CINQUE

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Sogno

Con un tonfo sordo l'ascensore si fermò di colpo.
Mi si presentò una stanza buia, che si rischiarò a mano a mano che la porta si apriva, facendo entrare i fasci di luce nella cabina in cui mi trovavo.
La riconobbi come una piccola biblioteca. Sulla sinistra si trovava un'elegante poltroncina in pelle rossa con sopra un grosso manuale aperto e rovesciato sulla copertina; proseguendo lungo la parete, che si incrociava ad angolo con quella in fondo, si sviluppavano due lunghe librerie in legno, composte da una decina di scaffali orizzontali che partivano dal pavimento fino al soffitto, riempiti ognuno da una serie sconfinata di libri; sulla destra un'imponente scrivania, anch'essa in legno ma senza sedia, su cui si trovavano un antico planisfero e un impolverato mappamondo; al centro, due colonne portanti conferivano all'ambiente un senso di solennità.
Feci un passo in avanti molto lentamente e subito fui inebriato da un'ondata di aria fresca; quel luogo doveva essere stato abbandonato da molto tempo al buio e il gelo aveva preso il sopravvento: rabbrividii. Paralizzato nei miei pensieri fui preso di soprassalto quando sentii alle mie spalle un suono simile a quello di un campanello: mi voltai e vidi che l'ascensore si stava chiudendo e la luce a poco a poco scompariva. Non sentii muoversi il motore che reggeva il sistema, segno che la cabina era rimasta a quel piano.
Come se stesse aspettando me.
Non avevo idea di cosa avrei dovuto fare in quella stanza per riaprire l'ascensore: non c'era un pulsante laterale che poteva aiutarmi; era come se da un momento all'altro avrebbe potuto aprirsi da solo. Quindi, l'unica cosa plausibile che mi venne in mente di fare fu esplorare, ma c'era il problema della luce. All'improvviso dal soffitto si accese un lampadario che fino a quel momento non avevo notato: aveva la classica forma a candelabro antico, su cui erano illuminate dieci candele e da cui pendevano dei gioielli che seguivano armonicamente i lineamenti della sua struttura.
La luce che emetteva era calda e quasi accogliente.
Lo fissai per qualche secondo, sperando potesse darmi delle risposte su cosa stesse succedendo, ma alla fine capii che dovevo cercarmele da solo.
Il mio istinto di libraio maniaco dell'ordine mi diresse verso il libro ribaltato sulla poltrona alla mia sinistra. Aveva una copertina rigida completamente rossa, senza scritte o disegni, era molto impolverato, ma si presentava in condizioni accettabili. Lo presi in mano per spolverarlo: a giudicare dal peso, poteva contare all'incirca trecento pagine e già fantasticavo sulla storia che potesse essere stata raccontata, ma poi lo girai:

Tu non conosci
i ponti
perché sei abituato a saltare.
Non ti ispira la radice
ma la foglia che balla.
Cancelleresti il mare calmo
per una marea pulsante.
E se solo ti chiedessero chi sei
batteresti le tue ali
di gabbiano dal cuore veloce.

Era una delle poesie contenute nella mia raccolta, quella che avevo accennato alla signorina F., pubblicata qualche anno prima. Si intitolava Volo.
I versi erano scritti al centro della pagina con una calligrafia asciutta, senza particolari abbellimenti, tranne che per una miniatura arzigogolata della prima lettera maiuscola. La lettura mi provocò contemporaneamente un forte senso di dissolvenza e di panico.
Cosa ci fa una mia poesia qua dentro? E chi l'ha scritta?
Quando avevo composto quella poesia, avevo tentato di dare una forma concreta ai concetti di velocità e leggerezza, che di solito non ero in grado di applicare al mio modo di vivere: era stato una specie di salto nel buio, l'avanscoperta di un ecosistema che non avevo mai visitato e in cui speravo di poter costruire un rifugio. Ora, trovandomeli davanti in una scrittura diversa dalla mia, apparivano lontani anni luce da me e forse proprio questa condizione mi portò a percepirli meglio.
Trascorsi i primi attimi nel panico, mi calmai e rilessi più volte i versi, finché non fui attirato da qualcosa di familiare...
...la foglia che balla.
Era la stessa immagine con cui F. aveva deciso di chiudere la nostra conversazione: mi aveva detto che il viaggio della foglia è destinato a durare a lungo.
Il mio viaggio. Una goccia di sudore mi scese sul lato destro del volto. Spostai poi lo sguardo sulla pagina di destra e notai un'altra scritta, ma questa volta sapevo perfettamente da dove provenisse la sensazione di sgomento che mi prese.

scòpo, s.m [dal lat. tardo scopus, gr. skópos, "bersaglio"] FIG. risultato a cui si tende, ciò che costituisce il fine, il motivo di una certa azione, di un certo modo di procedere.

Il ritorno incandescente di quella parola; ammetto che, da quando aveva cominciato a mostrarsi nella mia vita, quello fu il primo momento in cui mi sentii perseguitato. Se qualcuno stava cercando in tutti i modi di dirmi qualcosa, era riuscito ad essere molto enigmatico e questo non faceva altro che riempirmi la testa di domande a cui probabilmente non c'era risposta.
A quale fine devo tendere? Verso cosa devo procedere?
Mentre rimuginavo su questi dubbi, passai lentamente le dita sull'inchiostro nero e freddo, nell'assurda convinzione di poter toccare con mano il loro significato più profondo, quando all'improvviso vidi le lettere muoversi e uscire dalla pagina. In quel momento, tentai disperatamente di richiudere il libro per intrappolarle nuovamente dentro, ma era troppo tardi: le lettere iniziarono a muoversi lentamente, formarono una spirale attorno ai miei piedi e si ingrandirono sempre di più.
Preso dal panico, istintivamente mi diressi di corsa verso l'ascensore, in un tentativo disperato di scappare da una dimensione che mi stava intrappolando in essa, ma mi accorsi che le gambe non rispondevano ai miei comandi, come incollate al suolo da una forza invisibile.
A quel punto ruotai freneticamente lo sguardo attorno per tentare di capire se ci fossero oggetti che potessi utilizzare per difendermi da quella spirale di inchiostro nero, che nel frattempo era arrivata al volto: c'era la poltrona, ma non riuscivo a piegare le ginocchia per raggiungerla e tutto il resto degli oggetti era fuori portata. Provai allora a scacciare le lettere, come si fa con gli insetti fastidiosi, ma le mani le attraversavano come fossi un fantasma.
Dopo qualche secondo fu nero, ma durò poco.
Mi ritrovai, infatti, su una spiaggia.

Le lettere attorno a me si dissolsero nell'aria frizzante di mare; le onde erano rabbiose, ululavano con tonfi sordi sulle crepe degli scogli e in cielo non c'era una nuvola.
Avevo freddo, ma in compenso avevo riacquisito la funzionalità delle gambe; deglutii e mi passai una mano fra i capelli, in preda allo sconforto. Feci un profondo respiro, volevo racchiudere il mare nei miei polmoni per liberarmi della sensazione di oppressione che quel vortice di inchiostro mi aveva lasciato addosso.
Attorno solo sabbia bianca a perdita d'occhio. Nel punto in cui la spiaggia si sarebbe dovuta incontrare con la strada, c'era una cortina di nebbia bianca che non permetteva di guardare oltre. Seguendo con lo sguardo, mi accorsi che tutta la riva era rinchiusa in quel contorno fumoso e inorganico, immersa in un'aria rarefatta, che ogni tanto spirava dolcemente per ricordarmi che mi osservava. Non so se il brivido che mi percorse fu per la leggera brezza di mare o per l'angoscia di non sapere cosa stesse succedendo; sta di fatto che per scacciare il formicolio, sentii il bisogno di muovermi e così cominciai a camminare sulla riva bagnata, confine ultimo di quell'assurdo Paradiso. Poi, mi inginocchiai e le ossa delle gambe scricchiolarono. Osservai i granelli di sabbia che si estendevano all'infinito sotto di me, anch'essi trasportati ogni tanto dallo spartito del vento, come danzatori mai stanchi. Mi chinai e ne raccolsi un pugno, per poi riaprire la mano e vedere i granelli scorrermi fra le dita e ricadere giù, fluidi e incredibilmente fragili.
Non fanno rumore, bisbigliano pensai.
La sabbia conteneva un nucleo invisibile ma vivido di poesia, che lasciava una patina ruvida insinuarsi fra le vene delle mani, come una sorta di ricordo percettivo da portarsi dietro, capace di sussurrare dolcemente all'orecchio come il canto di un angelo. Soffermarsi ad ascoltare ciò che la Natura vuole dirti spesso può portare a delle sensazioni nuove e inaspettate.
Per qualche secondo, su quella spiaggia, non avevo provato paura, finché all'improvviso, sopra di me si levò un grido stridulo: un gabbiano stava eseguendo un volo lento e armonico verso gli approdi sicuri delle scogliere. Il suo richiamo diventava sempre più lontano, mentre io lo ammiravo estasiato, finché non decise di virare e tornare indietro nella mia direzione.
Calò l'altezza e atterrò sulla sabbia a pochi passi da me. Io ero ancora in ginocchio alle prese coi miei granelli e non mossi un muscolo per paura di spaventarlo: aspettai di scoprire che intenzioni avesse.
Mi si avvicinò lentamente, muovendo le zampe una avanti all'altra come un soldato in marcia, e tese in avanti il muso verso la mia mano aperta. Da vicino sembrava una creatura divina: il suo piumaggio era bianco neve, con qualche contaminazione di nero sulla punta delle ali, forse per tranquillizzare gli esseri umani sul fatto che fosse imperfetto anche lui, in fondo.
Ciò che di quell'essere mi colpì profondamente, però, fu lo sguardo: aveva la fisionomia allungata tipica degli uccelli più nobili, ma quello scorcio di muso sembrava rispettare delle prospettive guidate dalla geometria della velocità. Nonostante la sinuosità delle linee potesse portare a concepirli come superbi, i suoi non erano occhi cattivi, ma densi: la piccola pupilla nera era incastonata in un'iride stranamente azzurra, come una perla nel profondo abisso del mare, su cui egli stesso volava e che poteva custodire i segreti interi di ogni oceano.
Ciao bello, vuoi ascoltare anche tu?
Il gabbiano mi guardò e − probabilmente in preda ad una follia sensitiva − sembrò annuirmi; appoggiò la testa sul mio palmo e in quel momento, secondo una strana legge anatomica, percepii chiaramente il suo battito, un rimbombo repentino e inafferrabile, dovuto all'incessante fatica del volo, che lo rendeva incredibilmente vivo.
Quel suono ritmato calò di intensità, ma dentro di me lasciò intatti dei brividi mai provati fino a quel momento. A quel punto alzai l'altra mano e gli accarezzai dolcemente il capo; lui chiuse gli occhi e io misteriosamente scomparvi in un lampo di luce.

Quando il bagliore svanì, mi stropicciai gli occhi e mi resi conto di essere di nuovo nella biblioteca: l'ululato del mare non si sentiva più e il libro rosso era scomparso. Ero ripiombato nel silenzio, dopo aver assaporato la vertigine della leggerezza; ancora la fioca luce del lampadario illuminava caldamente l'ambiente.
Istintivamente rivolsi lo sguardo all'ascensore: ancora chiuso.
Cos'altro deve succedermi? pensai.
Poi mi resi conto che il libro era sparito e mi voltai verso la libreria lungo la parete di sinistra, attraversato da un angosciante pensiero.
Devo sfogliarli tutti?!
Mi avvicinai tremante alla sola idea di dover conoscere tutto ciò che quei libri avevano da dirmi e sperai che fosse tutto un sogno, perché cominciavo a sentirmi in gabbia.
Toccai il primo libro di uno scaffale posto ad altezza d'uomo, ma non riuscii a tirarlo fuori; nella poca luce, mi avvicinai e in quel momento mi resi conto che si trattava di un poster.
Sono tutti finti...
Sgranai gli occhi. Un gigantesco poster attaccato alla parete di sinistra aveva sostituito quella che io credevo fosse una libreria fornitissima: in un punto dello scaffale centrale era rappresentato anche lo spazio vuoto da cui presumibilmente doveva essere stato tirato fuori il manuale rosso sulla poltrona.
Ma se la libreria è finta, quel libro come faceva ad essere reale?
Non avevo neanche terminato di pronunciare la domanda a me stesso, che sentii un suono di campanello alle mie spalle e la luce della cabina dell'ascensore illuminarmi. Non ci pensai due volte ed entrai. La porta si richiuse dietro di me.
Chiusi gli occhi e respirai a pieni polmoni.
Finché non mi svegliai.

Un vento di distanza Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora