VENTI - FINALE

41 0 0
                                    

???

Quando l'intenso bagliore si placò, mi ritrovai nel letto di casa mia.
Spalancai gli occhi e la prima cosa che vidi fu il soffitto. Inspirai rumorosamente e a fondo, come se fossi appena uscito da un'apnea profonda. Mi tirai su, completamente fradicio di sudore e guardai la finestra ansimando: il sole stava albeggiando e la luce che filtrava dalla tapparella era ancora molto fioca e ostacolata dalle nuvole che dal giorno prima sembrava non volessero più andar via.
Era stata una notte senza fine, una serie di quattro sogni incastrati uno dietro l'altro che avevano messo seriamente a dura prova la resistenza del me onirico. Sentivo, ora, un flusso vitale di energia più forte del solito scorrere dentro me, un'adrenalina che quei quattro personaggi mi avevano trasmesso, ognuno a modo loro, attraverso il filo conduttore dell'Amore, declinato in varie rappresentazioni. Avevo provato spesso e anche durante quel viaggio, la rabbia e la perdizione del carcerato, così come l'abbandono del giovane innamorato, vittima di un veleno romantico; non nego neanche di aver manifestato la dolcezza verso il progetto migliore che mi fosse riuscito nella vita, la libreria, come aveva fatto la signora dell'appartamento, un essere umano costituito di speranze e fedeltà. Poi, stranamente e senza seguire il percorso che fino a quel momento era stato predisposto per me, mi ero ritrovato preda della mia stessa coscienza, che era apparsa come il luogo più infinito che avessi mai visitato, dove il vento rigido della verità sferzava ogni cosa.
Era la potenza dell'incontro con me stesso che ancora mi teneva ancorato al letto. Casa mia mi appariva, mai come quel momento, un semplice involucro di mattoni e cemento dove alleggerire il peso delle fatiche del mio corpo e verso il quale cominciai, per la prima volta, a provare insofferenza. Verso quelle quattro pareti che avevano ospitato i miei costanti risvegli traumatici e che non avevano fatto nulla per aiutarmi; verso la scrivania, diventata ormai un cerchio infernale dove non volevo più mettere piede; verso quella stessa amara ripetizione costante di uno squilibrio emotivo, che solo l'ultimo sogno era riuscito a mitigare.
Se sei bravo a raccontare, racconta, ma prima fallo a te stesso mi rimbombò nella testa e la sua eco raggiunse le profondità più intime del mio corpo, proprio come se quel pensiero lo avessi partorito direttamente io.
Ora, forse, mi sembrava più chiaro il senso di quella salita.
Ora, forse, mi sembrava più chiaro ciò che avrei dovuto fare.
E di sicuro quello non era il posto in cui dovevo stare.
Il tragitto per arrivare in libreria fu deserto, come il giorno prima. Il cielo ancora ammalato di nuvole. Il silenzio in cui tutto era immerso aveva la potenza di una caduta nel vuoto. Neanche il mare parlava più. Di gabbiani in cui poter confidare, neanche l'ombra. Era il giorno fresco di un'estate che appariva senza tempo. Quando entrai in libreria, tutto apparve nella stessa posizione di come l'avevo lasciato. Mi sedetti dietro al bancone e sospirai. Ora sì, che mi sentivo nel posto giusto. Il posto dell'attesa.

Tutto comincia con un'attesa di solito.
Si attende il giorno in cui nasciamo.
Si attende di imparare a parlare, di crescere.
Si attende l'amore, l'amicizia, la morte.
Ora ero consapevole: l'insieme delle mie attese mi aveva condotto lì, su quello sgabello in quella libreria ad aspettare gli scopi degli altri.
Le loro vite.
Aggrovigliate come i fili di un gomitolo di lana usato da una vecchia vedova; tentatrici come le birre di un giovane innamorato che ha perso la fiducia nei sentimenti; sanguinanti come le catene di un carcerato; roboanti come il ruggito di un fulmine; sfuggenti come un treno che corre all'impazzata verso un mondo senza paura; fiammanti come un bicchiere di whisky in gola; rigide come la vita di un numero; leggere come la fune di un funambolo in bilico; libere come il volo senza meta di un gabbiano che ha scoperto il segreto della poesia.
Le avevo aspettate tutte, anzi ero stato scelto per l'attesa, preservato nel guscio di un ascensore che senza parlare, mi insegnava a vivere ogni volta che lo pronunciavo.
Quando riaprii gli occhi, fuori dalle vetrate della libreria il mondo era stato avvolto in un bianco senza confini, da cui li vidi emergere ed entrare nella libreria, ognuno vestito della propria fiera dignità.
C'erano tutti.
Il primo ad entrare non poteva che essere il signor S., che indossava la fierezza preziosa della vecchiaia, che su di lui non si sgualciva mai, anzi diventava il più elegante abito da sera con cui danzare al galà della vita.
Poi, fu il turno della signora C., che portava addosso la fierezza raffinata della velocità, quella che indossava per comodità sulla metropolitana, fra la lettura di un libro e la ricerca di una qualche forma di fiducia.
Entrò in seguito il controllore delle motivazioni, con addosso una fierezza di un nero lucido, dall'andatura composta e distinta come richiedeva il suo ruolo, che nascondeva il fervido desiderio di diventare passeggero e immergersi nel mondo fuori dalle stazioni.
Si presentarono, poi il signor T. e la signora J., dalle fierezze languide, decorate da strascichi romantici, come solo due cittadini parigini potrebbero avere.
Dopo, venne la signora M., vestita di una fierezza pura e incorrotta, di chi ha visitato l'origine del baratro e ne è uscita rinata.
Entrò quindi il giovane innamorato, senza birre stavolta e dalla camminata più controllata, agghindato in una fierezza adolescenziale e ingenua, di colui che sta per avere un appuntamento romantico con la vita e non ha perso la fiducia di innamorarsi ancora.
Fu la volta poi dell'acrobata, avvolto nella sua fierezza di scena, quella eclettica e colorata, il principio di ogni sua meraviglia, che mostra a tutti i suoi spettacoli.
Entrò in seguito il carcerato, infagottato in una fierezza rossa e macchiata di disperazione, ingabbiato ai polsi dalle catene, ma libero nell'animo.
Poi, fu il turno di Prof., dalla fierezza formale e austera di un professore che entra in classe e disegna alla lavagna lo schema universale per comprendere il mistero della vita.
Dopo, entrò la signorina F., vestita di una fierezza leggera, estiva e macchiata di vino, pronta a ballare libera come nelle sue notti napoletane.
Venne quindi Nicolò e la sua mamma, che indossavano una fierezza intima, semplice ma estratta con il sudore di chi ha il compito di insegnare le istruzioni per il montaggio della vita e l'ingenuità di chi invece, non ascolta, accartoccia il foglio e ne fa un aeroplanino.
Entrarono poi Roy e la Morte, vestiti di una fierezza quasi inquietante, portatrice del gusto schietto e cocente delle ultime gocce della vita, rimaste sul fondo di un bicchiere a sciogliersi nel ghiaccio.
Fu in seguito la volta del signor M., che indossava la sua classica fierezza artistica, dipinta dai colori dell'astratto, con i quali cercava di mostrare nei suoi quadri il volto dei sentimenti.
Poi, venne il giovane giapponese, con addosso la fierezza fragile e romantica di un ciliegio che rifiorisce ogni anno e non perde mai il gusto squisito con cui rende dolce la terra.
Entrò quindi la signora R., vestita di una fierezza ancora acerba, insicura, che l'aveva resa una mamma premurosa e onesta, incubatrice di una forza ancora tutta da fiorire.
Fu poi il turno del leone, ricoperto interamente da una fierezza felpata, ruggente e senza paura, ma allo stesso tempo rispettosa e custode del segreto profondo della fragilità.
Venne quindi la vedova, rannicchiata in una fierezza di lana calda, accogliente e ancora intrisa dell'odore di un amore vissuto al di là dei confini del tempo e dello spazio.
Poi, per ultimo, entrò il bambino, vestito con la fierezza ingenua dell'infanzia, che mai perde la freschezza e la genuinità con le quali scopre le cose del mondo e dà loro un nome. 

Ognuno si posizionò di fronte a me in piedi dietro al bancone delle novità − il leone accoccolato come un gattone addomesticato − nella loro miglior posa, quella attraverso la quale due gambe, due braccia ed una testa escono dai recinti di un corpo per diventare frammenti smontati di opere d'arte.
La miglior costruzione di sé...
Riconobbi in ciascuno lo stesso sguardo di quando li avevo incontrati separatamente, come il ricordo nostalgico di una vacanza passata che riaffiora guardando i souvenir acquistati durante quel viaggio.
Quelle creature erano state i miei viaggi e i loro occhi erano, ora, i souvenir che ritiravo fuori dal cassetto dopo tanto tempo. Erano pupille vigorose, alcune logorate da un dolore che le aveva temprate, altre immerse nella forza della dolcezza. Nessuna di esse traballava. Anche i solchi dei pianti o delle rughe non erano più secchi, ma a loro modo ardenti. Nessuno disse nulla. Le loro fierezze mi guardavano e basta.
Poi, della libreria rimase soltanto il bancone e lo sgabello, da cui nel frattempo mi ero alzato. Gli scaffali, i tavoli, i banchi esterni, il magazzino sul retro, le pareti e tutti i libri furono avvolti dal bianco. Fu un dissolvimento silenzioso che non spaventò nessuno; l'uscita di scena con la quale la poesia si allontana dal palcoscenico della vita. Poco dopo, dietro di me sentii un luccichio dorato dal quale apparve l'ascensore. Non uno qualunque, il mio. Tutti ci voltammo a guardare quell'apparizione improvvisa, il grigio ammaccato della macchina e la porta aperta che sembrava avesse voglia di accoglierci tutti. L'interno era rimasto uguale, ancora mi sembrava di sentire il sapore delle mie lacrime lasciate nell'aria chiusa di quel vano poco prima o la rabbia dopo l'incontro con il carcerato. Sulla parte alta della porta un cerchietto luminoso che segnalava l'inizio e la fine delle fermate. Dentro, al posto della luce, una fiammella bruciava.
Mi voltai verso i miei compagni, che mi conoscevano ormai talmente bene da sapermi in difficoltà. Nessuno mi disse nulla, ma continuarono a fissarmi. Si alzò un vento leggero, una musica libera di fondo che espandeva la eco dei miei pensieri.
Ad un tratto il bambino si mosse, venne davanti a me e in punta di piedi poggiò sul bancone il quaderno chiuso delle mie poesie e una penna. Sgranai gli occhi. Non avevo più aperto il cassetto di camera mia, avevo pensato che autoconvincermi di vivere il paranormale solamente nei miei sogni fosse una buona tecnica di autodifesa. Ora, quella copertina a tinta unita, non mi spaventava più. La aprii e ritrovai tutte le poesie, contrassegnate ognuna dagli adesivi della stella, che brillavano tutti come veri astri. Giunsi alla fine dell'ultima poesia, ma il quaderno conteneva ancora molte pagine vuote.

− Se sei bravo a raccontare, racconta, ma fallo prima a te stesso.
Fu il bambino a parlare. Mi guardò intensamente ancora per poco e nei suoi occhi mi sembrò di scorgere i segreti dell'Universo intero. Poi tornò al posto così come era venuto.
Guardai ancora una volta l'ascensore, poi passai agli ospiti che avevo davanti a me.
− Le vostre coscienze sono il mio scopo, − dissi a tutti loro.
Presi la penna e mentre stavo per scrivere la prima parola, il vento si fece più potente, una spinta giunta direttamente dal centro della Terra a portare l'ultimo ospite. Anche se il bianco aveva annullato ogni forma di volume o distanza, volli immaginarmi che fosse giunto da lontano, dall'angolo più remoto del pianeta, soltanto per vedermi scrivere la mia Storia. Planò elegante nel ballo che concludeva l'opera, prima che il vento chiudesse il sipario e facesse partire gli applausi.
Il gabbiano si appollaiò sulla cima dell'ascensore, ricoperto dalla fierezza principesca della poesia. E mi guardò piegando leggermente il muso. In quel momento mi consegnò con lo sguardo il suo ricordo.
Il mio souvenir.
Guardai la pagina bianca del quaderno e quando cominciai a scrivere, la penna si mosse da sola.

"Il movimento perpetuo degli ascensori..."


FINE.

Un vento di distanza Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora