NOVE

42 0 0
                                    

Sogno

La porta dell'ascensore si aprì dopo il suono acustico che segnalava l'interruzione della salita.
Caldo.
Questa volta la prima sensazione che attraversò il mio corpo fu quella di un calore dolce e di una luce intensa. Davanti a me si espandeva a perdita d'occhio una vallata fiorentissima. Mi guardai attorno e mi resi conto di essere sulla cima di una collina, una vera e propria platea disposta di fronte a quello spettacolo magnificente, ma allo stesso tempo sconcertante: dall'alto riuscivo a scorgere ai lati della vallata due boschi rigogliosi e molto fitti, come tende rosse di un sipario che si raccolgono ai margini del palcoscenico e lo incorniciano. Sembrava di stare realmente in un teatro e lo spettacolo a cui stavo assistendo metteva i brividi: la distesa d'erba della valle giungeva ai margini dell'orizzonte in una corsa sfrenata verso il Sole, a cui sembrava perfino gli stesse stringendo la mano. Al centro, uno stagno immobile e dalla forma astratta brillava di un'aura quasi mitologica, sferzato ogni tanto dalla leggera brezza che si sollevava da terra. Sulla sua superficie, ogni tanto, qualche uccello si poggiava, come fedeli guardiani, a difesa dello specchio d'acqua. Il resto del paesaggio era una prosecuzione protratta all'infinito dei due boschi.
L'ascensore stava lì ad aspettare fieramente il momento in cui avrei dovuto riprendere il viaggio: il fatto che si trovasse sulla cima di un'altura, sradicato da ogni forma di collegamento elettrico e col motore ancora funzionante, era la cosa che in quel momento mi sconvolgeva di meno. Feci una rapida ispezione attorno all'apparecchio chiuso, ma non trovai nulla di interessante, solo qualche segno di vernice saltata dalle pareti esterne e la luce fissa nel pannello superiore sopra la porta.
Tornai nel punto in cui cominciava la discesa diretta allo stagno, puntai il viso verso il Sole, chiusi gli occhi e per qualche secondo respirai a pieni polmoni. Non sapevo cosa ci facessi lì; ogni tanto per pochi secondi, una sottilissima voce mi raccontava sussurrando di un corridoio buio e di una biblioteca, ma poi subito spariva, come se avesse paura di continuare a parlarmi. Mi sembrava tutto così strano, ma allo stesso tempo mi sentivo inconsapevolmente abituato, come se quello che stavo osservando non mi fosse poi così nuovo.
Quando riaprii gli occhi e osservai nuovamente lo stagno, notai un dettaglio che a prima vista non mi era apparso: oltre a quelli posati sul pelo dell'acqua, c'erano degli uccelli appollaiati a mezz'aria sopra la superficie dello stagno, intenti a leccarsi le piume.
Ma è impossibile, stanno galleggiando in aria pensai stupito.
Per verificare, scesi dalla collina consapevole che, prima o poi, quando l'ascensore mi avesse chiamato, l'avrei dovuta risalire: il versante dell'altura era liscio, curvilineo e fatto di erba fresca e bagnata, spesso scivolosa, senza appigli o rocce che aiutassero nel percorso. Il percorso a ritroso in salita sarebbe stato parecchio più complicato della discesa. In ogni caso, scesi un passo alla volta con le ginocchia piegate e molto lentamente, anche perché non volevo che gli uccelli si spaventassero al mio arrivo.
Una volta giunto a valle mi accorsi di quanto fossero grossi e alti gli alberi dei boschi ai lati dello stagno; erano foreste talmente fitte che anche un essere umano filiforme avrebbe fatto fatica a districarsi fra i tronchi e le loro radici.
Percepii un'insolita paura. In fondo, il mio era stato solo un cambio di prospettiva, un modo per addentrarmi attivamente nel fulcro della situazione che stavo vivendo; in realtà, ora che guardavo il laghetto piatto di fronte a me e la vegetazione alla mia stessa altezza, pensai che osservare le cose dall'alto ispira una certa sicurezza, come se si riuscisse a tenerle sotto controllo senza problemi; mentre in questo modo, compiuto il passo per addentrarmi, avevo come l'impressione di poter essere attaccato in qualsiasi momento e con estrema facilità, perché il mio sguardo non era più in grado di abbracciare nell'insieme tutto ciò che avevo davanti e questo mi faceva sentire nudo e indifeso.
Guardai l'ascensore, un rettangolo grigio che sembrava fissarmi, e deglutii. A mano a mano che mi avvicinavo allo specchio d'acqua, la verità si faceva sempre più chiara: gli uccelli non stavano fluttuando in cielo, ma erano posati su una sottile corda che rimbalzava ad ogni loro piccolo movimento. Quando fui a pochi centimetri da quelli poggiati sulla superficie dello stagno, uno di loro mi guardò per pochi secondi e poi scappò, dando vita ad un fuggi-fuggi generale. Passarono pochi secondi e mi ritrovai da solo, mentre lo stormo di volatili sopra di me si divideva in cielo.
La corda tornò ad attirare la mia attenzione: con lo sguardo percorsi entrambe le direzioni in cui si allungava, creando una leggera curva verso il basso a causa del peso, e notai che effettivamente sui rami di due alberi opposti erano stati eseguiti dei nodi con le estremità della corda.
Perché mai fissare una corda in questo posto e in questo modo?
Mi avvicinai all'albero di sinistra: aveva un tronco larghissimo, simile a quello di una quercia, una corteccia consumata da dei tagli verticali e una chioma folta e verde. Quando alzai lo sguardo rimasi scioccato: la parte finale della corda, quella che si intrecciava nel ramo e costruiva il nodo, era di acciaio.
Ovviamente la corda era troppo in alto per poterla tirare con le mani e verificare l'effettiva resistenza di quel nodo; quindi, mi guardai attorno alla ricerca di una soluzione per soddisfare la mia curiosità. Tornai allo stagno, mi piegai in avanti e osservai attentamente: a differenza della maggior parte delle conche chiuse, qui l'acqua non era affatto torbida, ma faceva risplendere in modo molto chiaro il fondale variopinto di sassi di ogni colore.
Quando immersi la mano per prenderne uno, fui pervaso da una frizzante sensazione di freschezza, ben diversa da quella rugosa patina di salsedine che ricopre le mani immerse nell'acqua del mare. Qui mi sembrava di aver sfiorato una fonte miracolosa che stava conferendo linfa vitale a tutto il mio corpo.
Per qualche secondo rimasi ipnotizzato dal movimento lento dell'acqua che deformava l'immagine delle mie dita, poi afferrai un sassolino rosso e amorfo, ma mentre feci per ritrarmi, la mia mano rimase bloccata sott'acqua: era come se una catena invisibile la stesse tenendo legata alla superficie dello stagno e le permettesse solo di muovere le dita, ma non di uscire. Tentai disperatamente più volte di tirare il braccio senza ottenere risultato, finché i minuscoli movimenti dell'acqua cominciarono a seguire delle direzioni particolari, producendo un sottilissimo sibilo che cresceva sempre più di intensità.
Dopo pochi secondi, vidi l'acqua muoversi davanti a me con la stessa morbidezza della lava che fuoriesce dalla bocca di un vulcano; essa cominciava ad acquisire una certa densità, nonostante continuassi a percepirla fredda sulla mano bloccata. Contemporaneamente, sentii alzarsi una fresca brezza tutt'intorno, come il leggero sfrigolio dell'archetto sulle corde di un violino. In quel momento, provai un chiaro sentimento di paura: di solito, il vento anticipa ogni forma di tempesta, anche quelle prive di temporali e in quel momento, mancava solo una tempesta per far naufragare definitivamente il mio animo nell'abisso della confusione.
Ad un certo punto l'acqua formò delle lettere, poi delle parole e infine delle frasi...
L'acrobata esiste
nella dimensione della meraviglia.
Trasporta gli estremi
nel suo profondo corallo
mentre le mani sfumano
i contorni del cielo.
Vive
privo di coordinate,
non vuole guardiani
non segue fari
assorbe
solo
il suo viaggio in tempesta.
Era una delle mie poesie.
Non ebbi il tempo di provare a darmi delle risposte sul perché si trovasse lì, che il sibilo si dissolse e l'acqua perse di colpo la sua voluminosità, tornando a mostrarmi il fondale deformato dello stagno. Ritrassi lentamente la mano ed essa uscì, gocciolante, mentre stringeva il sassolino rosso. Mi alzai in piedi sconcertato, tentai di ignorare quella sensazione, tornai all'albero e colpii il punto del ramo in cui si trovava il nodo della corda. Il sassolino produsse un suono stridulo, rimbalzò e cadde nuovamente a terra. Era davvero d'acciaio.
Ma che stregoneria è questa?
Deglutii, preso dal panico di non avere minimamente sotto controllo la situazione in cui mi trovavo. Osservai disperatamente anche l'ascensore. Chiuso. Nulla sulla collina sembrava cambiato rispetto a quando l'avevo lasciata.
− Ehi, che stai facendo? 
La voce maschile provenne dalle mie spalle, era lontana e il tono sembrava essere più curioso che inquisitorio. Mi voltai di scatto e vidi dall'altra parte dello stagno, ai piedi dell'albero dove era annodata la seconda estremità della corda, un uomo. La cosa che più mi colpì fu la luminosità che emanava anche a quella distanza; avvicinandomi verso di lui mi accorsi di com'era vestito: indossava una giacca blu completamente tappezzata di brillantini e priva di maniche. I pantaloni, dello stesso colore, scendevano ripidi senza pieghe verso delle scarpe eleganti nere e lucidate da poco. La sua corporatura era snella ma definita: a giudicare dai bicipiti avrei pensato fosse un ballerino di danze latino-americane; capelli corti castani, barba rasata e volto spigoloso completavano l'identikit di questo strano personaggio.
Lo guardai intimorito.
− Scusi?
Lui sorrise.
− Ti ho chiesto cosa volevi fare con quel sassolino, − e indicò l'albero alle mie spalle. La sua voce era calma e comprensiva. In quel momento mi sentivo come un bambino che viene scoperto dalla mamma in una delle sue marachelle; ero talmente intontito da non trovare neanche le parole per rispondergli.
− Mi capisci quando parlo? Parli la mia lingua? − si preoccupò l'uomo scandendo bene le parole, mentre con le mani faceva dei gesti per mettere alla prova la mia lucidità.
Con uno scossone della testa, mi ripresi.
− Sì sì, la capisco. È che non so chi lei sia e perché ci troviamo qui.
− Se per questo neanche io so chi sei tu. Ma importa a qualcosa, in fondo? E comunque, se cercavi di sciogliere quel nodo con un sassolino, ti assicuro che è fatica sprecata. Puro acciaio, indistruttibile, come le emozioni, − e batté il pugno destro sul palmo della mano sinistra, per enfatizzare il concetto. Deglutii per provare a dare un colorito umano alla mia voce.
− Ma come è possibile che un nodo sia d'acciaio?
L'uomo non mi rispose, sorrise e si spostò dietro l'albero che gli stava vicino; ne uscì con un monociclo rosso, dal sedile in pelle nera e una scala di legno. Appoggiò quest'ultima sul lato destro del tronco, la scosse un paio di volte per assicurarsi che fosse ben piantata al suolo, poi mi guardò.
− Ti va di darmi una mano? − disse indicando la scala.
Io mi avvicinai lentamente, guidato più dall'istinto che da una reale motivazione. Mentre l'uomo cominciava a salire i pioli della scala, reggendo con una mano il monociclo, io sostenevo la scala per permettergli di proseguire. Più lo guardavo, ignaro di chi fosse e di cosa stesse per fare, più lui mi rispondeva sorridendo. Una volta in cima fece segno che avrei potuto allontanarmi; rimase accucciato in uno strano incastro di rami, poi posizionò il monociclo all'inizio della corda, si issò e con uno slancio si sedette su di esso, riuscendo a mantenere un perfetto controllo, nonostante i movimenti così ampi nel vuoto.
Da quel momento in poi sembrava che pedalare su un monociclo a mezz'aria sorretto da una corda gli venisse più semplice che camminare: si sistemò sul sellino, allargò le braccia per bilanciare l'oscillazione della corda e mi guardò col suo immancabile sorriso stampato in volto.
− Che cos'è per te la meraviglia? − mi chiese serenamente.
Per l'ennesima volta non seppi cosa rispondere. Divorato dall'incredulità, l'unica cosa che riuscii a fare fu sbattere gli occhi ripetutamente e, a quanto pare, gli bastò.
− Ecco, questa è la risposta che cercavo, − mi disse e cominciò lentamente a pedalare.
− Nooooo! − gli urlai e sporsi in avanti il corpo, come a volerlo aiutare; fu un riflesso istintivo nei confronti di qualcuno che ritenevo in pericolo, ma bastarono pochi secondi per capire che quell'uomo si sentiva talmente a suo agio in quella condizione da sembrare una creatura appartenente al cielo, piuttosto che alla terra. Avanzò sulla corda con la semplicità di chi sta facendo una passeggiata, alcuni uccelli tornarono ed ebbero l'ardire di posarsi sulle sue braccia perfettamente orizzontali, poi chiuse gli occhi, alzò il viso e si lasciò baciare dalla luce del sole.
...il suo viaggio in tempesta.
Nel mentre, muoveva lentamente le mani in volo come se stesse modellando della creta, come se fra le dita gli fosse capitato il materiale grezzo con cui costruire e organizzare l'Universo.
Era felice e senza guida. Conosceva il suo scopo.
Per qualche secondo mi apparve evanescente, come se da un momento all'altro avesse potuto spiccare il volo insieme ai suoi simili; ma non lo fece. Probabilmente il suo compito sulla terra era troppo importante per permettergli di tornare alle sue origini; forse portava dentro di sé un messaggio essenziale, che non poteva essere lasciato al vento.
Quando giunse all'altro capo della corda mi chiese di spostare la scala all'albero sul quale si trovava; una volta sceso, si stiracchiò e tirò un sospiro.
− Ma tu chi sei? 
Il tono della mia voce era basso e sconvolto.
− Sono un acrobata, − mi rispose come se non ci fosse bisogno di specificarlo.
− E cosa ci fai qui?
− Io ci vivo qui, è la mia dimensione.
− E quale sarebbe? Cosa c'entro io in tutto ciò?
− Tu sei venuto a trovare la meraviglia.
− Eh?
L'acrobata sorrise.
− Sì, lo ammetto, è difficile avere una reazione diversa da questa, soprattutto quando scopri l'irrazionale che c'è in te.
− L'irrazionale? Non capisco.
− Quando percepisci qualcosa di meraviglioso, sono i tuoi occhi a parlare, come ti è successo prima. Le cose irrazionali non puoi afferrarle con il retino della parola, puoi solo sentirle.
Pronunciò quell'ultima parola in modo quasi solenne; ogni singolo suono che la componeva era uscito dalla sua bocca con un volume denso e corposo.
− Ma tu come fai a sapere tutte queste cose? E perché le stai dicendo proprio a me?
L'acrobata mi rispose mentre sistemava il monociclo e la scala dietro l'albero.
− Guarda, in realtà le uniche cose che conosco sono quelle che il mio istinto decide di sapere. Non so perché tu sia venuto qui a farmi visita... Ti stavo solo osservando mentre cercavi di rompere il guscio emotivo di quel nodo d'acciaio con un sasso. Io sono solo un semplice custode, difendo la mia meraviglia. Dovresti farlo anche tu.
− Il guscio emotivo?!...− ripetei scandendo bene ogni parola per sperare in una sua spiegazione più dettagliata.
− Sì, esatto, il guscio emotivo. Là dentro è racchiuso il senso della mia meraviglia, per questo motivo è di acciaio. Essere un acrobata mi fa sentire vivo, capace ancora di emozionarmi e di considerarmi sensato nel mondo. Tutto questo patrimonio che vedi qui attorno mi ha condotto direttamente alla felicità e non potevo permettermi di non difenderlo, quindi ho scelto l'acciaio. Quel nodo è lo stesso che si crea in gola quando assisti a qualcosa di meraviglioso, di quando ti innamori o di quando, come me, ti senti libero.
− Ma come faccio io a capire quale sia la mia meraviglia?
− Non lo puoi capire, è lei che viene da te. Te ne accorgi negli istanti in cui sei sicuro di stare facendo la cosa più giusta. Non ti serve un faro da seguire, la razionalità è un giocattolo nelle mani dei convinti; devi solo lasciarti sorprendere, come quando assisti ad un temporale...
Le ultime parole gli uscirono lente e inafferrabili, finché a prendermi fu proprio una pioggia torrenziale. Il cielo si oscurò rapidamente, l'aria divenne fredda e io persi anche la luce del Sole, l'unica cosa che mi aveva infuso sicurezza fino a quel momento. Si alzò un vento combattivo che fece scappare tutti gli uccelli rintanati nelle chiome degli alberi e che increspò le pendici dell'altura. Mentre osservavo inerme la Natura girare il suo film, mi accorsi che l'acrobata era sparito, come volatilizzato davanti ai miei occhi.
In quel momento fu solo panico. Provai a ripararmi sotto un albero, ma la pioggia arrivava comunque: oltre le nuvole, il cielo stava brontolando, un segno inequivocabile che il peggio doveva ancora venire. Sentivo i battiti del cuore accelerare di ritmo e contemporaneamente la pioggia aumentare di intensità: lo stagno era puntellato di gocce, ogni singola madida foglia lasciava cadere minuscoli scrosci d'acqua verticali ad intermittenza irregolare. Respiravo a fatica e speravo che tutto terminasse presto, ma poi cominciarono i tuoni, urli grotteschi di un'entità superiore che stava sfogando la sua frustrazione. Ogni boato era più potente di quello precedente e tutti riuscivano a sfondare senza difficoltà il fragile scudo che proteggeva la mia anima, facendomi rabbrividire.
Poi, ripensai ai versi della mia poesia e senza troppi indugi, spinto da una forza inconsapevole, chiusi gli occhi e uscii allo scoperto. Rapidamente la pioggia cominciò ad insinuarsi in ogni piega dei miei vestiti, fra i pori della pelle, nelle pieghe del cuore. Allargai le braccia ed imitai il movimento modellante che l'acrobata aveva eseguito sulla corda, nel disperato tentativo di percepire sotto le dita la sua stessa materia grezza a cui dare una forma.
La mia forma.
Inspirai a pieni polmoni il petricore della pioggia sul terreno: sembrava di annusare il profumo delle stelle dell'Universo. Mi sentivo vivo, fradicio, impresentabile, liquido, ma vivo.
Scrollai i capelli e percepii le gocce che caddero dalle punte come appendici del mio corpo. Mi sentivo vuoto e al contempo la persona più sazia del mondo. Non so se l'acrobata avesse davvero preso forma da quei versi, ma io non potevo tirarmi indietro dal cercare di raggiungere il suo stesso grado di coraggio. L'acqua che mi aveva incatenato con la sua densità si era trasformata in pioggia liberatoria. La mano bloccata ora era in grado di plasmare.
Forse è questa la mia meraviglia...

Mentre il mio corpo aveva raggiunto un solido equilibrio interiore e il temporale si abbatteva su di me più stabilmente, sentii un suono provenire dall'alto. Mi voltai e vidi l'ascensore aperto che emetteva un richiamo acustico.
Era pronto a partire.
L'erba scivolosa sul versante della collina e il fatto che fossi completamente bagnato r il percorso più difficile, ma l'unica cosa che per me contava in quel momento era sentire che quella salita fosse la cosa più sensata che avessi mai fatto nella mia vita.

Un vento di distanza Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora