'ombra di un ciliegio e si fa un picnic mentre si osserva la fioritura che nasce. Guardare i fiori vuol dire riscoprire alle sue origini la vita che viene fuori dalla sorgente, sentire come lentamente un fiore che matura e si espande può riempire inaspettatamente tutti i vuoti dell'anima.
Batté dolcemente una mano sul bancone, segno che doveva andar via. Camminò fino alla soglia della libreria, poi si voltò per l'ultima volta.
− Se ci pensi, basta così poco per sentirsi vivi, − disse.
Mi salutò e finché non vidi il suo caschetto di capelli lucido diventare un puntino in fondo alla strada di fronte, non mi ripresi dallo stupore.

Un vento di distanza Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora